Gli insegnamenti della crisi

Gli insegnamenti della crisi

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Alcune questioni di metodo prima di iniziare: è banale dire che il virus è un importante punto di caduta di processi aperti già da tempo e che ci sarà un prima e un dopo Covid. Lo è meno saper distinguere, all’interno dell’incedere spasmodico degli eventi, gli elementi congiunturali e quelli strutturali, le continuità e le discontinuità, i problemi che si ripresenteranno e le opportunità che nasceranno. Lasciarsi abbagliare dagli incessanti cambiamenti che avvengono significa rimanere intrappolati nella contingenza, assumere in toto la temporalità del capitale, giocare sul campo imposto dalla ristrutturazione capitalistica, cedere alle retoriche sull’innovazione. Guardare con occhio fine alle crepe aperte dalla Covid nella riproduzione sistemica, alle difficoltà nella generazione di consenso al progetto complessivo, allo scontro tra diversi blocchi di capitale, alle contraddizioni sociali che si aprono è, invece, la postura da tenere per trasformare la possibilità di rovesciamento in attualità.

Il virus ha determinato lo scoppio di una nuova crisi, prodotto dell’intreccio tra problematiche sanitarie e recessione economica. Non una novità per noi, se è vero che la crisi ormai da anni è diventata forma di comando politico basata sull’economia della promessa, sulla violenza del ricatto della precarietà, sulla cristallizzazione di aspettative decrescenti, sulla retorica dell’interesse generale, del «fare sacrifici per uscirne tutti insieme». È un tonfo grosso, uno dei più grandi che gli annuari di statistica hanno mai registrato, ancor di più del great crash del 2007-2008; se gli aspetti quantitativi del fenomeno possono darci la misura della questione, è su quelli qualitativi che conviene concentrarsi. Anzitutto, rimanendo su un piano macro, a differenza di allora, è una crisi davvero mondiale, in cui vengono al pettine una serie di nodi sul tappeto da qualche anno: se allora furono gli investimenti cinesi a sorreggere l’economia mondiale, oggi il Dragone è pienamente all’interno della crisi, sia sanitaria che economica; le politiche monetarie espansive di sostegno ai redditi e alle imprese che, seppur con diversi gradi di potenza ed efficacia da paese in paese, sono riusciti a tamponare momentaneamente le spinte e le esigenze provenienti dal corpo sociale, hanno implicato uno scoppio sensazionale dei debiti mondiali degli Stati, con tutto il portato di discussioni, scontri, rotture tra i vari paesi – pensiamo ad esempio al dibattito su Mes ed Eurobond all’interno dell’Europa – su chi li ripagherà alla fine, scenario funesto che si riproporrà non appena passerà la buriana del virus; inoltre questa crisi determinerà un forte rimodellamento del paesaggio produttivo e riproduttivo, un ampliamento delle contraddizioni sociali già in essere. Fermiamo però i bollori di chi crede che la crisi ci consegnerà spontaneamente un punto di rottura, che il sistema capitalistico cederà sotto il peso delle sue contraddizioni oggettive: determinismo progressista e crollismo catastrofista sono due fattori della dialettica del comando capitalistico, due ordini del discorso usati in funzione anticonflittuale. Il primo è la riproposizione della fine della Storia, di un capitale capace di auto sostenersi ed autoregolarsi e che trova nella sintesi democratica la pace perpetua; il secondo la visione apocalittica come concretizzazione dell’interesse generale, del «siamo tutti sulla stessa barca», dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, padroni e lavoratori.

Inoltre, se è vero che la crisi acuisce le antinomie del comando capitalistico, i processi di accumulazione, valorizzazione, mercificazione, non sono andati in quarantena con il lockdown. Con buona pace delle mistificazioni ideologiche su un ambito riproduttivo o della cura come in sé alternativo al capitale, nella quarantena si è anzi esteso il consumo ed è aumentato il desiderio della merce. Le nostre case sono infatti diventate luoghi di consumo sfrenato, dalla merce-cura alla merce-formazione a distanza, dalla merce-socialità (pensiamo al boom di piattaforme come Zoom) alla merce-sicurezza (dai dispositivi di protezione individuale all’aumento dell’acquisto di farmaci), dalla merce-informazione ai contenuti in rete, dal cibo (cucinato, mangiato o semplicemente fotografato per la sublimazione sui social network) alle serie televisive di ogni tipo, fino alla più speciale delle merci, la soggettività, che in quarantena abbiamo continuato a produrre e riprodurre.

La crisi dunque, lungi dall’essere un preannuncio del crollo o una semplice sciagura, rappresenta un’opportunità per il capitale per rilanciare il processo di accumulazione e valorizzazione, se non trova una forza che si contrappone a esso. Questo processo non è mai scontato o dato, ma è sempre il frutto dello scontro tra classi, dei conflitti infra-classe, della competizione tra pezzi diversi di capitalismo, tra il vecchio che non vuol morire e il nuovo che tenta di nascere, talvolta anche della guerra. Dove esiste l’opportunità di rafforzare il dominio di una classe su un’altra, esiste anche l’opportunità di interrompere questo comando, di ribaltare il rapporto sociale capitalistico. Da un lato l’uso del discorso della catastrofe per sviluppare la crisi come forma di comando politico; dall’altro guardare alla crisi come krisis – ovvero come momento di rischio ma anche di grande opportunità – per la katastrophè, il capovolgimento completo.

Negli Stati Uniti, la crisi ha svelato le contraddizioni al fondo della società americana contribuendo a determinare l’esplosione di una lotta dagli accenni insurrezionali. La rivolta è stata indelebilmente segnata dalla distruzione del commissariato di polizia di Minneapolis e da quelli che sono stati definiti saccheggi, ovvero l’appropriazione diretta dei mezzi di sussistenza. In entrambi i casi si è segnata una rottura con i sistemi di rappresentanza dei Democratici e l’antirazzismo liberale e anti-Trump. Questa rivolta non può essere letta, come fanno i media italiani e statunitensi, esclusivamente nei termini di lotta alle discriminazioni razziali e contro la violenza poliziesca. La polizia nell’America nera è un fattore produttivo, non solo nella sua difesa della proprietà privata ma anche nell’accumulazione legata al complesso industriale carcerario, nonché nel suo ruolo centrale come fonte di reddito per i governi locali, tramite cauzioni e multe che depredano i soggetti razzializzati; pratiche estrattive che la crisi ha intensificato. Se da un lato i soggetti neri proletari hanno mostrato una capacità di rompere con la “loro” classe dirigente nera in seguito a un processo già avviato nel 2014 con la rivolta dei ghetti contro l’America di Obama, la vera novità sono state le fasce giovanili di tutte le razze che gli si sono unite attorno. La crisi del Covid ha accresciuto la disoccupazione e la miseria, aprendo al declassamento e alla crisi politica di quei settori della “middle class” che avevano già mostrato la polarizzazione politica del consenso tra Sanders e Trump. Caduti i principali meccanismi per la formazione di questo ceto medio bianco prettamente americano - in particolare la possibilità di una casa di proprietà e i benefici creditizi - una parte della classe giovanile bianca si rivolge adesso al proletariato nero come punto di riferimento politico. Se i Democratici hanno cercato di capitalizzare le lotte, la soluzione proposta Biden - un investimento di 300 milioni di dollari per i dipartimenti di polizia - va in conflitto diretto con le rivendicazioni di quella larga fascia sociale che guarda all’insurrezione e rivendica l’abolizione della polizia e del sistema di accumulazione di cui fa parte.

Tornando in Italia, è prematuro poter definire con estrema certezza fino a che punto si spingeranno gli sconvolgimenti che abbiamo visto all’opera negli ultimi mesi, quali conseguenze avranno. Allo stesso tempo, se il sapere popolare non ci tradisce, chi ben comincia è già a metà dell’opera: mettere in fila una serie di ragionamenti su quegli elementi che in tendenza potranno ridefinire i contorni dell’organizzazione capitalistica, determinare dei cambiamenti e degli scarti soggettivi e dunque aprire gli spazi per la possibilità del conflitto, serve per non lasciarsi travolgere come nave in tempesta dagli eventi.

Innanzitutto: quella che stiamo vivendo oggi è la cronaca di una pandemia annunciata. Questo non significa che il virus sia un complotto ordito dal capitale per stringere i lacci della libertà né, ancora peggio, che siano vere le retoriche americane sul «virus cinese»; al contrario, vuol dire individuare le responsabilità politiche delle migliaia di morti, del peggioramento delle condizioni di vita, della mancanza di reddito. Il virus è un imprevisto preventivabile e preventivato: diversi istituti di ricerca avevano preconizzato l’arrivo di una nuova pandemia. Ma questo non è bastato a placare la volontà di potenza accumulativa del capitale, la conquista di nuovi terreni da mettere a valore, la rottura di qualsiasi equilibrio con la natura; inoltre negli ultimi decenni la sanità è stata ristrutturata perseguendo logiche aziendali, basate sul criterio neoliberale della performance economica e della riduzione dei costi, che ha implicato un abbattimento dei posti di terapia intensiva, la chiusura di tanti nosocomi di provincia, il blocco delle assunzioni di medici e paramedici, tutti elementi che hanno pesato nell’incedere della pandemia. Badiamo bene: qui non si tratta di versare sinistre lacrime (anche perché è la sinistra in tutte le sue articolazioni e colori ad aver approfondito i tagli strutturali e ad aver perseguito la logica di aziendalizzazione) né di immaginifiche speranze verso un ritorno alla sanità pubblica. Quest’ultima, infatti, sarà uno dei settori centrali nel rilancio capitalistico, una delle industrie maggiormente interessate dagli investimenti. Questi ultimi si riverseranno non tanto sul rafforzamento delle strutture ospedaliere e sull’assunzione di personale medico e paramedico ma sullo sviluppo massiccio di tecnologie digitali, sulle procedure di raccolta di Big Data per la profilazione dei parametri vitali, sull’implementazione di tecnoscienza applicata.

Apriamo una parentesi proprio sul ruolo assunto dalla scienza in questa fase. Abbiamo visto task force affiorare come i funghi (a oggi se ne contano più di cinquanta!), commissari riprodursi con maggiore velocità del virus: esperti sui dispositivi di protezione individuale, sulla ricostruzione economica, équipe di medici, a valenza nazionale, regionale e via dicendo. Tutte scelte per affrontare le problematiche sul piatto con supposti criteri di oggettività, per far fronte alla crisi di comando politico e tentare di depoliticizzare le decisioni in materia sanitaria, economica, politica. Quali i risultati prodotti? Il caos delle mascherine introvabili, documenti contraddittori, incertezze, incomprensioni. La pretesa di oggettività si scioglie come neve al sole, gli scienziati diventano opinionisti, i loro pareri si confondono con le fake news. Già negli scorsi anni la fede nella religione scientifica e la sua pretesa di imporre delle  decisioni è stata messa a critica da tante piccole mobilitazioni spurie, il virus amplia questo sentire sociale, aprendo a potenziali conflitti.

Oltre alla sanità, più in generale, sarà l’intera sfera della riproduzione a essere centrale nei processi di accumulazione e valorizzazione: il virus, in questo senso, va considerato come un grande dispositivo di accelerazione di processi dispiegatisi negli anni precedenti. Questo non vuol dire che bisogna cedere ai facili entusiasmi, né credere che il capitale è prigioniero delle sue contraddizioni ed è dunque costretto a finanziare il comune ma che c’è un tentativo – che prende forma in maniera non cosciente – di ripensare il progetto complessivo, di riformare – tramite l’innovazione risparmiatrice di tempo, di lavoro, di capacità umana – una base dell’accumulazione, quindi nuova fase di espansione materiale basata sull’economia della riproduzione e sul digitale come infrastruttura. Quindi, ad esempio, in questi mesi abbiamo visto una forte spinta sulla digitalizzazione della formazione e del lavoro, con la didattica a distanza e la diffusione dello smart working che, seppur abbiano funzionato più per improvvisazione che per reale organizzazione minuziosa, ha significato un’intensificazione dei ritmi di lavoro per insegnanti e impiegati, un ulteriore passo verso l’implosione della divisione tra tempo di lavoro e tempo di vita, l’aumento della frammentazione sociale e dell’individualizzazione. Ma questo salto di paradigma non avverrà senza lasciare profondi segni, senza aprire potenziali spazi di conflitto: la crisi ha mostrato come l’infrastruttura tecnica disponibile sia molto meno adeguata di quanto si pensasse, lasciando ampi spazi di autonomia agli insegnanti; se è vero che lo smart working implica risparmio e intensificazione dei ritmi di lavoro, è altrettanto palese che le imprese non funzionano senza cooperazione e informalità; nella stessa sanità i processi di industrializzazione del lavoro, ovvero di cattura, scomposizione, modularizzazione e macchinizzazione delle capacità, potranno entrare in contrasto con la tutela dell’autonomia professionale del personale medico, che nei mesi di maggior carico di pazienti hanno sopportato carichi di lavoro impressionanti e non hanno poi ricevuto adeguata ricompensa per gli sforzi compiuti.

La realizzazione di questo progetto passa anche dal ritorno in auge dello Stato – uno di quei soggetti che col marciare trionfante del neoliberismo era stato dato per morto –, in veste di imprenditore, almeno in questa prima fase. Al contrario, durante la crisi esso ha riacquisito una forte centralità sia come «garante» della sicurezza che come sovvenzionatore ai privati e alle imprese. In entrambi i casi sono state le spinte sociali a determinare questa riassunzione delle funzioni statali in carico ai governi: in Cina, ad esempio, sono stati i comportamenti spontanei a costringere lo stato maggiore del Partito a intervenire con decisione con il lockdown; anche in Italia sono stati gli scioperi spontanei operai a determinare la chiusura (ancorché ben lungi dall’essere completa) di marzo. È stata proprio questa capacità di reazione all’incidere della pandemia e agli attacchi provenienti dalla stampa e dai governi occidentali, a permettere alla Cina di emergere con ancora più forza dalla crisi, seppur con forti contraddizioni che rimangono aperte al suo interno – con i nuovi focolai e gli scioperi spontanei che la interessano – e all’esterno, con lo scontro strategico con gli Stati uniti per l’egemonia sull’economia-mondo che si fa sempre più incandescente, fino ad arrivare alla dichiarazione di una nuova guerra fredda. L’Unione europea, invece, più di diventare blocco monolitico nella competizione internazionale, è presa dallo scontro interno tra paesi del Nord, che hanno mantenuto una linea di rigore, e paesi del Sud che richiedono maggiori risorse per far fronte alla crisi. Se è difficile definire ad oggi se si sta dando un nuovo ordine mondiale, è certo invece che i prossimi saranno anni di grande caos, di sconvolgimento delle strutture portanti della globalizzazione per come si è costruita dopo la fine del lungo Sessantotto, quindi di conflitti spuri, di guerre. Se già da qualche anno si parlava di requiem per l’ordine neoliberale, oggi si possono suonare definitivamente le campane a morto.

In questa ridefinizione degli assetti complessivi, delle prospettive di rilancio, l’Italia non ha e non avrà il ruolo del leone ma, anzi, rischia di rimanere stritolata. Il Belpaese non è un centro forte: probabilmente assisteremo a un ulteriore arretramento nello scacchiere internazionale, a una lotta con la Germania e i paesi del Nord Europa per strappare delle briciole, con la spada di Damocle dello scontro sul debito pubblico che pende sulla sua testa. Saranno mesi di scontri politici, di accordi momentanei e divergenze strutturali, in cui la posta in palio sarà la tenuta (o la rottura) dell’Unione europea. Sarà questa una delle possibili faglie su cui possono aprirsi delle mobilitazioni dalla connotazione certamente ambigua e ambivalente, di cui i primi segnali iniziano a intravedersi già da ora. Pensiamo, ad esempio, alle prime forme di insoddisfazione esplicita provenienti dai gestori delle piccole attività, dalle partite Iva, dai lavoratori che aspettano vanamente qualche misura di redistribuzione sociale, ovvero da quel ceto medio in via di declassamento già da prima del Covid e che con la crisi vedrà un’accelerazione dei processi di impoverimento generale. Come farà il governo a tenere le istanze di redistribuzione di questi ceti, che implicano un ulteriore aumento del debito pubblico, con la linea oltranzista della Germania? Chi pagherà i costi della crisi?

Quelle evidenziate finora sono tendenze generali e non processi oggettivi: è possibile deviarli con processi di contro-soggettivazione di massa, cogliendo delle tendenze, collocandoci progettualmente all’interno dei movimenti ambivalenti che nasceranno, rompendo con forza con i loop e le incrostazioni mentali a cui siamo abituati. Pensare a come riformulare l’attacco alla crisi, piuttosto che subirla, formando contro-soggettività piuttosto che preparare la lista della spesa.

Si è discusso molto del binomio sicurezza/libertà, due ambigui sentimenti presenti nel corpo vivo sociale. Questa dicotomia è stata utile per capire le ragioni degli scioperi spontanei operai che hanno interessato diverse fabbriche, per interpretare quegli ambivalenti comportamenti sociali che andavano in direzione della tutela della salute contro gli interessi economici e produttivi, contro la razionalità economica di Confindustria & Co. Oggi probabilmente siamo entrati in una fase differente rispetto a marzo (una dimostrazione proviene dagli affollamenti di piazze, bar, luoghi della socialità): oltre alle questioni relative al contagio, per consistenti fette della composizione sociale tornano a essere centrali le aspettative sul reddito. Superata la distinzione nelle motivazioni della composizione sociale, restano gli oltranzisti dell’#iorestoacasa e dell’apertura. Questo apre a un conflitto latente, implicito, strutturale che si riproporrà nei prossimi mesi tra due blocchi sociali contrapposti la cui suddivisione, a oggi, non è dettata dallo scontro tra classi perché entrambi tengono dentro differenti pezzi di composizione proletaria, di ceto medio ma anche di élite capitalistica.

All’interno di ciascun blocco c’è chi, al momento, determina la politicità esplicita. Prendendo le componenti in «alto», lo scontro è tra i governatori delle regioni del Nord e Confindustria da una parte e Partito del Presidente, banche, comitato tecnico-scientifico dall’altro, ovvero tra la borghesia produttiva che pretende di assorbire tutte le risorse per la ripartenza e il ceto medio-alto che sostiene l’innovazione capitalistica. Ma se non ci limitiamo a un’analisi superficiale, lo scontro assume anche un connotato sociale, diventa conflitto tra due differenti pezzi di composizione sociale: così la spinta sulla riapertura degli industriali è sostenuta da quei segmenti di proletariato operaio e non, soprattutto al Nord, che più di tutti hanno subito la crisi; mentre il capitalismo dei salotti buoni, più cauto sulle riaperture, ha come corrispettivo sociale il ceto medio della conoscenza, anch’esso con molte contraddizioni al suo interno, e pezzi consistenti di proletariato intellettuale. Se è vera questa ipotesi, l’alternativa non è tra libertà e sicurezza, entrambi termini interni alla dialettica dello sviluppo capitalistico. Collocarsi su uno dei due argini significa lasciare che lo scontro resti tra due pezzi di classe dirigente capitalistica, tra due differenti modelli di capitalismo, dove il vertice industriale non è per forza il peggiore: gli investimenti non implicheranno ospedali gratuiti, scuole migliori e via dicendo, come si crede a sinistra, perché essi dipendono sempre al posizionamento dell’Italia nel mercato mondiale, alla questione del debito, della speculazione, dei tagli.

Per contrastare l’utilizzo capitalistico della crisi e trasformarlo in contro-utilizzo, bisogna cogliere tutte le occasioni che la crisi spalanca, mettendo a critica il modello di economia propugnato da Confindustria ma, allo stesso tempo, con la capacità di dialogare coi lavoratori che spingono per la riapertura, dunque smontando i blocchi per come si presentano oggi e ricomponendoli processualmente contro il vertice di entrambi i gruppi. Preparandosi probabilmente a movimenti reali che ben poco avranno a che fare con il ciclo «occupy» e molto con la prefigurazione incarnata dalla caotica ambiguità dei «forconi» in Italia e, in altre forme, dei «gilets gialli» in Francia.

Il virus, imprevisto che travolge l’inevitabile, ci dà una grande lezione: mutare forma ma mantenere inalterata la sostanza, attaccare dove è più facile riprodursi e massificarsi, interrompere gli automatismi della macchina globale.

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