Della miseria dell’industria scolastica. Intervista a Gigi Roggero

Nell’approfondimento sulle industrie della formazione abbiamo intervistato Gigi Roggero, autore di varie analisi sulle trasformazioni dell’università e da qualche anno insegnante di storia e filosofia nella provincia di Bologna. È questo, dunque, l’osservatorio da cui puoi condurre una riflessione sull’azienda scolastica. Da quando, esattamente?
Nel 2017 ho fatto il mio ingresso nello stato di natura della terza fascia della precarietà, da quest’anno nella seconda. Parlerò a partire dalle impressioni che ho ricavato in questi anni, che vanno certamente approfondite e sistematizzate – per questo rimando alle analisi ben più strutturate sviluppate su Commonware da Luca Perrone e dalla tavola rotonda organizzata da Anna Curcio.
È una scuola diversa quella di quest’anno: che aria si respira tra i corridoi dopo questo passaggio alla Dad, quali sono le percezioni degli insegnanti?
I corridoi sono deserti perché in realtà la stragrande maggioranza degli insegnanti lavora da casa anche laddove c’è la possibilità di scegliere, le percezioni che si hanno quindi sono ovviamente mediate dallo schermo e dalla distanza. L’aria è piuttosto di solitudine e rassegnazione, con un aumento di casi di ansia o depressione tra gli studenti: si tratta di una tendenza ormai di lungo periodo, accelerata nella crisi sanitaria e con cui, credo, dovremo sempre più fare i conti. E la rassegnazione, come sappiamo, conduce all’accettazione. Non c’è infatti una vera discussione sulla didattica a distanza dentro la scuola, ci sono noiosi appuntamenti tecnici, ma quasi nessun ragionamento su cosa significhi insegnare “a distanza” – per usare la neolingua della Dad, l’ennesimo degli acronimi divenuti fonte di identità dell’azienda scolastica (si comunica così, con idiomi per me incomprensibili, e ci si fregia del titolo di responsabili o competenti di questi acronimi). Dunque, ci si affida alla libera iniziativa e alla buona volontà del singolo docente. C’è chi si è limitato a esportare le lezioni che faceva in classe sul video, con risultati che si può facilmente immaginare, c’è chi ha provato a inventarsi empiricamente un qualche modo nuovo di fare didattica, c’è soprattutto chi tenta di barcamenarsi o arrivare alla fine dell’anno.
Tutto questo in assenza di un ragionamento strategico su che cosa significhi il rapporto tra tecnologia e insegnamento, tra tecnologia e formazione, tra tecnologia e scuola. Ciò manca sia dal lato dei vertici istituzionali sia tra gli insegnanti, ed è assente anche tra gli studenti, che sono quelli che più stanno subendo questa situazione. Gli studenti vengono infatti privati di una parte fondamentale della dimensione formativa, cioè l’esperienza relazionale e collettiva. Soprattutto, mi sembra che non ci sia nessuna discussione sul tema: siamo in un contesto contingente? Penso proprio di no: direi che si accelerano processi che sono destinati, in una prospettiva forse nemmeno di lungo periodo, a cambiare le istituzioni formative in generale.
Facevi riferimento a una dimensione anche volontaristica che viene richiesta agli insegnanti. Che caratteri assume la “mission” degli insegnanti all’interno di questo 2020 catastrofico e quindi, oltre al classico fare lezione, quali sono i compiti richiesti al corpo docente?
Per dirla in modo schematico e – come premettevo – impressionistico, a me pare che storicamente gli insegnanti in Italia abbiano fatto una sorta di scambio tra qualità e quantità, e tra salario e orario. Tutto sommato l’insegnante lavora relativamente poco con le sue 18 ore alla settimana. È vero che è difficile stabilire un’unità di misura per il lavoro cognitivo e, nel caso dei docenti della scuola, vanno aggiunti gli impegni istituzionali (consigli di classe, collegi docenti, i corsi di formazione, aggiornamento e accreditamento ecc.), oltre ai compiti da correggere e le lezioni da preparare, quindi sono ben più di 18 ore; tuttavia, siamo al di sotto delle 40 ore settimanali medie di lavoro e – benché parlando con vari insegnanti si abbia la sensazione di trovarsi di fronte a martiri che portano il peso del mondo sulle spalle – onestamente Stachanov e il lavoro in miniera sono una cosa un po’ diversa… Questa condizione relativamente agiata dal punto di vista orario fa da contraltare a salari piuttosto bassi. Un insegnante prende circa 1500-1600 euro al mese, certo non molto se teniamo conto che si tratta di figure altamente qualificate (in possesso come minimo di una laurea, e sempre più arrivano coloro che sono stati espulsi dell’università carichi di titoli, dottorati e anni di ricerca).
Allo stesso modo, dicevo, la verifica rispetto alla qualità dell’insegnamento è piuttosto bassa. È un punto delicato, me ne rendo conto: da un lato c’è la libertà di insegnamento, dall’altro c’è il problema di insegnanti che – una volta ottenuta la cattedra – possono dire e fare agli studenti tutto ciò che vogliono, il che può essere un problema. In cambio di questa assenza o quasi di verifica di quello che individualmente fanno, gli insegnanti non possono decidere nulla o quasi sulle questioni fondamentali del percorso formativo nel suo complesso, su come deve essere la scuola, sui suoi fini e sulle forme sostanziali della didattica.
A questo scambio hanno attivamente collaborato i sindacati. A me pare che, almeno su questo aspetto a mio avviso dirimente, la differenza non sia tanto tra confederali o non confederali, tra una sigla o l’altra: in generale la loro attività si concentra sulle mansioni, sui cavilli, su ciò che un insegnante deve o non deve fare, ma poco viene detto in termini salariali e ancor meno sulla possibilità di decisione collettiva rispetto a che cosa è la scuola, ai suoi obiettivi, ai fini e ai processi della formazione.
Ho dunque l’impressione che la figura dell’insegnante sia oggi il prodotto di questo tipo di scambio, la sua soggettività media è quella dell’impiegato statale, cioè di chi è attento a non fare nulla che non sia strettamente richiesto, dopodiché non si pone la questione del perché lo stia facendo. È la figura classica del ragionier Filini, preoccupato esclusivamente di timbrare il cartellino di entrata e uscita e ricevere un magro stipendio il 27 del mese. Insomma, riprendendo le considerazioni che Romano Alquati faceva già negli anni Novanta, la soggettività dello studente medio prodotto dalla competizione scolastica è quella del «non so quello che sto facendo, l’importante è farlo meglio degli altri». La soggettività dell’insegnante medio risponde all’ingiunzione: non so quello che sto facendo, l’importante è che non mi facciano fare nulla più di questo.
Come dicevo, il discorso che sto facendo è delicato e ambiguo, perché si potrebbe prestare all’utilizzo che ne hanno abbondantemente fatto negli ultimi decenni i devastatori neoliberali della scuola. Credo tuttavia che sia un filo di ambiguità su cui è necessario muoversi se non vogliamo accontentarci di difendere modelli di scuola pubblica rispetto a cui non c’è da provare particolare nostalgia e che, per di più, sono ormai stati sconfitti. Inoltre, per chi come me viene dalla tradizione operaista, va nettamente distinto il rifiuto del lavoro dall’alienazione dei colleghi di Fantozzi, che si imboscano per giocare a battaglia navale. Il rifiuto del lavoro è un arricchimento delle proprie capacità attraverso il conflitto, la soggettività-Filini rappresenta l’alienazione delle capacità, l’accontentarsi di passare il tempo negli interstizi della produzione del valore e la rinuncia al conflitto. Il rifiuto è lotta, l’alienazione è accettazione. Inoltre, nella scuola e più in generale nelle industrie della formazione questa specifica forma di alienazione produce una frustrazione che, non coagulandosi mai verso l’altro, viene puntualmente sfogata verso il basso, in primis sugli studenti.
Anche nell’università si può vedere qualcosa di simile…
Sì, la frustrazione scaricata verso il basso è una caratteristica che in qualche modo accomuna la scuola e l’università, che sono complessivamente ambiti produttivi da studiare nelle loro distinte specificità e al contempo come parti della più complessiva industria della formazione. Qualsiasi studente universitario sa che la cosa peggiore che gli possa capitare a un esame è trovarsi di fronte a quello che chiama “assistente” – figura scomparsa da ormai quarant’anni, si tratta in realtà di un assegnista o un dottorando, insomma un precario. Teoricamente non dovrebbe fare esami, lo fa perché costretto – direttamente o soprattutto indirettamente – dal docente strutturato da cui dipendono le possibilità di carriera o quantomeno di sopravvivenza nella giunga accademica. Qui non è la soggettività-Filini ma la soggettività-Fantozzi, servile e sottomessa, che in questo caso ha fatto uno scambio tra status e salario. In cambio del lavoro gratuito e della sottomissione acquisisce la possibilità di restare in coda, in attesa che il suo barone gli elargisca qualcosa. Riceve inoltre un salario psicologico, cioè poter dire a genitori, parenti e amici: sono un professore universitario. Parte fondamentale di questo salario psicologico è, appunto, il potere da esercitare verso gli studenti, la sua unità di misura sono le bocciature, le umiliazioni che infligge, l’ansia che trasmettono o paura che incutono.
Da questo punto di vista hai parlato più volte di un mix di potere feudale e tendenza all’aziendalizzazione dell’università, nella scuola funziona in modo diverso?
Nella scuola è diverso, la possibilità di carriera degli insegnanti non dipende da un individuo ma dal meccanismo delle graduatorie e di concorsi pubblici che non sono – come avviene nell’accademia – gestiti esclusivamente dai rapporti di potere e dagli scambi di favore tra le lobby baronali. Quindi, il rapporto di subalternità personale nella scuola non è particolarmente rilevante. In entrambi i contesti, comunque, le istituzioni formative si reggono su una precarietà strutturale. Al contempo, soprattutto negli ultimi anni, per effetto dei continui tagli all’università e dunque all’ulteriore chiusura degli spazi per i precari, a scuola entrano sempre più persone che non sono riuscite a sistemarsi all’università, cioè che hanno abbandonato la coda o ne sono state allontanate. In passato per queste figure la scuola era un parcheggio temporaneo, una fase di transizione in attesa di entrare nell’accademia; ora il travaso è diventato permanente e definitivo. Gli espulsi dall’industria universitaria vanno quindi a ingrossare le fila del precariato scolastico all’interno del quale portano qualità (se assumiamo che nelle università si produca qualità, cosa che sarebbe da discutere), comunque portano – come dicevo già prima – esperienze e titoli più alti della semplice laurea. D’altro canto, però, portano anche l’ulteriore frustrazione di chi pensava di fare altro nella vita e avere un altro status.
Prima parlavi dell’assenza di un dibattito rispetto ai processi in atto: potresti approfondire questo aspetto alla luce del quadro che stai delineando?
Ritorniamo alla didattica a distanza: dicevo che non credo si tratti di una situazione contingente, dovuta all’eccezionalità della crisi sanitaria, bensì alla violenta accelerazione di un processo che già esisteva, almeno embrionalmente, e che muterà in profondità la scuola e la formazione. Pensiamo solo all’investimento delle grandi corporation: Google Meet già esisteva come piattaforma, negli ultimi mesi si è molto sviluppata, e così anche Microsoft Teams impiegata nelle università italiane. Più in generale, l’insegnamento a distanza non è certo una novità. Nelle global university è da molto tempo parte integrante della struttura didattica, ed è l’asse portante attorno a cui sono fiorite le università for-profit americane, con una struttura leggerissima di personale accademico e la quasi totalità dell’insegnamento che avviene attraverso lezioni registrate e piattaforme online.
Di questo a scuola e tra gli insegnanti non se ne parla, si attende che passi la nottata e ci si aspetta, o almeno si spera, che le cose tornino come prima. Non credo sarà così. Quantomeno ci saranno delle forme miste di didattica, quella “a distanza” integrerà cioè quella “in presenza”. Soprattutto, ben più in profondità, penso che cambierà la formazione, il rapporto tra insegnanti e studenti, il piano relazionale dell’esperienza scolastica. Insomma, cambierà il senso della scuola, la sua struttura, la figura dello studente e il ruolo stesso dell’insegnante. In un futuro forse non troppo lontano l’insegnante massa, con la sua soggettività-Filini, potrebbe trovarsi almeno in parte sostituito dalle macchine. Forse è uno scenario fantascientifico, chissà, però nel momento in cui la lezione è macchinizzabile attraverso le piattaforme e i dispositivi in rete, perché avere un numero così alto di docenti? Certo, sono piuttosto convinto che l’agente umano non possa essere completamente sostituito e macchinizzato, almeno per un tempo ragionevolmente lungo quel «residuo irrisolto» – per continuare a usare il lessico alquatiano – resta indispensabile per l’industria scolastica. Tuttavia, possono essere ridotti anche in modo deciso i numeri degli insegnanti, che avranno una funzione differente rispetto al passato, perlopiù di mediazione tra la macchina e lo studente, vigileranno sulla loro frequenza, sul fatto che eseguano i compiti, svolgeranno le verifiche. La didattica verrà ulteriormente modularizzata, facendo fare un salto deciso a un processo che – anche in questo caso – si era già consolidato a partire dalle riforme della scuola e dell’università dalla fine degli anni Novanta.
Anche su questo aspetto mi pare che i sindacati non dicano nulla, si concentrano esclusivamente sui protocolli, sui minuti che il docente passa davanti al video o cose del genere. Si rendono conto che, se lo scenario sopra tratteggiato non è del tutto irrealistico, si potrebbe arrivare a un drastico ridimensionato dell’occupazione? Mi pare che dovrebbe essere materia, oltre che di riflessione, quantomeno di vertenza.
L’aspetto per me strategicamente decisivo, comunque, riguarda cosa ciò significa dal punto di vista della produzione e riproduzione della capacità umane, dell’impoverimento qualitativo della soggettività. Il tempo della scuola diventa, allo stesso tempo, estremamente flessibile ed estremamente rigido. È estremamente flessibile quel tempo che dovrebbe segnare il confine tra lavoro e vita: nulla di nuovo, certo, però adesso – come avviene con lo smart working in generale – la confusione è completa, in ogni momento devi essere pronto per una riunione online, per rispondere a una mail, per inventarti un modo per fare lezione. È invece estremamente rigido, modularizzato, il tempo della produzione del sapere, scandito dai 45 minuti dell’ora didattica: se anche si sta parlando di un tema fondamentale, l’insegnante si deve interrompere perché così è sancito dai protocolli. Il tempo di lavoro si allunga, il tempo della formazione si modularizza. E modularizzandosi si pillolizza, si nozionizza, non c’è tempo per formarsi alla discussione, all’affrontare problemi aperti: o hai la soluzione preconfezionata, oppure non devi nemmeno nominarli.
Mi sembra che ci sia anche uno slittamento verso il modello anglosassone, in cui ogni lezione è preparata e suddivisa in tappe precise che non tengono in considerazione qualsiasi possibile imprevisto. In più con la distanza tutto si amplifica, nel senso che l’imprevisto non si può dare perché tanto il microfono è silenziato o perché si sta solo guardando un video ma non c’è nessuno dall’altra parte.
Hai ragione: l’imprevisto in modo forte, quello che tocca la radice dei problemi (non la retorica del “problem solving” di cui abbondano i manuali aziendali), la dimensione critica o semplicemente il porsi delle questioni fondamentali aperte che non hanno una soluzione pre-modularizzata devono essere limitati al minimo. L’imprevisto è un dato negativo per l’industria scolastica perché si tratta di un costo produttivo che deve essere ridotto il più possibile. Devono evitare il clinamen, perché quella deviazione accidentale fa perdere tempo e potrebbe essere pericolosa. Questo significa un impoverimento dei saperi, la chiusura di spazio per la formazione di una soggettività critica. Chi pensa che sia influenzato da una lettura alla Philip Dick magari ha ragione, però lo inviterei a riflettere su quelle realtà in cui questi processi in parte sono già in corso (prima citavo il contesto americano e le università for-profit). Più correttamente bisognerebbe porsi la domanda: l’industria della formazione può fare a meno del pensiero critico? Io direi proprio di no. E allora probabilmente ci sarà un’ulteriore gerarchizzazione, canalizzazione e differenziazione istituzionale dei percorsi formativi: dai percorsi massa, in cui la distanza può essere ampiamente utilizzata, ai percorsi di élite, in cui la presenza è una merce importante. Per questo non ha più molto senso continuare a parlare di diritto allo studio e alla formazione, se non si capisce di quale studio e di quale formazione si sta parlando.
Come si può contrastare questa tendenza?
È chiaro che oggi dire semplicemente “contro la Dad” è quantomeno vago, nel senso che in questi processi già siamo immersi. Tuttavia, quell’essere contro non lo dobbiamo scordare, né dobbiamo rinunciarvi nel nome della religione nuovista. Il che non significa che prima della Dad ci fosse la buona scuola, per usare un termine divenuto di moda negli ultimi anni: sappiamo che non è così, abbiamo già detto che non c’è nulla di cui avere nostalgia, prima non c’era un sapere ricco che improvvisamente viene impoverito. La tendenza della Dad segna un nuovo passaggio di modularizzazione di un sapere impoverito, provare a deviarla non significa espellere le macchine dal processo formativo, in un impeto neo-luddista; significa però reimmaginare radicalmente e conflittualmente il rapporto con le macchine a partire da un processo di arricchimento del sapere. Rimettere cioè in discussione i fini, per modificare anche i mezzi.
Si può dire che docenti e studenti siano in smart working?
Sono in smart working gli insegnanti e sono in smart working gli studenti. Per quanto riguarda gli insegnanti ciò apre anche una questione di natura tecnico-giuridica, sindacale: gli insegnanti ufficialmente non hanno lo smart working, tanto è vero che chi fa lezione da casa deve presentare una richiesta alla dirigenza scolastica cosicché, se durante le ore di lavoro si infortunasse, sono affari suoi e non è coperto da assicurazione. Gli studenti sono in smart working come co-produttori di sapere e come consumatori della merce-lezione. Sono infatti consumatori che producono.
Hai avuto modo di ascoltare commenti degli studenti, preoccupazioni o lamentele in relazione a questa condizione a cui sono costretti e che in ultima istanza comunque subiscono?
Da quello che vedo, mi pare che al momento prevalgano tra gli studenti delle forme di adattamento individuale rispetto a questa situazione, si fatica a captare non dico delle dinamiche collettive ma anche solo un sentire comune che potrebbe condurre all’attivazione di dinamiche collettive. Del resto non ho nessuna visione romantico-populista dei giovani, credo che almeno una parte di questo processo finora descritto sia da loro in buona misura richiesto, perché sono formati in questo modo. Siccome devono mostrare di avere assorbito un sapere impoverito e modularizzato per poter così accumulare le unità di misura della conoscenza, cioè i voti, sono abituati e istintivamente portati a diffidare dell’insegnante che non traduce immediatamente il problema in una soluzione, che cioè rischia di far loro perdere tempo e confondere le idee.
Tuttavia, laddove si riesce a bucare almeno temporaneamente la cappa di questo sapere impoverito e modularizzato, emerge forte una voglia di discutere. Non lo dico in termini generici, di una bella speranza per i giovani, ma nel senso specifico della generazione della crisi smarrita e priva di punti di riferimento alternativi all’esistente. I loro genitori fanno parte delle generazioni che hanno vissuto sulla propria pelle la precarizzazione, accettanti o depressi, o entrambe le cose insieme. La Dad ha fatto fare un salto di scala a una solitudine e un’atomizzazione che erano già estremamente forti, prodotti anche dalla decorporeizzèazione e mediazione tecnologica delle relazioni, o di una loro vera e propria virtualizzazione. Nella scuola, laddove ci sono situazioni collettive, si tratta perlopiù di simulacri: i lavori di gruppo interamente organizzati dall’insegnante e in cui non hanno alcuna autonomia, perfino l’autogestione è una pratica organizzata dai vertici scolastici, un servizio aziendale che lo studente ha il dovere di consumare. Perciò, se adeguatamente cercato, mi pare che quel desiderio imprevisto di una discussione non modularizzata, autonoma, possa costituire uno dei clinamen.
Stai parlando di una sorta di sussunzione delle pratiche di lotta e di aggregazione autonoma degli studenti?
Esattamente, potremmo parlare di un toyotismo della formazione. La cooperazione, la capacità di fare squadra, il lavoro in gruppo e di team sono al contempo retoriche e competenze richieste alla forza lavoro contemporanea. È, ovviamente, una cooperazione coatta, integrata nei meccanismi della gerarchizzazione capitalistica, un’apparente orizzontalità finalizzata alla reale verticalità della produzione del valore.
Ponendoci il problema di come bucare o più ambiziosamente rompere questa solitudine del produttore-consumatore impoverito, dal punto di vista delle capacità e salariale, dobbiamo affrontare anche la questione della relazionalità, però in termini non banali o di maniera. La relazionalità infatti non è che manchi nell’industria della formazione: il punto, anche in questo caso, è che si tratta di una merce-relazionalità impoverita, atomizzata, perfino forzata. Vi è infatti un’ingiunzione alla relazionalità, dai già citati momenti di “autogestione” etero-organizzati ed etero-diretti, fino ad arrivare ai consigli di classe in cui si discute di quanto il singolo studente sia o meno relazionale. Il nodo riguarda invece come gli studenti riescono a riappropriarsi di una relazionalità autonoma. La Dad è una prosecuzione dell’impoverimento innovativo con altri mezzi. Ciò non significa che le tecnologie siano sempre impoverenti, è impoverente la tendenza dell’innovazione tecnologica che si è determinata negli ultimi decenni in assenza di lotte e conflitti. Può esistere un’altra tendenza, certo, che però deve riuscire a deviare o rompere questa.
Parliamo della questione dei fondi e dei finanziamenti alla formazione. Indubbiamente c’è un disinvestimento di lungo termine sulla scuola e sull’università: che cosa comporta nei due ambiti?
Andrebbe fatto un discorso più circostanziato sulla scuola in maniera distinta rispetto all’università, tenendo conto delle specificità territoriali e delle diversità sostanziali tra i diversi tipi di istituto, per comprendere come cambia il rapporto tra le competenze richieste e i differenti strati del mercato del lavoro. Io mi limito ad alcuni accenni, auspicando un approfondimento collettivo e articolato su questi temi.
A essere rilevante non è tanto – per restare al caso bolognese – che la Ducati abbia le proprie officine dentro delle scuole, ma che gli istituti tecnici debbano sempre più costruire i propri programmi in funzione delle esigenze produttive del territorio e del mercato del lavoro, e su questa base ricevono i finanziamenti. Ciò implica una canalizzazione ulteriore dei percorsi degli studenti, che già a 14 anni si trovano vincolati a sentieri da cui avranno difficoltà a uscire, sia dal punto di vista delle prospettive lavorative, sia per i saperi a cui possono avere accesso. Per l’università il discorso è parzialmente diverso e anche lì ovviamente andrebbe affrontato differenziandolo rispetto agli indirizzi di studio, ai territori, alla differenza tra nord e sud. Ribadisco che, come già dicevamo da tempo, il definanziamento e la dismissione del sistema universitario hanno un carattere strategico e non legato alla contingenza dei singoli governi. Il che non significa che a un certo punto le università chiuderanno, ma che appunto non c’è un disegno strategico complessivo su un ruolo forte del sistema universitario italiano. Ciò dipende anche dal ruolo del paese nella divisione internazionale del lavoro, con il motore trainante delle piccole e medie industrie a sfruttamento intensivo di una forza lavoro poco qualificata o pagata come tale, e bassa richiesta di ricerca in innovazione e sviluppo. Laddove questa ricerca c’è, come nelle cosiddette punte di “eccellenza”, viene fatta in modo perlopiù indipendente dall’università, o utilizzandone gratuitamente i risultati, oppure si aumenta l’investimento negli istituti tecnici iperspecializzati.
Quindi, quando si parla di disinvestimento sulla formazione non va inteso solo nei termini della miopia istituzionale, ma delle scelte strategiche che fanno. Questo feticcio di una cultura non riconosciuta andrebbe abbattuto, perché conduce a visioni idealistiche: come se la cultura fosse estranea alla forma-merce, come se richiedere la sua valorizzazione fosse in sé antagonista e non invece la valorizzazione di una specifica industria capitalistica. Il carattere strategico di questo disinvestimento è dimostrato anche dalle figure a dir poco di secondo piano che vengono scelte per il Miur. Nell’ultimo anno i ministeri della scuola e dell’università sono tornati a dividersi: il primo affidato a una figura grottesca, l’altro al rettore dell’Università di Napoli, di cui non si sente mai parlare. Definirei quest’ultima una scelta da “basso impero”: si affida direttamente la spartizione dei pochi fondi a un rappresentante delle reti clientelari dell’azienda feudale.
Undici anni fa scrivevi “La produzione del sapere vivo”. Nel testo analizzi i mutamenti del sistema accademico, ma precisi anche come ogni trasformazione in atto faccia parte di un processo più ampio e stratificato che vede il permanere di forme vecchie in compresenza delle nuove (mi riferisco in particolare all’analisi, cui facevi cenno prima, del sussistere di logiche di tipo baronale insieme al radicalizzarsi del processo di aziendalizzazione, non solo come aumento di investimenti privati). Possiamo dirlo anche in relazione alle trasformazioni che hanno attraversato la scuola? Cosa contraddistingue l’organizzazione interna del mondo della scuola? Cosa resta del “vecchio” e cosa c’è di “nuovo”? Oltre ai banchi con le rotelle…
Seguendo il ragionamento che stiamo conducendo, possiamo forse dire che una tendenza comune dell’industria della formazione è il processo di aziendalizzazione, che avviene in forme diverse nella scuola e nell’università. Dovrebbe ormai essere chiaro che quando parliamo di aziendalizzazione della formazione non facciamo tanto riferimento ai privati che vi entrano dentro in modo diretto, cosa che in Italia avviene ben poco per le ragioni sopra descritte. Entrare in modo diretto implica un costo e un investimento, i privati preferiscono avere un ruolo parassitario, utilizzando una forza lavoro già formata altrove. Aziendalizzazione significa che scuola e università devono diventare aziende, o per dirla in termini per noi più produttivi si industrializzano. Devono cioè riorganizzarsi e funzionare in termini di profitto e rendita, di produzione e riproduzione, di investimenti e consumo, di costi e benefici. Dell’impoverimento e modularizzazione del sapere in un’ottica di serializzazione produttiva abbiamo abbondantemente parlato. Si pensi, per fare un altro esempio su cui non dico nulla di particolarmente nuovo, alla trasformazione della figura del preside. Come sappiamo il preside non esiste più, benché si continui a chiamarlo così e tra molti insegnanti rimanga l’idea del suo ruolo come primus inter pares, com’era una volta, ossia un professore con una funzione di gestione e coordinamento, che tuttavia restava un professore e ragionava come tale. Adesso si chiama dirigente scolastico e non è solo una questione nominale: esiste una carriera separata, è un manager, oggettivamente una controparte aziendale rispetto agli insegnanti.
Un’altra grande questione nel processo di industrializzazione di scuola e università è quella che definirei l’utentizzazione dello studente. Mi pare che la classica idea dello studente come cittadino portatore di diritti – idea che non ci ha mai appassionato, per dirla in modo eufemistico – non appartenga più al loro sentire: si percepiscono innanzitutto come utenti che hanno pagato per un servizio e vogliono che venga erogato. Attenzione, nella sua estrema ambiguità ciò può portare anche a dei conflitti: cosa accade nel momento in cui lo studente paga per un servizio che non riceve, o che non riceve per come gli era stato prospettato? Cosa accade se uno studente investe nello studio senza averne in cambio la posizione che gli era stata garantita nel mercato del lavoro? Sono domande attorno a cui fare dei percorsi di ricerca, proprio per non restare ancorati a passati e parole d’ordine che non funzionano più, sempre che abbiano mai funzionato nella direzione da noi auspicata.
Nella scuola il processo di utentizzazione – come dicevamo prima – è favorito dal fatto che spesso sono gli studenti a richiedere un sapere impoverito in quanto è più facile da consumare, può sembrare una via più diretta per ottenere ciò per cui le loro famiglie hanno pagato. Proprio le famiglie giocano un ruolo importante, in quanto costituiscono i portafogli dei clienti che le scuole-aziende devono attrarre con quella che, non a caso, viene chiamata “offerta formativa”. Se un dirigente scolastico si rende conto che ci sono insegnanti che scontentano i clienti, facendo perdere di attrattività il brand della propria azienda, deve intervenire. Negli ultimi vent’anni i voti si sono alzati notevolmente, il che di per sé non è un problema (il sapere critico non è certo sinonimo di 3 e 4 in pagella!); il problema è che il proliferare di 9 e 10 non risponde a una radicale messa in discussione della misurazione valutativa e del voto (cosa di cui ci sarebbe un gran bisogno), ma al contrario è funzionale alle strategie di marketing della scuola. Il dirigente scolastico più aziendalista non è quello che fa bocciare di più, o necessariamente quello dal volto più autoritario, bensì quello che seleziona da un lato le famiglie-clienti ai cui figli dare voti alti, dall’altro le famiglie-clienti poco convenienti e dunque sacrificabili (non di rado quelle dei migranti).
Mi limito qui ad accennare un altro grosso tema, che andrebbe affrontato in modo approfondito: le certificazioni e i “bisogni educativi speciali”. È il polo simmetrico, complementare, dell’ingiunzione performativa e dell’ansia che essa produce. La continua proliferazione di certificazioni è infatti parte dell’aziendalizzazione della scuola, e in qualche modo conviene a tutti: ai dirigenti scolastici e ai professori, che si tolgono il problema di dover giustificare i risultati negativi di uno studente, ovvero di dover trovare altri modi di insegnamento quando quelli utilizzati non funzionano; alle famiglie, che possono fare andare avanti i figli riducendo la quantità di tempo che vi dedicano; allo studente, che può fare il minimo indispensabile o nemmeno quello, senza rischi e responsabilità; laddove sono coinvolti anche ai medici e alle industrie farmaceutiche, che possono così medicalizzare e patologizzare qualsiasi tipo di questione formativa e sociale. Il risultato è sempre lo stesso: l’impoverimento delle capacità.
Dall’angolazione dell’utentizzazione dobbiamo analizzare anche il rapporto tra docenti e studenti. Se non vogliamo prendere dei pericolosi abbagli, dobbiamo distinguere tra un comportamento di conflitto e insubordinazione, che comporta la messa in discussione o rottura di un rapporto di potere, in cui lo studente si assume la responsabilità di criticare o attaccare il docente con i rischi che ne conseguono, e il tenere sotto pressione il docente in quanto utente insoddisfatto dei lavoratori con cui ha a che fare, rivolgendosi ad esempio al dirigente – direttamente o più spesso per conto della famiglia. Quest’ultimo atteggiamento – «lei questo non lo può fare perché io pago per il servizio» – è come quello del consumatore dell’Ikea che protesta con il direttore del commesso che l’ha servito. Dal punto di vista della formazione della soggettività si tratta quindi di comportamenti radicalmente differenti, certo anche qui c’è ambivalenza se si vuole, però solo nella rottura dell’utentizzazione lo studente può ricercare quelle nuove forme di relazionalità che lo conducano al di fuori della solitudine della scuola-azienda.
Un’ultima questione: negli ultimi tempi hai più volte parlato di una sorta di “maternalismo” o di “rapporti matriarcali” nelle scuole e più in generale nelle industrie della riproduzione. Anche questo è un punto delicato: che cosa intendi?
Il maternalismo è la relazione di potere di un sistema matriarcale, così come il paternalismo è la relazione di potere di un sistema patriarcale. È meglio precisare subito, a scanso di equivoci, che da un lato parlare di crisi del sistema patriarcale non significa che i comportamenti patriarcali e paternalistici siano finiti, anzi proliferano e per certi versi diventano ancora più violenti proprio perché il patriarcato non riesce più a fare sistema; dall’altro, parlare di matriarcato non significa che le donne abbiano sostituito gli uomini nell’esercizio del potere, non è evidentemente così sui livelli alti e medio-alti del dominio capitalistico. Significa invece che sui livelli bassi e medio-bassi, nelle baricentrali industrie della riproduzione, sempre più ci si trova di fronte a rapporti di potere in buona misura femminilizzati, nel senso che cercherò ora di argomentare.
Nella scuola il maternalismo ha un aspetto sia quantitativo sia qualitativo. Storicamente qui le donne sono state e sono oggi numericamente maggioritarie, in alcuni casi largamente maggioritarie tra gli insegnanti (cambia il discorso mano a mano che si sale tra i livelli della gerarchia scolastica: sono decisamente meno tra i dirigenti scolastici, benché in crescita). Lo è fin dalle elementari, basti pensare alla maestra dalla penna rossa del libro Cuore. La scuola è stata un ambito importante di emancipazione di genere e di riconoscimento sociale; tuttavia, come già abbiamo visto prima, spesso le figure che subiscono delle forme di oppressione o di subalternità tendono a sfogare la frustrazione accumulata su coloro con cui possono agire un rapporto di potere favorevole. Non a caso l’incubo degli studenti è la professoressa sans phrase, arcigna e incarognita. L’emancipazione senza liberazione rischia di tradursi nel già menzionato salario psicologico, bastonando chi sta sotto per l’incapacità di bastonare chi sta sopra.
Approfondiamo ora l’aspetto qualitativo del maternalismo. Negli anni Novanta si è molto insistito sulla “femminilizzazione del lavoro”, che significa non solo che sempre più donne entrano nel mercato del lavoro, ma anche che facoltà attribuite storicamente al genere femminile diventano caratteristiche richieste alla forza lavoro complessiva, sia essa quella dei maschi o delle femmine. Il lavoro di riproduzione della capacità umana, in quanto processo centrale di valorizzazione e accumulazione di capitale, è svolto da uomini e da donne. Questo ragionamento però sarebbe secondo me monco se non si ragionasse, al contempo, di una femminilizzazione dei rapporti di potere e di una femminilizzazione del rapporto di capitale. Restiamo nel campo della scuola: il rapporto tra insegnante e studente è maternalistico e non paternalistico. Il paternalismo è un rapporto classicamente autoritario, crudo, basato sulla forza e non di rado la violenza, impiega il bastone e la carota, è stato messo in scena nel celebre film Padre e padrone. È diretto ed esplicito, senza fronzoli e rivendicato: c’è chi comanda e chi è comandato, punto. Il maternalismo non è crudo né esplicito, non bastona e non usa in modo diretto i rapporti di forza: io ho riposto fiducia in voi e invece mi avete deluso, è questa la tipica scudisciata maternalista. C’è un aspetto di moralizzazione, si fa appello a una fiducia non corrisposta; il maternalismo induce il senso di colpa e attraverso questo riproduce la relazione di potere e subordinazione. La relazione di cura maternalista definisce infatti l’altro come fragile, lo desoggettivizza e vittimizza, impedendone strutturalmente l’affrancamento dalla dipendenza.
Nella relazione di potere patriarcale la negazione dell’autonomia è un presupposto esplicito. Se il soggetto subordinato la vuole conquistare, ha da subito chiaro che deve rompere quella relazione, deve assumersi la responsabilità del conflitto. La relazione di potere matriarcale è ben visibile negli atteggiamenti tra professoressa e studenti: io vorrei darvi l’autonomia, ma purtroppo non siete maturi per meritarvela. Gli studenti sono investiti da una forma di attenzione asfissiante, sono al contempo «i miei ragazzi» e quelli che «mi deludono». Il confine tra insegnante e studenti si confonde in una relazione individuale tra madre e figlio, in un abbraccio mortale che nega la soggettività dei ragazzi agendo in nome del loro bene, riproducendo così il rapporto di dipendenza. Nel sistema patriarcale il padre si presenta esplicitamente come padrone, nel sistema matriarcale la padrona si presenta implicitamente come madre. Non ti bastona ma ti accarezza, e accarezzandoti ti lega in una relazione affettiva e di cura che diventa un ricatto. Non è un caso che nella scuola ci sia una forte insistenza sulla dimensione «educativa» nei confronti degli studenti, ben più che su quella formativa. La relazione educativa punta a far adottare comportamenti normativi e valori, mentre la formazione è un processo aperto di insegnamento e apprendimento volto a costruire una capacità autonoma di ragionamento. Si ritorna quindi a un modello disciplinare, normativo e valoriale, non più bastonando ma accarezzando e istigando al senso di colpa. Tutto ciò ha un peso forte soprattutto per le generazioni più giovani, in cui mi pare ci sia un problema significativo di autostima: questa relazione di potere la mina ulteriormente, scaricando sul soggetto subordinato la responsabilità di aver tradito la fiducia della grande madre.
Potrei fare vari esempi, ma chiunque lavori in un’industria della riproduzione riflettendo su quello che fa e su dove è collocato, dalla scuola alle cooperative sociali, penso che sappia quello di cui parlo. Due ultime precisazioni, importanti. La prima è che quando si parla di relazione di potere matriarcale non ci si riferisce necessariamente alle donne, può essere agita anche dagli uomini e spesso è così; così come potevano essere le donne ad agire un rapporto patriarcale (si pensi alla Thatcher). E come già dicevo prima, non dobbiamo pensare che il matriarcato abbia sostituito il patriarcato, sarebbe una sciocchezza, soprattutto sui livelli alti del dominio sistemico. Però sui livelli medio-bassi del potere nelle industrie della riproduzione mi pare che questo tipo di relazione stia diventando sempre più egemone. Lì, per parafrasare il titolo di un testo fondamentale del femminismo, è come se si fosse in parte realizzato il potere femminile senza sovversione sociale. La seconda precisazione può forse costituire un’ipotesi da indagare. La relazione di potere maternalistica si esercita soprattutto sulle ragazze, che da quello che vedo nelle scuole sono mediamente le più brave, curiose e autonome. Sono anche le ragazze potenzialmente più coinvolte nella politicizzazione del discorso di genere, è la questione che più riportano nelle discussioni in classe. Tale discorso si muove sull’ambivalenza dell’autovalorizzazione individuale e collettiva, del riconoscimento identitario e del possibile conflitto di parte; può dunque condurre a un ulteriore rafforzamento del potere femminile nei termini sopra descritti, o forse a delle tracce di sovversione sociale. Ho comunque l’impressione che proprio questa loro ricerca di autonomia porterà innanzitutto le giovani ragazze a scontrarsi con la relazione di potere matriarcale.