Al di là del «depressismo». Sulla condizione giovanile

Al di là del «depressismo». Sulla condizione giovanile

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Intervista a D.M. sulle stratificazioni interne alla composizione giovanile

Comprendere per organizzare, organizzare per comprendere è questa la cifra della conricerca. In questo senso l’intervista a D.M. (militante, classe 99) che presentiamo cerca di dare concretezza al primo di questi due movimenti. Comprendere cosa sta succedendo tra i giovani è di una fondamentale importanza politica, soprattutto in tempi in cui i tradizionali circuiti militanti non riescono più ad organizzare questo indispensabile pezzo di composizione sociale e la pandemia ne sta ridisegnando le forme di vita. L’intervista, che va soprattutto apprezzata non tanto perché parla un giovane in quanto tale ma perché parla un militante che è in grado di valorizzare in termini di analisi politica la sua determinata collocazione sociale (capacità rarissima e preziosissima) avverte di non pensare i giovani come un blocco sociale omogeneo. Al suo interno le stratificazioni sono molte e importanti e bisogna tenerne conto se la domanda a cui vogliamo rispondere é: qual è il soggetto che può organizzarsi per una politica della rottura?    

   

Che lavoro fai?

Studio all’università, ho lavorato come barista fino alla fine del primo anno accademico (ora sono al terzo) perché non ce la facevo più a star dietro a studio e lavoro. E perché banalmente mi ero anche rotto di lavorare pagato il minimo sindacale per far finta di mantenermi da solo, quando in realtà mi baso sul reddito dei miei genitori che, pur non sguazzando nell’oro (operaio in fabbrica e segretaria, in provincia), avevano previsto che io studiassi all’università e di conseguenza pian piano avevano messo da parte il capitale necessario per mandarmici senza dover fare i salti mortali.

Come descriveresti il pezzo di composizione giovanile con cui hai un rapporto?

Per inquadrare un po’ meglio la situazione: sono nato nel 1999 in un paese di provincia, alle superiori ho studiato in un liceo e poi ho iniziato l’università da fuori sede a Trento dove frequento un collettivo politico. Vivo in appartamento con dei miei coetanei studenti, torno a casa dai miei genitori ogni 3-4 settimane.

Da quando ho iniziato l’università i giovani con cui ho a che fare sono tutti iscritti all’università, quando torno a casa dai miei genitori ribecco gli amici del paese con cui giocavo da ragazzino e che ora lavorano praticamente tutti, ma non può essere definito un rapporto stretto. Diciamo quindi che per quanto riguarda la componente non liceale delle mie amicizie, “non so bene come procede la loro vita” da circa la terza superiore.

Per quanto riguarda la componente universitaria ho a che fare principalmente con i miei compagni di corso (ingegneria) e con un giro largo di persone che ruotano intorno a facoltà umanistiche (sociologia, filosofia etc.).

In entrambi i casi, escludendo qualche eccezione, quasi tutti figli di un ceto medio abbastanza scolarizzato (genitori che han fatto le superiori, a volte l’università, lavorano in ufficio), più o meno impoverito (ossia che bene o male, se ci fosse un figlio in più da mandare all’università in qualche modo ce la si farebbe).

Ciò che ho notato è che molti degli ingegneri, ma anche moltissimi provinciali quando ne hanno la possibilità, tendono a tornare a casa dalla famiglia quasi ogni settimana, vedendo la città universitaria quasi come un dormitorio per lavoratori, dove anche lo sviluppo dei legami affettivi nella città di studio è limitato alla dimensione “colleghi”. Molti partono già con l’impostazione di avere la propria vita altrove, per cui i rapporti umani che andranno a pretendere e instaurare saranno conformi al contesto universitario/lavorativo: ci sediamo assieme a lezione, beviamo la birretta il mercoledì, ma non ti chiamo per sentire come stai quando sono via. Lo stesso vale per la conoscenza della città, la quale è spesso limitato a: casa, bus, università, biblioteca, supermercato e baretto del mercoledì.

Il giro umanistico invece tende a passare più tempo in città, sviluppando maggiori legami e amicizie solide, conoscendo anche la città stessa molto di più.

Che tipo di rapporto hanno con la scuola e con l’investimento educativo in generale?

Volendo tornare al vecchio dittico studente investimento / studente divano, dal mio osservatorio se i primi a mio avviso persistono (soprattutto ad ingegneria), i secondi stanno pian piano scomparendo. Nel senso che il covid ha fatto piazza pulita dei cazzoni coi rasta, che già di loro andavano estinguendosi.

Per dirla meglio, anche nelle facoltà dove il carico di studio non eccessivo permetteva di godersi l’esperienza universitaria oltre lo studio, e che accoglievano quella componente più riottosa e maggiormente propensa a far casino (sia in termini di festa che in termini di mobilitazioni), mi pare che la tendenza sia quella di prendere lo studio universitario maggiormente “sul serio” e questo non necessariamente in termini di investimento sul futuro, ma semmai sul presente. Nel senso che la consapevolezza di non trovare in futuro un lavoro legato al proprio studio universitario, non basta più a giustificare il fatto di prendere l’università “come viene”, ma incrementa la volontà di trarne comunque il massimo beneficio e insegnamento da quello che dovrebbe essere “il periodo più intenso della vita”. La ricompensa per l’impegno nello studio non è più rilanciata al futuro lavorativo, ma è disciolta in un presente fatto di seminari, interessanti corsi in sovrannumero e stimoli offerti dall’ambiente università. Tutte queste cose appena elencate credo stiano sostituendo “la socialità”, nel senso strettamente inteso dai collettivi universitari, nella definizione di quelle cose calde, che dovrebbero rendere l’università più di un becero investimento lavorativo. Mi pare si stia andando a delineare una tipologia di remunerazione psicologica interna, la quale non è più legata al riconoscimento da parte di un attore esterno come il professore, il compagno di corso o il genitore, di un determinato risultato, ma è frutto dell’auto-compiacimento ad avere una vita (messa a lavoro) piena zeppa di stimoli e rilanci nel presente, a tratti simile a quel dinamismo startupparo con cui ci svangano continuamente la testa. Quello che in precedenza è stato definito lo studente esperienza insomma.

In poche parole: divertiti ma con testa, beviti le birrette ma dai gli esami, non serve il 110L, ma laureati in corso. Il tutto farcito dal senso di responsabilità verso i propri genitori che tanto hanno voluto farti studiare mettendo un capitale da parte.

È cambiato con la pandemia?

Da un lato gli studenti investimento hanno colto l’occasione per mollare casa e riuscire finalmente a coniugare la propria vita privata con l’università, vista finalmente come puro erogatore di titoli di studio/ufficio di collocamento, da poter frequentare senza costi aggiuntivi di appartamento e alimenti. La poca socialità venuta meno viene subito ricostruita nella propria sfera personale fatta di vecchie amicizie, morosi e morose.

Per quanto riguarda invece gli studenti esperienza il colpo è stato più duro. Venute meno le birrette e le cose calde di cui parlavamo prima, sostituite maldestramente da qualche webinar puzzolente, ciò che resta sono lezioni online fatte male, consegne, scadenze e lavori di gruppo a distanza, i quali si rivelano essere estremamente pesanti e oberosi da svolgere al pc. Senza la presenza umana quello che rimane è il ritmo del pc, delle scadenze, dell’università, delle lezioni. Senza la presenza umana ciò che emerge dal pelo dell’acqua è la banalità degli insegnamenti e dei progetti assegnati, i quali richiedono moltissimo tempo per quanto riguarda la parte di scrittura, ma nessuna capacità ri-elaborativa, disvelando l’incasellamento e la standardizzazione della conoscenza infusa all’università neoliberista.

Tutti questi elementi contribuiscono a creare una perdita di senso per la quale più studi e più ti senti stupido, la quale viene presa con un cinismo opportunista dagli studenti più oziosi e disillusi, mentre viene percepita come una pesante alienazione dagli studenti esperienza duri e puri, i quali cadendo dalle nuvole si accorgono quanto l’università faccia cagare. In entrambi i casi l’impegno nello studio e la fiducia nell’università prima o poi cala.

I primi, a metà fra lo studente investimento e lo studente esperienza, quelli che in qualche modo sanno che l’università è un puro lascia passare lavorativo cercano di farla bene godendosela, adottano la strategia del minimo sforzo e massimo risultato: nessuna pretesa di capire a fondo cosa viene insegnato, ciò che importa è preparare l’esame in meno tempo possibile per prendere 28, copiare (più difficile prima del lockdown) fa parte di questa strategia, il senso di colpa verso prof compagni o sé stessi non è parte della discussione. Comunque scazzati dalla gestione degli insegnamenti e dell’università e frustrati dalla perdita di senso.

I secondi soffrono la mancanza di contatto e di confronto coi compagni e il professore sui temi insegnati, si sentono alienati e combattuti fra il senso del dovere (verso sé stessi) e la perdita di senso di quello che studiano, si impegnano meno e con meno soddisfazione, i loro voti possono calare.

Abbiamo riscontrato una reazione della composizione giovanile alla Dad apparentemente contraddittoria. Da un lato ci sono state mobilitazioni contro la didattica a distanza, dall’altro mobilitazioni contro il ritorno a scuola o quantomeno nella scuola così come è ora cioè senza una messa in sicurezza. Cosa hai visto dal tuo osservatorio?

Per ora calma piatta, anche se qualcosa inizia ad emergere dal pelo dell’acqua. In particolare sembra inizino a delinearsi due tendenze di rivendicazione, legate al malcontento diffuso che l’università online ha generato fino ad oggi e che si pongono su due piani differenti.

Il primo, strettamente materiale e diffuso sia fra gli studenti investimento sia fra gli studenti esperienza, è legato ai servizi che l’università ha smesso di fornire o ha fornito in maniera inadeguata da un anno a sta parte (aule studio, biblioteche, mense, accesso alle risorse didattiche, esami di lingua, appelli di laurea, professori stronzi e svogliati), parlando con chiunque è difficile trovare studenti che non siano incazzati a bestia per l’uno o per l’altro motivo, soprattutto se costretti a pagare le tasse universitarie sull’ISEE 2019.

Il secondo piano invece, diffuso principalmente fra gli studenti esperienza, riguarda questioni di carattere che per semplificare definiremo immateriale (anche se in realtà rientra nella materialità quotidiana dell’universitario fuorisede). Se da un lato molti studenti lamentano la mancanza del vecchio ambiente universitario dinamico e stimolante, di fronte alla perdita di senso complessiva che la situazione pandemica ha disvelato (quella del cosa voglia dire studiare all’università”), non è raro trovare anche degli studenti che avanzano una critica più profonda all’università presente, sostenendone la vacuità degli insegnamenti e delle valutazioni, lamentando il fatto di sentire in realtà di stare lavorando.

Quindi da un lato diciamo che abbiamo una componente incazzata che pone le sue rivendicazioni nella logica del servizio, che vuole ciò che le spetta, dall’altro una componente alienata che tende a porre una critica globale e lucida all’università, ma quasi con indignazione. La vera domanda è come uscire dalla logica del servizio, superando le spinte corporative, per abbracciare una critica globale da un lato, e dall’altro come porre la critica globale dell’università su un piano materiale e di rottura radicale.

Il problema è che viene avvertita in maniera molto più pesante rispetto alle superiori, la necessità di adeguarsi alle norme anti covid e non lamentarsi, poiché l’università è vista sì come un’attività di esperienza personale, ma su un piano lavorativo, ed è quindi sacrificabile sul piano delle relazioni sociali e svolgibile tranquillamente online, mentre sulle superiori il discorso è diverso.

In che modo stanno usando la Dad?

Per lo più opportunistico e di comodo, moltissimi studenti rispetto alla situazione pre pandemica copiano durante gli esami on-line e registrano le lezioni per riguardarle in un secondo momento, in modo da evadere dalla temporalità stabilita dall’università e potersi fare gli affari propri. Ciò che di positivo sicuramente emerge da questi comportamenti è comunque una forma di disrespect per l’istituzione universitaria, vista quasi come uno di quegli ennesimi pezzetti di servizio pubblico da fregare (come mentire sulla gravità di un male per non pagare il ticket in ospedale). Questa mancanza di considerazione per l’istituzione, per ora ridotta ad una dimensione opportunistica e individuale, potrebbe costituire una buona base d’appoggio su un piano politico. Anche perché nell’abolire qualsiasi tipo di senso di colpa verso i compagni volenterosi e verso i professori, fa intuire anche la possibile immunità a spinte meritocratiche. Sulle quali sarebbe da approfondire un ragionamento visto che siamo fermi a dieci anni fa.

Che tipo di aspettative hanno rispetto al proprio futuro? Sono cambiate con la pandemia?

Tocca dire che non sono cambiate così tanto, cioè per una questione generazionale siamo stati abituati a pensare che in fondo andrà sempre peggio in qualche modo o se non altro a non aspettarci nulla di positivo dal futuro. Per cui, sempre dal mio osservatorio, mi pare che il covid abbia dato un po’ la mazzata finale alle poche aspirazioni stanche e aspettative discendenti che ancora animavano qualche studente, ma senza introdurre un sentimento di privazione e di conseguente incazzatura, semmai ha posto un significato materiale a quel senso di angoscia verso il futuro che anima le generazioni più giovani.

La tendenza mi pare sia comunque quella di prolungare il periodo universitario il più possibile soprattutto in ambito umanistico, in modo da sfuggire in qualche modo al mondo del lavoro fuori dall’università.

Per quello che puoi osservare quali sono le istanze, sebbene non esplicitate su un livello politico, che muovono i giovani?

Appunto oltre a quelle citate in precedenza e legate strettamente alla situazione attuale, mi pare che per i figli del ceto medio, la cui vita stessa è stata progettata in termini di investimento educativo e che hanno avvertito sin da piccoli la scansione temporale prevista per le loro vite, la pandemia abbia in qualche modo acuito la domanda, magari implicita, sul cosa vuol dire viver bene. Per usare un linguaggio da libro cuore domande: sulla miseria di lavorare tutta la vita per due spicci, diligenti e composti, in un mondo che va a rotoli, dove i corpi sono di fronte a degli schermi e la solitudine alberga ovunque.

Tutte domande probabilmente scaturite dalla delusione di non poter diventare la Classe Media promessa dai loro genitori, la classe motrice della civiltà occidentale, ovvero la classe prediletta dal capitale. Domande sulla scia del depressismo fisheriano e bislacco ma che forse, oltre le spinte corporative (legate ad esempio alla frustrante volontà di riconoscimento del proprio titolo di studio) possono essere ricomposte per praticare una rottura.

Si fa molta fatica a leggere quando i confini sono sfumati, soprattutto con degli strumenti di lettura non adatti ad interpretare il presente, ma ciò che inizia ad emergere, per un certo tipo di composizione giovanile (prima descritta), è forse un nuovo paradigma di quella che viene avvertita come la propria materialità. Quello che si intende è che alla materialità vissuta da ognuno concorrono una serie di bisogni materiali (reddito, salute etc.) e immateriali (socialità, amicizie etc.), che sono sempre stati intesi in un rapporto gerarchico dei primi rispetto ai secondi (e ci mancherebbe altro). La domanda è: per i figli di coloro che pur impoverendosi non stanno ancora con le pezze al culo, siamo sicuri che questo rapporto gerarchico sia ancora dato in maniera così rigida? Non si intende che il rapporto sia rovesciato, bensì equiparato, ancora una volta: per coloro che sono stati formati nella crisi, abituati sin da bambini all’idea di doversi impoverire, siamo sicuri che l’impoverimento previsto scateni un sentimento di incazzatura e privazione maggiore della sensazione di non poter disporre delle proprie vite?

Nel senso che non me ne frega un cazzo che mi approvino la Buona Scuola sotto il naso quando in realtà mi sento male ad andare al liceo, dove il voto che prendo diventa l’etichetta della persona che diventerò. Nel senso che non me ne frega un cazzo di indignarmi nel constatare che stanno smantellando l’università come istituzione, quando nella mia materialità devo preoccuparmi di cazzo fare della mia vita in un mondo che va a puttane, dove oltre alle perenni condizioni di difficoltà economica che mi attendono, ciò che mi resta da fare è andare a Bibione due settimane all’anno.

Su questa linea si muove anche il sentimento di insofferenza verso i boomer, rei di aver consegnato ai loro nipoti un mondo di aspirazioni stanche, giustificate dal loro insopportabile paternalismo. Punto di vista che da un lato attribuisce alla componente giovanile un ruolo totalmente passivo nel modo di stare al mondo (il giovane che nulla ne può della sua condizione storica) e dall’altro individua nel boomer il soggetto responsabile della frustrazione provata a veder ridurre ogni giorno lo spiraglio del proprio campo del desiderabile.

Ci siamo ritrovati in un mondo che non volevamo, dove la figura del giovane viene esaltata all’esasperazione, ma nella misura in cui questa è compatibile con il mondo costruito dai vecchi, nella misura in cui invitano Madame a Sanremo (la quale è straordinaria, ovviamente).

Questo sentimento si è già declinato politicamente (almeno in parte), nell’ondata di movimenti ambientalisti di due anni fa, assumendo i toni del piagnucolio e del “ci avete tolto il futuro”, ma resta sottotraccia in molti altri atteggiamenti ed istanze.

Tutte riflessioni su cui scannarsi e dibattere per cercare di tirarne fuori un pensiero maggioritario e non da depressi lamentosi, i quali possono anche impiccarsi ora.

 

Il problema attuale, tuttavia, avvertito sia da parte dei collettivi che dei singoli studenti, rimane quello di trovarsi per riuscire a bucare questa situazione pandemica di merda, dove bisogna chiedere il permesso di fare qualsiasi cosa, per toccare di nuovo la terra sotto i piedi, in forme che vadano oltre i problemi di connessione.

Quali sono i loro spazi di socializzazione e le loro forme di aggregazione?

Alcuni fuorisede si trovano in casa di amici fra cene e feste coi loro coetanei, ma sono la minoranza rispetto a coloro che pur avendo tenuto l’appartamento nella città di studio, escono e invitano gente a casa molto più raramente rispetto alla situazione pre pandemica e lamentano la mancanza dei vecchi spazi di aggregazione come bar e piazzette.

Come vivono il senso di responsabilità imposto dall’emergenza sanitaria?

La situazione è molto varia

Personalmente ho individuato 3 macro categorie: gli ansiogeni, i furbi e gli insofferenti.

Gli ansiogeni nella maggior parte dei casi tornano spesso a casa dai genitori, in genere sono più attenti e vivono con maggior peso lo stigma di untori, sono aggiornati sui contagi giornalieri e sulla situazione pandemica in generale (funzionamento delle mascherine, vaccino etc). Hanno paura di contagiare (soprattutto) ed essere contagiati, se escono tengono la mascherina fra una birra e l’altra, si sentono a disagio con molta gente attorno. A volte inoltre, nei casi in cui il senso di responsabilità è avvertito in maniera particolarmente grave, mi pare che la tendenza generale sull’adozione delle misure, non si dia propriamente nei termini di una auto-colpevolizzazione come possibili vettori del virus, ma sia più legata ad un interiorizzazione della regola. Intendo dire che a volte la sensazione di “fare qualcosa che non si potrebbe” è avvertita in maniera anche più forte della possibilità di essere materialmente dei soggetti pericolosi e questo comporta un irrigidimento generale nell’approcciarsi alla quotidianità.

I furbi invece se ne strafottono altamente, perché banalmente in fondo non gliene frega nulla, mettono la mascherina (logora e sporca, molto spesso indossata per più di tre mesi e poi persa) per evitare di essere cazziati dal vecchio di turno per la strada, se tornano prima del coprifuoco lo fanno solo per paura della multa. Non si informano e non hanno voglia di mettersi a dibattere sull’utilità effettiva delle misure di contenimento perché in fondo le evadono. Hanno ri-trovato un loro modo di vita compatibile con la pandemia che non gli pesa più di tanto, anche se gli fa strano a volte. Sicuramente portatori sani della variante peggiore possibile e con una carica virale che nemmeno la peste bubbonica.

Gli insofferenti sono la maggior parte, si informano poco o nulla sulla situazione pandemica, non si auto-colpevolizzano in maniera eccessiva e, se lo fanno, il loro senso di colpa deriva da un fattore indefinito derivante dal fatto di “aver fatto qualcosa di proibito”, come detto in precedenza per gli ansiogeni. Vanno alle feste ma generalmente non invitano nessuno a casa loro. Non si fanno problemi a stare in mezzo alla gente e nemmeno ad abbassarsi la mascherina se lo fanno altri prima di loro, riguardo alle misure si pongono in maniera priva di passione. Si fa così perché si deve e morta là. A differenza dei furbi però non hanno ritrovato una loro dimensione e quotidianità appagante dentro la pandemia, e questo gli pesa, infatti avvertono la mancanza della vecchia socialità e soffrono dell’irrigidimento subito. Questo si vede quando infrangono (se le infrangono) le misure imposte dalla pandemia, in questi casi l’evasione dalle costrizioni suona quasi come una liberazione, che si sfoga spesso in una sbronza colossale, esaurito questo momento tornano di malavoglia alla loro dimensione iniziale.


 

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