Aspetta e Sclera

«Svegliarsi da un incubo, un sogno che si avvera
Perché al mondo c'è chi aspetta e spera e c'è chi aspetta e sclera»
BOLOGNA, novembre 2020
Il 3 novembre è entrato in vigore il nuovo dpcm che sancisce la chiusura delle biblioteche universitarie e la sospensione delle (poche) lezioni in presenza, per quasi tutti gli studenti, che così tornano all'ormai consueta Dad. Le sporadiche contestazioni che hanno attraversato il nostro Paese in queste settimane non hanno per nulla intercettato o coinvolto l’ambito universitario anzi, sono proprio quelle soggettività che per età e collocazione sociale non hanno frequentato le aule universitarie ad aver animato gli scontri nelle piazze italiane delle sere di ottobre. La composizione universitaria, dunque, è la grande assente di questi mesi, non solo in Italia, ma in tutto il vecchio continente; le università sono state lasciate intatte dalle molteplici manifestazioni che, con diversi obiettivi e diverse composizioni, hanno attraversato l’Europa. Per questo ci sembra urgente e necessario avviare una discussione e un ragionamento collettivo sull’università e la composizione universitaria che l’attraversa, per poter organizzarci a partire dalla nostra collocazione in questo nodo centrale di produzione e valorizzazione di conoscenza e saperi.
Da una parte la didattica a distanza ha permesso a molti studenti-lavoratori di poter accedere alla formazione universitaria, grazie al fatto di poter seguire le lezioni con più facilità senza dover recarsi fisicamente in università o dover prendere in affitto una stanza costosa in centro; dall’altra ha accelerato alcuni processi, già in atto da tempo, come la costruzione di blocchi di sapere sempre più globalizzati e deterritorializzati, con i quali le università potranno raggiungere nuovi clienti in grado di pagare le tasse, attirati dal brand che ogni università sarà in grado di consolidare e promuovere. Con queste trasformazioni si verrà a creare una nuova gerarchizzazione tra gli stessi atenei che avranno la necessità di concorrere su un piano internazionale per l’erogazione della merce-sapere. Così, a chi otterrà un titolo di studio in un ateneo di grande prestigio, sarà riconosciuto un maggior valore all’interno del mercato del lavoro, chi non avrà questa possibilità resterà nella schiera sempre più popolosa di laureati disoccupati.
E mentre il valore del titolo di studio continuerà a svalutarsi come si modificheranno le aspettative dello studente?
Ogni mattina uno studente si alza e sa che dovrà correre più veloce del prossimo parziale, pena laurearsi in ritardo
Partiamo da un dato: è da ormai più di dieci anni che le mobilitazioni di massa non interessano l’università. È difficile elencare le cause di questo vuoto, ma è obbligatorio indagare le trasformazioni delle soggettività giovanili in relazioni alle trasformazioni del sistema universitario avvenute negli ultimi anni. A partire dal Bologna Process del 1999 e dalla conseguente riforma Berlinguer-Zecchino, l’università è entrata in una fase di riforme che hanno aperto ad una stagione di tagli ai finanziamenti, rendendo la crisi un elemento strutturale anche dell’istituzione formativa. La crisi diventa così elemento fondante della stessa vita universitaria. L’introduzione del sistema dei crediti formativi basati sul tempo di studio, ha reso misurabile la performance degli stessi studenti oltre a determinare un’accelerazione dei tempi e dei ritmi di studio che non permettono, una volta rimasto indietro, il recupero da parte dello studente. Ci si imbatte in una palude in cui si è costantemente in ritardo, che diventa più estremo e angosciante se ci si paragona ai neo laureati europei. Un paradosso quindi: una riforma pensata per rendere gli studenti più competitivi, pone anche i più «meritevoli», gli «studenti eccellenti», su un gradino sotto i loro colleghi. La conseguenza del 3+2 con un sistema della didattica parcellizzata e burocratizzata, nasconde, dietro il velo dell’efficienza, la condizione per cui lo studente insegue affannosamente la laurea attraverso una miriade di esami divisi in parziali.
Non ci interessa dare un giudizio di valore sulla Dad, anzi ci importa maggiormente capire quali terreni di conflitto potrebbe aver aperto questo passaggio. L'università non è completamente stata stravolta dall'epidemia, alcuni residui sono rimasti. I «baroni» non hanno sicuramente lasciato il loro posto, e così neanche i professori di merda che ci siamo ritrovati più e più volte a lezione. Le mancanze di prima non sono state risolte, anzi: la scarsa contestualizzazione della conoscenza e la pretesa della sua neutralità, l’assenza di stimoli, la non valorizzazione delle qualità del singolo studente, la distruzione e la chiusura di spazi di discussione, sono tutti elementi che si amplificano con la Dad e che possono essere un terreno di battaglia per dei movimenti a venire.
Soggettività studentesca
Un’analisi politica sull’università non può prescindere da un’analisi sulla composizione studentesca e sulla sua soggettività, in particolare quando chi la frequenta è cresciuto nel periodo successivo alla crisi del 2008, e non ha vissuto consapevolmente la crisi finanziaria, ma ha fatto esperienza sulla propria pelle delle sue conseguenze economiche e sociali
Chi altro non ha conosciuto se non crisi perenne, è divenuto adulto guardando alla precarietà lavorativa ed esistenziale come condizione dalla quale è inconcepibile pensarsi al di fuori. La crisi come forma di governo ha raggiunto, con la nostra generazione, un traguardo notevole: è riuscita a plasmare a fondo la nostra forma mentis e ad abituarci a un’accettazione non passiva (come nel caso dei millennials) ma attiva e convinta dell’insicurezza, vissuta come un continuo stimolo e come un’avventura, ragione per cui, almeno in Italia, questa generazione è stata fino ad adesso meno reattiva di quella precedente nei confronti di mobilitazioni come quella contro il Jobs Act nel 2016. Il fallimento dell’Onda e dei movimenti anti-austerity del 2010-2012 ha ulteriormente contribuito a rendere inefficace la messa in discussione dei paradigmi neoliberisti.
Ma torniamo all’università. Prima era possibile dividere la composizione studentesca in due macro gruppi. Da una parte i cosiddetti «studenti divano», prevalentemente frequentanti facoltà umanistiche, più interessati a godere gli anni universitari nella pienezza di un’esperienza di vita complessiva che a competere sul mercato del lavoro; allo stesso tempo più inclini alla partecipazione ad attività non spendibili sul curriculum formativo e lavorativo. Dall’altra parte gli «studenti investimento», tenaci giovani intenzionati a servirsi dell’università per raggiungere precisi obiettivi economici o professionali, nell’ottica di far fruttare un investimento economico.
Con l’entrata dei figli della crisi in Università si è sancita la quasi totale estinzione della prima categoria: lo studente divano è stato sostituito dallo «studente esperienza».
Lo studente esperienza, quasi sempre fuori sede, ha un approccio molto più serio nei confronti dello studio (l’istruzione contemporanea lo ha abituato sin da piccolo alla competizione), ma al contrario dello studente investimento non spera in alcun miglioramento della propria condizione economica. Per questa categoria la fase universitaria è un’esperienza da vivere con impegno e passione in ogni suo aspetto, dalla vita autonoma rispetto ai genitori, non più inscatolata in una rigida divisione del tempo tra scuola e tempo libero, alla preparazione per gli esami. Per molti frequentare una facoltà incline ai propri interessi è un traguardo, una sorta di auto-premio per la fatica e la noia derivanti dal vuoto studio nozionistico degli anni della scuola superiore, volto solo alla valutazione numerica. Nell’università vengono riposte le ultime speranze di interesse per lo studio, raramente riscontrate durante il liceo o in altri istituti.
Bologna in questo caso rappresenta un’anomalia nel panorama generale delle università italiane. Per via della sua peculiare reputazione nella storia delle sottoculture e dell’opinione generale del nostro paese, o più probabilmente per via delle notevoli dimensioni dell’industria dell’intrattenimento, nella dotta città felsinea la divisione tra macro gruppi di studenti è molto più sfumata che altrove: anche lo studente di ingegneria in procinto di partire per un master all’Mit vive la città in modo attivo e partecipante e non unicamente come sede provvisoria della propria formazione.
Inutile dire che lo studente esperienza trova nel capoluogo emiliano l’humus ideale per apprezzare in pieno la sua tanto agognata avventura formativa. Nonostante l’allure di fastidio e intolleranza che da sempre hanno caratterizzano i rapporti tra locals e fuori sede (ma soprattutto autorità comunali e studenti), Bologna accoglie volentieri questi studenti intenzionati a consumare negli esercizi commerciali della città, soprattutto in quanto meno inclini dei loro predecessori alla messa in discussione delle gerarchie politiche ed economiche che governano la città.
Covid
Nel 2020 la pandemia mondiale da coronavirus ha segnato una breccia in questa armonia.
Durante tutto l’anno accademico, l’università altro non ha conosciuto se non didattica a distanza. Come gran parte degli atenei del nord, anche quello bolognese ha tentato di riaprire le aule per le lezioni in presenza mista al fine di non perdere iscritti e non lasciare palazzinari e bottegai senza un soldo, promettendo una riapertura in sicurezza degli spazi universitari. È bastato che si pagasse la prima rata delle tasse universitarie affinché rettore e dirigenti annunciassero con dispiacere l'impossibilità di riaprire aule e biblioteche. Malloppo in tasca e si continua la corsa.
Ciò ha avuto numerose implicazioni non solo per l’università in quanto istituzione, ma soprattutto su coloro che hanno iniziato il percorso di studi superiore nel 2019 o nel 2020, e che hanno fatto poca o nessuna esperienza dell’università come luogo di formazione ma anche di socialità, entrambi elementi fondamentali per l’esperienza universitaria cittadina. Le conseguenze di un approccio eccessivamente precauzionale e a tratti contraddittorio nella gestione della prevenzione del contagio all’interno e fuori dal campus, toccano quasi tutti gli ambiti della vita dello studente bolognese.
Le matricole sembrano soffrire particolarmente della delusione nei confronti della città e dell’università: l’UNIBO come azienda dell’esperienza, integrata nel tessuto produttivo dell’intrattenimento bolognese, non è più in grado di soddisfare i suoi utenti, gli studenti: Bologna si è risvegliata When September ends e ha scoperto di essere diventata una versione sfigata dell’Atlanta di The Walking Dead. Chi è arrivato in città con la più che legittima speranza di un’esperienza arricchente, e si è ritrovato catapultato in una realtà fatta di lezioni online tenute da icone parlanti seguite da appartamenti con wifi scrauso, aule studio affollate e soprattutto una città vuota, privata di qualunque forma di svago e di socializzazione. La conseguenza più grave della Dad è proprio la morte della vita sociale e la solitudine perenne. Numerose sono i freshmen che hanno deciso di abbandonare la città per tornarsene nella provincia d’origine perché l’isolamento non era un prezzo giusto da pagare per l’esperienza universitaria.
Sin dalla primavera, la figura del giovane come untore egoista è stato un capo espiatorio onnipresente nella narrativa mediatica italiana, e molto funzionale. A Bologna, forse a causa della massiccia presenza in città, questo elemento ha assunto caratteristiche di un paternalismo folle e grottesco: se in estate veniva chiusa al pubblico Piazza s. Francesco, in autunno la stessa sorte è toccata a P. Verdi e a P. Aldrovandi, come a sancire una diretta responsabilità delle matricole festaiole nella trasmissione del virus da Covid 19. Che i bar ai lati della piazza potessero in tutta tranquillità continuare ad accogliere dozzine di clienti, è rappresentativo della totale insensatezza di misure simili. L’upgrade è arrivato con la complicità dell’università, che la scorsa settimana ha deciso di precludere l’accesso alle aule a una fetta consistente dei propri studenti (fatta eccezione per una piccola parte di borsisti, assegnisti e dottorandi), ma di lasciare aperta qualche sparuta aula studio, oramai sempre più affollata.
Cosa fa lo studente universitario nella pandemia? La risposta è semplice: aspetta. Aspetta il nuovo dpcm, la nuova circolare del rettore, la riapertura delle piazze, e spera che la sua vita ritorni ad una pseudo normalità dove poter seguire anche delle lezioni dal vivo, conoscere altri ragazzi al bar dei cinesi e non essere considerato reo di tutte le morti da Bolzano a Pantelleria, non è un sogno lontano e impensabile. Svegliarsi dall’incubo. Ma nello scenario (ormai realtà in alcune città) di un nuovo lockdown e di un proseguimento ulteriore della Dad come unica forma di apprendimento, è possibile e auspicabile che gli studenti bolognesi smettano di sperare e inizino a sclerare. L’arrivo della seconda ondata ha delineato delle linee di responsabilità molto chiare che hanno aperto lo spiraglio ad un possibile punto di rottura dell'ignobile retorica dello studente untore : se la situazione odierna è ancora critica come in Primavera, allora ci sono dei chiari e identificabili colpevoli contro i quali muovere guerra. Se vogliamo cambiare le cose non possiamo limitarci ad analizzare e comprendere le radici della frustrazione, ma dobbiamo fare in modo di alimentarle e potenzialmente organizzarle.
Ipotesi e conclusioni
La nuova configurazione assunta dall’università con l’inizio della pandemia, pone nuovi ostacoli ma anche nuovi terreni su cui organizzarci. Se da una parte l’università chiude tutti gli spazi per incontrarsi e dialogare, rimane fondamentale la presenza dei giovani, in una città come Bologna, i quali rappresentano la maggior fonte di guadagno e manodopera per settori come la ristorazione, gli affitti o lo svago. Come si trasformerà la città senza gran parte degli studenti universitari?
Ma torniamo alla questione delle lezioni: con l’erogazione della didattica online mista a quella in presenza non si è ancora creata una differenziazione tra coloro che seguiranno in presenza e chi seguirà da casa online. Ma cosa succederà se invece dovrai scegliere prima se frequentare in presenza o no, con una diversificazione di costi e benefici? Siamo sicuri che resterà così per sempre? Sarà ancora garantito il libero accesso a qualsiasi lezione?
Peculiare, nelle discipline umanistiche, è la differenza tra studente frequentante e non frequentante : il secondo è penalizzato poiché ha programmi e modalità d’esame diversi rispetto al primo, lo si punisce perché non si è presentato a lezione, si pensi agli studenti-lavoratori ma anche a chi banalmente non ha voglia e fa altre cose. Con la Dad, però, questo scarto viene ad annullarsi, si potrebbe aprire una fase in cui si potrà chiedere ed ottenere la definitiva eliminazione di questa differenza? Che ci facciamo con la crescente insoddisfazione verso il professore? Insoddisfazione che spesso si palesa come individuazione di queste problematiche: scarsa contestualizzazione della conoscenza, assenza di stimoli, non valorizzazione delle qualità del singolo studente, distruzione di spazi di discussione. Si tratta infatti di problemi che si amplificano con la Dad. Quali spazi si aprono?
È necessario in conclusione sottolineare che questi spazi di possibilità non rimarranno aperti per sempre, ma verranno chiusi in una maniera o nell’altra, dalla stessa istituzione universitaria. Come interveniamo per cambiare le cose? Come pratichiamo la necessità di agire subito mettendo a verifica queste ipotesi?