L’oblio dell’Università

Intanto ti chiederemmo di autodefinirti, quale ruolo svolgi all'interno dell'università? Che corsi tieni?
In questo momento sono titolare didattico di due corsi. Il primo si chiama «Globalizzazione e capitalismo» e si svolge a Forlì nel primo semestre; a Bologna invece tengo un corso che si chiama «Politiche del lavoro», attivato all’interno della Laurea Magistrale «Sociologia e Servizio sociale». Quest’ultimo si svolgerà nel secondo semestre. Ho infine un modulo all’interno del corso di «Sociologia Economica» a Sociologia presso la sede di Forlì. Sono professore associato presso il dipartimento di Sociologia e Diritto dell'Economia. Al di là di quelle che sono le formalità, di formazione sono un sociologo anche se non disdegno di provare a comunicare e interrogare anche altri saperi da questa mia posizione disciplinare.
Siamo a settembre e l'anno accademico sta per iniziare sotto un velo di incertezza dovuto all'epidemia e di cui l’esito è ancora in via di definizione. Ti chiederei quindi, secondo te, cosa ci si prefigura per l'anno prossimo, anche in base alle voci di corridoio all'interno dell'università, in relazione soprattutto a questo passaggio alla didattica a distanza. Qual è la tua percezione riguardo questo passaggio, hai già avuto esperienza durante il lockdown? Che conseguenze avrà questo nuovo rapporto con la tecnologia sulla formazione in senso più lato?
La situazione dovrebbe essere questa: come corso di laurea in Sociologia partiamo con un sistema misto: una parte degli studenti seguiranno in presenza e una parte da remoto. In ogni caso credo che questa sia una modalità più o meno diffusa in tutti i corsi di laurea dell’Ateneo. Va detto che ogni Università sta prendendo decisioni autonome e si organizza in modo particolare. L’Ateneo di Bologna, come anticipavo, ha deciso di partire con un sistema che sostanzialmente permette allo studente di scegliere se partecipare alle lezioni in presenza, oppure se seguirle da remoto via internet, restando presso la propria abitazione. Personalmente non entro in un’aula universitaria oramai da febbraio, posso quindi riportare qui le informazioni che ci arrivano via email, attraverso una forma di comunicazione, a dire il vero, un po' paternalista e non sempre chiarissima, in cui l’Ateneo ci chiama a fare fronte con dedizione e professionalità alle difficoltà che la situazione attuale inevitabilmente porta con sé; le aule sono state attrezzate in modo tale da rendere possibile il fare lezione in presenza e in sicurezza, anche grazie a dei sistemi tecnici audio-video digitali che ci permetteranno di muoverci (ad esempio andare alla lavagna…) e di non restare necessariamente fermi davanti alla tele camerina installata sul personal computer, com'era stato per il semestre scorso, da casa, in cui ho fatto quest'esperienza tutt’altro che semplice. È stato stimato statisticamente, dagli uffici d‘Ateneo che si occupano dell'organizzazione della prossima attività didattica, che circa la metà degli studenti resterà a casa e l'altra metà sarà in aula. Quanto questo poi effettivamente si realizzerà francamente ad oggi non ne ho idea, presumo che i calcoli che sono stati fatti siano abbastanza precisi. Non tutte le lezioni però potranno essere svolte in aula, inizieremo così, ma una buona parte delle stesse (circa la metà) dovrà essere svolta in remoto. Questo perché esiste il problema del prodursi di assembramenti negli spazi comuni dell’Ateneo. Non è infatti solo la presenza in aula a determinare un rischio sanitario. Nel momento in cui ci fossero troppe aule impegnate contemporaneamente in uno stesso luogo ci sarebbe il problema della gestione degli spazi comuni. Quindi per evitare il rischio di assembramento le lezioni non possono svolgersi parallelamente e per questioni legate alla disponibilità (di spazi, di orari, ecc.) verrà chiesto che una parte degli insegnamenti si svolgano integralmente da remoto.
Che cosa può significare questo? Significa che noi docenti dovremo inventare un nuovo modo di insegnare, sperimentare qualcosa di mai usato prima e però per questo anche di improbabile. Nel senso che è, ovviamente, già difficile tentare di trasferire e sollecitare l'acquisizione di un sapere a qualcuno che sta lontano da te; se poi devi farlo contemporaneamente a qualcuno che sta vicino a te e a qualcun altro che sta lontano, il compito diventa ancora più complicato. Quello che ho potuto capire svolgendo tante ore di attività didattica da remoto nel secondo semestre dell'anno accademico scorso, è che il modo che hai di trasmettere i concetti che sono alla base della tua attività di insegnamento è necessariamente molto diverso da quello che accade durante la trasmissione in un contesto di prossimità e incontro. Sono due cose completamente diverse, può sembrare strano quello che dico e forse non è immediatamente comprensibile. Provo a spiegarmi: il peso specifico di questo divario non è del tutto comprensibile fino a quando non se ne fa un’esperienza diretta. Per dirla in poche battute: un conto è trasferire dei pacchetti di nozioni che sono state modularizzate, organizzate attraverso delle slide che posseggono linee di sviluppo dei saperi cognitivamente formalizzati e facilmente comprensibili, un altro è invece quello di immergersi in un contesto in cui quello che dici è continuamente e riflessivamente costruito nella relazione, che tra l’altro è ciò che in ultima istanza lo rende soggettivamente importante e significativo. Può sembrare una visione un po’ «conservatrice», ma qui non credo si tratti di abbracciare o meno una linea che si muove attraverso il digitale verso il futuro, non è questo il punto, ovviamente. Il punto è che se ci teniamo all'esperienza dell’apprendimento nel senso più nobile del termine, a mio avviso, questo non può che avvenire all'interno di un contesto in cui è il «sudore», come metafora della fatica della relazione, dell'incontro, che crea le sincronie utili alla sua produzione. Il trasferimento di sapere non può essere qualcosa che viene erogato come se cadesse come una pioggia da un punto posto in alto su tanti punti posti più in basso (come accade per la televisione, ad esempio), non si tratta di trasferire delle informazioni o delle suggestioni, si tratta di produrre un erotismo nel sapere, di coinvolgere il desiderio del discente che deve apprendere; lo studente che deve imparare a fare proprie alcune questioni che lo riguardano o che riguardano un fenomeno a lui contemporaneo, soprattutto in materie come la mia dove non si tratta solo di risolvere equazioni, ma si tratta di confrontarsi con questioni che sono interne al contesto che si abita, che sono continuamente vissute oltre che osservate. Sono dunque preoccupato perché in tale nuovo contesto ci sarà presumo una effettiva e tangibile difficoltà a tenere insieme, a far convivere tra loro, le diverse forme di trasmissione del sapere. Poi, come abbiamo fatto l'anno scorso, faremo i salti mortali e continueremo a farlo perché in effetti se non si faceva così l'alternativa era di chiudere l'Università e sarebbe stato ovviamente altrettanto problematico.
Non fraintendetemi, quindi, non credo che non si debba provare a sperimentare qualcosa. La lezione dentro il «bozzolo digitale», dentro lo schema digitale, non è certamente una lezione universitaria per come l’intendo io, ma è comunque qualcosa che ti mette a contatto con un gruppo di persone e che dobbiamo provare a realizzare. Tra le altre cose da evidenziare di ciò che di cui ho fatto esperienza l’anno scorso, mi sembra importante ricordare il bisogno urgente di molti studenti di capire quello che stava accadendo. «Che cosa stiamo facendo? Che cos’è questa cosa che io mi metto a casa; mi alzo dal letto; se ho tempo mi sciacquo la faccia e mi faccio il caffè; mi metto davanti alla telecamera e cerco di ascoltare? Dopo un po' la mia attenzione crolla perché ovviamente sono in una situazione in cui il mio corpo non viene mobilitato alla ricezione, o tendenzialmente scivola o è in uno stato di torpore o comunque c’è una difficoltà a mobilitare tutte le attenzioni necessarie, come faccio?» A quel punto, questo tipo di esperienza da parte dello studente, ma anche del docente, comincia a essere faticosa, frustrante, non si capisce che cosa si sta facendo, se è utile o meno. Come si fa, oltretutto, da parte del docente, a verificare che quello che è stato fatto ha prodotto un esito? C'è stata una prima fase in cui ci si è preoccupati di far funzionare le cose, quindi la piattaforma Microsoft Teams, i modi in cui è possibile rendere più interattiva la piattaforma, la condivisione del desktop ad esempio, e naturalmente dentro questa prima questione prevalentemente tecnica ci sono tantissime questioni importanti: non tutti possedevano le stesse condizioni di fruizione, e se a lezione può sembrare poco importante, invece agli esami l'incertezza della connessione può metterti in seria difficoltà; al di là del dispositivo tecnico vi è poi la questione che riguarda il luogo dove puoi stare per ascoltare e partecipare, un conto infatti è se hai una casa grande, più postazioni di accesso a internet, un conto è non averne.
Al netto di questo disagio materiale, anche per chi aveva un minimo di agio, è iniziato il tema del disagio cognitivo, quello dell’ascolto, della comprensione, dell’interazione. Personalmente mi sono sforzato tantissimo per limitare questo tipo di problemi, abbiamo fatto degli incontri a latere delle lezioni per cercare di capire assieme agli studenti come si potesse fare per migliorare e rendere meno frustrante questa esperienza, renderla il più possibile utile sia rispetto ai saperi che erano chiamati in causa nel mio corso ma anche rispetto alle emozioni, alle frustrazioni, alle preoccupazioni che questa esperienza del tutto nuova sollevava. Molti studenti erano rimasti bloccati lontani dalle loro famiglie di origine in case svuotate, con rumori e sensazioni completamente trasfigurate rispetto a quelle di prima, la mancanza dell'amico che dava un certo supporto anche indiretto si è fatta sentire per molti. Questo ha provocato anche disagi di tipo psicologico non indifferenti: la lontananza da casa, la solitudine, lavorare sulle questioni universitarie dentro questo clima non è stata una passeggiata e siamo riusciti, anche grazie a questi incontri, a creare un contatto positivo e insieme ad alcuni ragazzi del corso ci siamo resi conto di aver fatto delle cose molto utili insieme. A Forlì è anche nato un blog di ascolto e discussione su questi temi. Devo poi essere sincero sul piano dei feedback che ho raccolto sul piano della didattica: quando è stata ora di fare gli esami mi aspettavo che lo sforzo di produzione di materiali per agevolare l’ascolto e la fruizione delle lezioni venisse ricompensato. Ad esempio, contrariamente a quello che avevo sempre fatto, ho prodotto decine e decine di slide sugli argomenti affrontati nell’aula virtuale. L'idea di consegnare a chi ascolta una lezione una traccia così precisa delle argomentazioni è stata per me sempre un modo sbagliato di affrontare un argomento, una modalità didattica che non permette allo studente di appassionarsi alla materia di studio: «me le scarico alla fine della lezione e quindi non ascolto e non partecipo», per dirla in una battuta e credo che effettivamente, alla fine, sia stato un po’ così. Ho preparato decine di slide a lezione perché quello era l’unico modo che gli studenti avevano per non sentirsi in «balia delle onde», le slide hanno svolto la funzione di salvagenti cognitivi, che però alla fine non hanno permesso loro di imparare a nuotare, per restare nella metafora.
Purtroppo, contrariamente ad altri docenti che sono rimasti contenti (questa che vi racconto è la mia esperienza, sicuramente ce ne sono state delle altre), proprio sul piano del trasferimento dei saperi e della messa in moto di meccanismi di apprendimento riflessivi pieni e consapevoli, io devo registrare che gli esami che abbiamo svolto non hanno avuto, per gran parte, un esito positivo. Non intendo ovviamente sul piano del voto, mi riferisco proprio alla qualità di quello che veniva trasferito, che mi appariva meno «intenso» di quanto lo potesse essere invece alla fine del corso svolto in modo tradizionale. Sicuramente, per quanto mi riguarda, ho desiderio di tornare a fare lezione in aula, anche se mi rendo conto che non sarà una cosa semplice per tutte le ragioni organizzative che dicevamo all’inizio; inutile girarci attorno: sono convinto che la digitalizzazione del sapere produca per certi versi l'annientamento di quell'aspetto vivificante che la trasmissione del sapere deve sempre portare con sé per non rimanere un mero trasferimento di informazioni utili a superare un esame, utili ad arrivare alla fine di un percorso formale che non può e non deve essere ridotto alla sola acquisizione della laurea ma deve essere un’esperienza di vita piena e molto più ampia. L’Università è fatta proprio di incontro, discussione, mescolamento di punti di vista e quello che rischia di venir meno non è solo il momento di incontro nell’aula, ma è il momento anche di incontro nello spazio comune e nella città che ospita gli studenti. Da quest’ultimo punto di vista è necessario aprire una seria discussione rispetto a quella che è la capacità di Bologna a farà fronte e al venir meno della presenza di decine di migliaia di studenti che probabilmente sceglieranno di stare a casa e di non raggiungerne le sponde. Questo apre uno spazio per interrogare subito tutta una serie di questioni: il caro affitti, la qualità e i flussi della mobilità urbana, l’offerta dei servizi di cura, ecc. Non si tratta insomma solo del venir meno, del chiudersi (o perlomeno del restringersi) di un importante rubinetto economico per la città, la città potrebbe risentirne anche sul piano politico e culturale. Tutto questo mi preoccupa ma al contempo ho la speranza che possa rappresentare una opportunità per ripensare alcuni gravi problemi di questa città. Dipenderà dalla capacità politica di abitare questo nuovo scenario. Per tornare all’Università, l'inquietudine passa dalla sensazione che quello che può essere chiamato un processo di graduale smontaggio o smobilitazione dell'università così come abbiamo imparato ad assumerla e a viverla in questi anni, sia arrivato a un passaggio di radicalizzazione molto significativo proprio in virtù di questo passaggio alla tecnologia digitale e che l’Università sempre di più viene ridotta a produttrice di alcuni dispositivi formali svuotati sempre di più di senso sociale (il processo è quello della mercificazione di quelli che chiamiamo i titoli di studio) e che la vera formazione si sposti sempre di più nel privato. C’è e si sta diffondendo infatti questa idea, che per certi versi è condivisa anche da molti intellettuali della sinistra, che il sapere debba essere prodotto con lo scopo di migliorare le condizioni di efficienza del mercato, e che quindi le imprese, sapendo quello che serve loro, siano i soggetti più adatti ad erogare i saperi nella loro forma necessaria. La conseguenza è che assistiamo da un lato a un progressivo trasferimento di grandi blocchi di formazione dal pubblico verso il privato: le aziende non erogano più solo welfare aziendale, nel senso di servizi di tipo sociale, ma diventano corporate university.
Contemporaneamente, fa parte dello stesso processo, criteri di organizzazione privata dei saperi entrano dentro l’Università pubblica e ne orientano il governo. Ad esempio si tratta del cosiddetto concetto di terza missione (la necessità di trovare risorse private e portarle dentro l’università per permettere all'Università di avere risorse economiche aggiuntive a quelle che derivano dalle fonti ministeriali) che è entrato nel mondo universitario ormai da parecchi anni ed è diventato uno dei compiti che i docenti devono espletare. In altre parole, oltre alla erogazione della didattica, e alla ricerca, noi siamo chiamati a far sì che arrivino soldi dai privati e dalle aziende dentro l’Università, sotto forma, ad esempio, di borse di studio o sponsorizzazioni di eventi. Fa parte di questa nuova e sempre più diffusa retorica del territorio che investe nella formazione e nello sviluppo. Ovviamente tale confusione (quella tra formazione ed efficienza del mercato) mi preoccupa e mi spinge a immaginare che l’università non sia oramai più un luogo autonomo, libero, di produzione di teorie critiche e riflessive sul mondo che abitiamo, ma al contrario il luogo in cui si costruiscono dei certificati e degli ingranaggi di legittimazione di un sapere ridotto a diventare adeguata risorsa produttiva. Potremmo chiamare tutto questo l'oblio dell'università. Le università diventano delle business school che addirittura nascono dentro o attraverso il digitale e dipendono necessariamente da imprese o da organizzazioni private. È chiaro che quella che noi una volta chiamavamo università oggi non esiste più. Ma ancora più preoccupante è che oggi non ne abbiamo più neanche la memoria.
Abbiamo parlato di lezione digitale paragonandola a quella «tradizionale». Sappiamo però che ci sono tante differenze, a partire dalla tipologia di insegnamento e di facoltà, dai docenti e da come impostano la lezione. In questo senso abbiamo potuto constatare che alcuni studenti vedono il divenire telematico della formazione come un’opportunità; più che l’assenza di una relazione hanno invece riscontrato un aumento di confronto e del «divenire classe» tramite le chat, in opposizione a una vita universitaria frenetica e frammentata e a lezioni in cui il «qualcuno ha delle domande» era pura formalità. Io per esempio faccio fatica a relazionarmi anche a te in questo momento tramite la telecamera, mi deconcentro e mi sorprendo a fissarmi, come commenteresti queste sensazioni che appaiono contraddittorie?
Guarda questa cosa qui è terribile, è stata la difficoltà più significativa che ho dovuto affrontare nel ripensare la pratica di insegnamento: può succedere, ad esempio, che tu debba insegnare ad una classe molto grande i cui presenti non tengono il video acceso e così ti trovi di fronte a uno schermo con dei pallini, all’interno dei quali sono scritte delle iniziali, non senti gli odori, non senti i rumori di sottofondo, non conosci la temperatura e la luce, solitamente la stessa, dei tuoi interlocutori.. quindi a un certo punto ci si chiede: «Cosa sto facendo?». Questa situazione mi fa tornare sempre in mente il film di Nanni Moretti «Sogni d’oro» e le sue urla disperate quando viene lasciato solo davanti ad una telecamera durante un’intervista.
Quando insegni online ti trovi in un certo senso in un meccanismo simile, l’unico elemento di feedback di cui ti puoi servire mentre stai parlando, è una sorta di specchio. Ti ascolti molto di più, cerchi di capire da solo che cosa sta succedendo nell'aula e devi creare una rappresentazione immaginaria di quello che sta accadendo e a volte rischi di sentirti un po' intrappolato dentro queste fantasie. Bisogna quindi dare un po’ per per scontato che quello che si sta dicendo stia arrivando nel modo giusto. Non sempre ci riesci però, a volte ci si interroga fino a porsi il problema se andare avanti o no. All’inizio è quindi faticoso perché capisci quali effetti stanno producendo le tue. Dopo un po' a questo ti abitui, e finisci per dare per scontato che stia effettivamente producendo l’effetto didattico che tu speri, e acquisisci più fiducia: «se nessuno interrompe o dice niente vorrà dire che sta funzionando». A volte ti capita di ragionare su come fare ad avere dei feedback utili anche in questa situazione. Se la classe è molto ampia è però difficile trovare soluzioni a riguardo. Se invece gli studenti sono pochi, il discorso è diverso. Quando, per esempio, ho fatto lezione per la magistrale ed eravamo al massimo una quindicina, le cose hanno funzionato meglio: potevamo tenere tutti la telecamera accesa, scambiarci informazioni e costruire momenti di discussione più interattivi. Credo comunque che l’importanza del corpo nei contesti di trasmissione o produzione di saperi resti un dato insuperabile e tangibile. Sono infatti convinto che non si impara semplicemente trasferendo schemi e input informativi, s'impara costruendo un contesto in cui le cose piacciono, intrigano e questo piacere è sempre un piacere collettivo: è qualcosa che si sviluppa quando si è insieme. Per banalizzare, potremmo dire che la differenza è simile a quella tra andare a vedere una partita di calcio o un concerto allo stadio o partecipare da soli a casa sul divano. C’è qualcosa che si genera e sviluppa quando sei in prossimità, e questo è anche un grande motore di sviluppo delle proprie qualità cognitive.
Queste ultime infatti, più di quanto si pensi, sono strettamente collegate a questa capacità di attivare vere e proprie forme di coinvolgimento prossemico. A volte può essere un banale cigolio, un rumore che proviene dalla strada, può essere un sorriso di uno dei partecipanti o anche paradossalmente un suo sbadiglio.. ecco questi elementi rendono vivo il contesto di apprendimento e svolgono una funzione di raccordo, di accordare in una unica e comune emotività la dinamica della produzione del sapere. Altrimenti è tutto molto più noioso e faticoso. In ogni caso è anche vero che ogni esperienza è stata per ciascuno un po' diversa. Le cose per quanto mi riguarda sono infatti cambiate tra un corso e l'altro e tra una situazione e l'altra ho avuto feedback diversi e ho fatto esperienze diverse, quindi è giusto in questa fase non dare giudizi troppo frettolosi, nel senso di troppo tranchant, ed è giusto anche esplorare la potenzialità che la rete può mettere a disposizione a chi ne fa uso. Il problema è che (può sembrare un po’ banale e ingenuamente marxista ma penso sia così..) se noi riusciamo a fare della rete uno strumento che ci permette di aggiungere qualcosa all'esperienza universitaria, allora può essere anche utilissimo, se invece è quest'ultimo traccia le linee di visibilità e di enunciabilità che noi possediamo in generale, diventa una gabbia all'interno della quale i saperi si muovono autonomamente da quella che è la nostra esperienza. I saperi diventano mere informazioni che producono effetti di cognitivizzazione e proceduralizzazione del sapere, quindi anche di graduale distacco del sapere tra chi deve poi utilizzarlo nella sua vita, sotto forma di risorsa professionale.
Sono molto convinto che l'elemento della macchina digitale, quindi degli strumenti digitali che oggi sono a disposizione servano a portare le forze di produzione capitalistiche al livello dei rapporti sociali di produzione; credo che la società industriale e le sue formule regolative siano ormai completamente superate e nei rapporti sociali di produzione prevalgano individualizzazione, frammentazione e dequalificazione. Quello che secondo me il digitale sta realizzando è il rendere il dispositivo di cattura del valore all'altezza di questa trasformazione; il digitale permette di ricomporre il processo di valorizzazione sulla base della frammentazione della componente politica di classe, quindi lì c'è un pericolo tutto politico. Si tratta allora, come sempre, di giocare nella contingenza dei processi che sono sempre ambivalenti. Il problema è che la tecnologia digitale non si limita a ridefinire i saperi ma ridefinisce il modo in cui noi facciamo esperienza di quei saperi. Finiamo così per non accorgerci neanche più che quei dispositivi, dentro cui passano i nuovi saperi, sono definiti e orientati in modo politico e interessato. Ancora ce ne rendiamo conto perché stiamo entrando in questi mesi dentro un meccanismo di digitalizzazione e modularizzazione dei saperi, ma a processo finito non ne saremo più consapevoli. Per questo è molto importante tornare in un luogo in cui l’esperienza del sapere sia un'esperienza di corpo, anche per evitare di perdere quella sensazione erotica che fa del sapere un luogo esclusivo, un luogo dell’eccedenza, non un’eccedenza immediatamente autonoma ma un luogo in cui si toccano i nodi e si fa risuonare qualcosa. Se ci abituiamo a uno schema in cui il sapere viene prodotto attraverso moduli, slides, registrazioni le cose cambiano.
I problemi sono emersi soprattutto quando si è passati a fare la valutazione, se ci soffermiamo sulle modalità di svolgimento degli esami a distanza allora meglio intuiamo di quanto effettivamente possa essere tossico questo sistema. Alcuni docenti hanno fatto la scelta di usare dei software pensati ad hoc che impediscono addirittura il movimento del viso (la maggior parte di questi sono stati usati per svolgere gli esami scritti): quando tu scrivi viene inquadrato il tuo viso all’interno di una cornice virtuale e se tu muovi anche solo gli occhi smettendo di fissare lo schermo il software è in grado di rilevarlo e quindi avvisare il docente che stai facendo dei «movimenti impropri». In alcuni casi si utilizzano due dispositivi contemporaneamente (Pc e smart phone) in modo tale da aumentare il raggio di osservazione del candidato e quindi il controllo sul suo operato. Si tratta quindi di svolgere un esame attraverso dei quiz a risposta chiusa, cosa che tra l’altro di per sé non è una novità, l’elemento tecnologico rende però il quiz totalmente «economico»: nel senso che ormai il docente, individuate le domande, non deve fare più niente, il computer conosce infatti le risposte e il compito viene immediatamente corretto dall’algoritmo. Lo studente e le sue capacità vengono così ridotte semplicemente al risultato delle crocette che hanno scelto di collocare. Come è successo anche in Germania e in Gran Bretagna dove i voti finali del loro esame di maturità sono stati decisi da un algoritmo. Il digitale va poi a definire non solo il modo che tu (studente) hai di guardare a ciò che devi studiare (selezionando argomenti e adottando specifici criteri di apprendimento) ma anche la tua vita stessa viene implicata in questo schema che finisce per produrre la cosiddetta tirannia del rating, benchmarking e ipercompetitività.
Quando insieme ad Anna Simone ho scritto il libro La società della prestazione, pur non ancora guardando a quegli elementi di digitalizzazione che da lì a poco sarebbero esplosi, avevamo già denunciato il rischio della diffusione pervasiva dell’imperativo alla performance. In realtà qualche anno fa c'era già molto di quello che poi sarebbe esploso durante il lockdown. In questi ultimi anni si è sviluppata una martellante retorica sulla cosiddetta impresa 4.0, sullo smartworking, retorica abbracciata non solo dalle organizzazioni datoriali ma anche da parte dei sindacati. Si ritiene che queste tecnologie siano e rappresentino una grande opportunità per l'emancipazione dalla fatica del lavoro. Personalmente credo che ad appoggiare acriticamente tali visioni commetteremmo un errore colossale. Speriamo che se ne accorgano presto. In questa maniera si lavora di più e si lavora peggio: ci sono effetti tendenzialmente negativi a più livelli. Teniamo conto poi del fatto che l’evoluzione del digitale è solo all’inizio: non pensiamo di essere già alla fine di questo processo, siamo, al contrario, di fronte a una serie di trasformazioni tecnologiche che iniziano solo adesso e ci sono dei potenziali enormi. Non so ad esempio se avete mai provato un caschetto con il visore.. l’impatto sulla propria sensibilità è davvero micidiale, e poi pensiamo allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, che è davvero solo all'inizio, e alla possibilità di creare nuovi mondi immersivi. Il problema, ripeto, è che non sappiamo se sarà possibile effettivamente governare questo processo, alla fine il punto è sempre quello. Il problema non è di per sé la tecnologia ma che uso possiamo farne e se ne perdi il controllo è un problema. Su questo mi viene in mente tutta la straordinaria riflessione che faceva a riguardo il filosofo francese recentemente scomparso Bernard Stiegler. Egli denunciava il pericolo di un mondo totalmente disincantato, la tecnica come luogo del disancoramento, della perdita dei corpi e delle loro connessioni significative. Non voglio neanche avere un approccio troppo critico e preoccupato, diciamo però che bisogna comunque essere consapevoli della enorme potenza trasformativa e di alterazione della visione delle cose che questi dispositivi portano con sé.
Sono anni che parliamo di dismissione dell'università, oggi l’abbiamo chiamato smontaggio, siamo di fronte a un’istituzione che è sempre meno d'elite e diventa sempre più di massa, a fronte di questo c'è stato anche un declassamento dei titoli di studio e del loro valore e questi luoghi di formazione sono più enti che erogano certificazioni. Il titolo di laurea è ormai un documento come un altro, il tutto senza una capacità visionaria e strategica da parte dell'università sul futuro. Dal tuo punto di vista questi processi già in atto che hanno subito un’accelerazione in relazione alla crisi Covid-19, quali altri cambiamenti porteranno? Quali altri meccanismi innescheranno?
Sicuramente ce ne saranno parecchi, non è facilissimo prevederli perché è difficile prevedere cosa accadrà all'epidemia attualmente in corso, se ci sarà un vaccino o se il vaccino non sarà disponibile. Bisognerà capire come sostanzialmente il trasferimento di tutta una serie di meccanismi che fino ad oggi erano radicati sul territorio, che chiamavano in causa il servizio come servizio territoriale (per esempio la necessità di fornire alloggi agli studenti, con tutte le problematiche che conosciamo a riguardo) si riconfigureranno. Questa riconfigurazione andrà certamente anche al di là della questione sanitaria in quanto tale. Sicuramente ci sarà una domanda forte di mantenimento di alcuni servizi nella loro forma digitalizzata, quindi su alcune cose non si tornerà indietro e in un certo qual modo c'è una tendenza che caratterizza anche altri processi che vanno nella stessa direzione: quella della costruzione di blocchi di sapere sempre più globalizzati e deterritorializzati. Questo ovviamente perché permette di raggiungere un numero molto più elevato di studenti che pagano disponibili a pagare le tasse di immatricolazione. Si è prodotta e si sta producendo un’attrazione globale verso quei luoghi dove il brand universitario ha un suo consolidato riconoscimento. Per quello l’erogazione della didattica a distanza si accompagnerà sempre più ai corsi di lingua inglese: perché sono questi due elementi messi insieme che producono l'internazionalizzazione del (mercato) dell’Ateneo. La mia idea è dunque che si andranno sempre di più a progettare e costruire corsi di laurea che saranno tenuti in lingua inglese con la possibilità di scegliere tra la frequenza in digitale e la partecipazione a lezioni in presenza.
A Bologna è stato fatto un investimento importante e ora tutte le aule del nostro Ateneo sono state ristrutturate e dotate di dispositivi che permettono di svolgere le lezioni in modo flessibile (e favorire così il sistema misto: una parte di studenti in presenza e una parte in remoto). Mi pare evidente che non questo investimento non si sarebbe fatto se si fosse trattato di esaurire l’opzione digitale nel primo semestre di questo anno accademico, questo è certamente un investimento che va al di là del contingente. C’è insomma l’idea di rendere possibile la fruizione a distanza dei corsi anche per il futuro: le grandi università si giocheranno un po' le risorse disponibili a livello globale e le piccole università, con meno appeal e meno risorse, soffriranno moltissimo. Il sistema universitario subirà dei nuovi processi di gerarchizzazione, i cui esiti sono certamente preoccupanti. Ad esempio si produrrà un impatto anche sulla qualità della ricerca e della produzione di sapere che tenderà ad uniformarsi attorno a dei poli egemonici del sapere premiati dagli algoritmi. Nel momento in cui tu fuoriesci dai confini mainstream del sapere vieni subito screditato, invalidato e questo renderà molto stretto lo spazio della discussione che è invece l'unico vero motore per la produzione di un sapere innovativo.
Quindi, per concludere, a mio avviso questo progetto che ha trovato una forte accelerazione dentro l'epidemia, che è stato, potremmo dire, immediatamente legittimato dall'epidemia (e sicuramente è stato anche utile per evitare di chiudere tutta una serie di attività, come la scuola) rischia di diventare un tunnel (senza via d'uscita) di un modo di intendere la produzione del sapere che noi dobbiamo osteggiare. Perché non si può confondere la produzione del sapere con l’efficienza del mercato. Come se il primo fosse subordinato sempre e comunque al secondo. L’università deve essere al contrario quel luogo all’interno del quale io posso permettermi di fermarmi per poter ragionare, pensare e non il luogo dove devo essere sempre in tensione perché altrimenti il mio rating cala. Noi dobbiamo difendere Università dalla temporalità neoliberale. L’Università, ma anche la scuola, sono spazi di vita all’interno dei quali dobbiamo coltivare la possibilità di mettere in discussione i saperi e le egemonie disciplinari. Per questa ragione dobbiamo proteggerlo dalla «economia della prestazione» che il digitale può riuscire a realizzare così efficacemente. Quali caratteristiche bisogna dimostrare di possedere oggi per essere valutato come un «bravo studente»? Chi è capace di fare i conti con questo tipo di trasformazione? Se non sai l’inglese e sei bravissima in latino non conta più nulla. Il problema non è solo quello di vedere la filigrana questi processi, ma capire in che modo si può rispondere politicamente. L’abbiamo visto di fronte al fenomeno dell’Asl (l’alternanza scuola-lavoro): molti studenti erano contenti di fare formazione perché dicevano così «almeno esco da questo luogo un po’ becero e inutile», molti studenti vogliono risposte che abbiano a che fare con la loro prospettiva di vita, non possiamo dire loro «no, non utilizzare quel dispositivo perché così diventi schiavo della tecnologia», non avrebbe senso. Anche perché per i più giovani il digitale è ormai qualcosa di connaturato con le loro esperienze, è diventato naturale avere a che fare con questi dispositivi. Se quella naturalezza diventa però totalmente acritica è un problema. Al contempo credo però che i ragazzi più giovani siano in grado e abbiano il potenziale per poter immettere in questi processi delle resistenze, non credo che stiano tutti lì «sul divano» ad aspettare la nuova serie di Amazon Prime. La mia preoccupazione è certamente molta ma non è una preoccupazione senza speranza. Possiamo certamente giocare la nostra parte dentro i processi in corso.