La risonanza globale delle lotte

La risonanza globale delle lotte

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Recensione di Alessio Resenterra a «Liaisons Italia» n.1: «In nome del popolo»

Se in In nome del popolo c’è una pretesa, un tentativo, non è certo quello di farsi ammirare per lo sforzo creativo nella scrittura o nel linguaggio, seppur importante, ma quello di essere una bussola in grado di orientarci in quel deserto politico chiamato «Movimento», che in Italia, ormai da troppi anni, è diventato l’apparato che imbriglia qualsiasi tentativo di fuoriuscita dallo stato di cose presenti.

Scrivere, e quindi raccontare, delle storie non è mai un esercizio semplice se non quando si vuole compiacere qualcuno, ma questo libro non vuole compiacere nessuno, anzi. Intrecciando le varie storie contenute nei capitoli del libro, percepiamo l’esistenza di quell’insorgenza viva che gli amanti delle insurrezioni belle e pure non sopportano, perché inorridiscono di fronte allo squarcio che la rivolta apre sul velo di ideologia disincarnata che la Sinistra, anche di movimento, vorrebbe stendere per far tornare i conti alla propria teoria. Tra vari articoli e racconti, di tentativi e fallimenti, qui raccolti si dispiega una rottura, un’interruzione che ci consente di mettere meglio a fuoco la divisione tra nemici e amici, per leggerla nella sua sostanza e non nella forma. Attraverso linguaggi e stili differenti si dà all’intero libro non lo scopo di una sintesi inquadrata in vecchi schemi, o ridotta da finalità altre, ma la funzione di esprimere una molteplicità di «forme e pratiche», per cogliere la realtà nella sua eterogeneità e nelle contraddizioni che la compongono.

Il deserto in cui siamo immersi ci soffoca e ci rende sempre meno ipotizzabile la possibilità di una sua fine, tuttavia rivolte lontane nello spazio ma quanto mai vicine per sensibilità ci rimandano gli echi di qualcosa di vivo. Questi testi ci aprono uno spiraglio nel presente e ci consentono di tirare una boccata d’ossigeno. Rovesciando i concetti di «globale» e «locale», tanto cari alla logica capitalista, affiora la tensione tra quei territori che con «forme di resistenza specifiche» danno vita a delle oasi che, pur vivendo nel deserto, lo combattono senza riconciliarsi con esso.

Un altro aspetto significativo del testo è la scelta di leggere gli eventi alla luce di quel fenomeno, chiamato populismo, che ha investito negli ultimi anni il terreno della politica. Se «i populismi sono il prisma attraverso cui il tempo si riconfigura», serve studiarli e capirli cercando di evitare di farsi intrappolare nella diatriba tra chi definisce i populisti come criptofascisti e chi invece pensa, o ha pensato, di potersi appropriare di questa etichetta per tentare goffamente di trasformare l’espressione politica del populismo in qualcosa di più «antagonista».

Il populismo è un sintomo dell’atteggiamento di rifiuto verso l’azione delle istituzioni democratiche e liberali, e risponde in maniera disordinata e caotica, ma legittima, ai processi di impoverimento che hanno investito il ceto medio e le classi popolari dal 2008 ad oggi: per questo è necessario individuare nei comportamenti populisti, e non nell’espressione politica, quell’ambiguità che può essere usata per individuare nodi di rifiuto e tendenze e aprire un possibile spazio di trasformazione dell’esistente. Sottrarli al campo del nemico per costruire il nostro.

E allora serve rileggere il Trittico americano, oggi più che mai, per poter decifrare cosa succede al di là dell’Atlantico tra un nuovo Starbucks in costruzione e un commissariato di polizia in fiamme. Le ultime elezioni statunitensi hanno sancito lo stravolgimento della politica della rappresentanza per come è stata pensata fino ad oggi. La capacità dei due grandi partiti, democratico e repubblicano, di assorbire, in senso elettorale, il potenziale trasformativo dei vari movimenti sociali sorti nell’ultimo decennio – Occupy Wall Street come anche il Tea Party – ha fatto sì che affiorassero nuove possibilità politiche per il paese. Ciò è avvenuto a spese delle forme organizzative e dell’agenda istituzionale di entrambi gli schieramenti, ricalibrati dagli stessi partiti in risposta alla vittoria di Trump e allo scontro tra Clinton e Sanders alle primarie democratiche. Questo è il nodo da sciogliere: nel suo stravolgimento, che ha accelerato il processo di esclusione di molte persone dalla sfera politica, il sistema politico americano ha assunto abbastanza forza da poter fare a meno di gran parte della popolazione?

I movimenti di estrema sinistra hanno risposto con la scommessa di organizzarsi attorno a coloro che sono rimasti senza lavoro e speranze dopo il crollo finanziario del 2008, individuando questi esclusi come soggetto politico di riferimento. Nella rottura del contratto sociale, che teneva unito sotto la bandiera dell’«American Dream» quel crogiuolo di etnie e popolazioni diverse, ossia gli Stati Uniti, si intravede la scintilla che ha infiammato la prateria americana da New York a Los Angeles passando (e partendo) da Minneapolis. Nella fine di quel sogno si radica la rabbia e la frustrazione di moltissime soggettività, che hanno trovato una valvola di sfogo nel voto populista, e quindi reazionario.

L’elezione di Trump alla Casa Bianca è il risultato di una retorica che è riuscita «a coniugare frustrazione e impotenza del popolo» per dirigerle contro una minoranza, sia essa etnica, politica o religiosa. Tuttavia, il meccanismo con cui Trump ha governato e governa ad oggi viene sabotato dalla forza, dall'immaginario e dal discorso del movimento che da più di un mese sta debordando nelle strade delle città statunitensi e non solo, scatenato dalla mediatizzazione dell’uccisione di George Floyd. Le organizzazioni che hanno saputo lavorare su un terreno completamente avverso, sia alle forze della destra reazionaria sia a quelle della sinistra riformista, hanno creato strumenti e saperi, per la messa in discussione dell’intero apparato poliziesco, individuando la violenza di questo come le fondamenta strutturali dell’oppressione della popolazione afroamericana. Ne è un buon esempio pratico l’MDP150, progetto che nasce a Minneapolis e che, attraverso la progettazione di strategie pratiche locali, mira allo smantellamento del dipartimento di polizia della città. Nella nazione in cui Trump sembrava poter governare indiscusso è sorto un processo che tiene viva la possibilità concreta di abolire la polizia.

Soprattutto a chi è cresciuto dopo Genova 2001 e ha deciso di mettersi in cammino per provare un altro modo di vivere e quindi di lottare, la rivista «Liaison» permette di immergersi nelle storie di un mondo in continua dispersione: nei frammenti che entrano in risonanza percepiamo la possibilità di un nuovo modo di far politica, lontani dalla tranquillità di una prassi ormai abitudinaria, che riproduce le stesse pratiche da troppo tempo e si limita alla gestione del presente e delle vite vogliamo provare a dischiudere nuove vie e nuovi immaginari.

Mettere in contatto questi frammenti, dunque, è un’urgenza, per poter costruire «un discorso trasversale a diversi continenti», perché da lì possiamo partire, perché così possiamo sognare e pensare di poter formulare, finalmente, delle «ipotesi rivoluzionarie contestualizzate che possano risuonare a migliaia di chilometri».

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