Vent'anni e non sentirli

Vent'anni e non sentirli

doom
Riflessioni di D.M. (classe 1999) su giovani, composizione di classe e militanza

Premessa

«Se i rivoluzionari sono i grandi cornuti della storia, i giovani militanti ne sono gli orfani»

Per meglio spiegarsi. Pizzone.

Molto spesso noi militanti abbiamo una peculiarità inquietante, ricorda un po’ il principio di indeterminazione di Heisenberg: se si prova ad osservare l’elettrone per determinarne la posizione, lo strumento di misura perturba l’ambiente confondendo tutto. Allo stesso modo una volta divenuti militanti vediamo sì il mondo con lenti nuove, ma spesso queste ci confondono, restituendoci immagini sgranate, cancellano la memoria del nostro vissuto pre-militante, astraendoci dal «dove siamo». Paradossalmente nel diventare militanti di professione a volte rischiamo di sbagliare nello studio della composizione di classe a cui noi stessi apparteniamo. Senza strumenti non vedo nulla, con gli strumenti perturbo tutto.

Partendo da questi presupposti ho deciso di descrivere ciò che conosco bene buttando giù il mio identikit, così è più facile farsi un’idea di cosa intenda, da dove parli e a chi mi rivolga.

Sono nato nel 1999 quindi né millennial né generazione Z, i miei genitori sono quelli del ceto medio basic della provincia: lavori in fabbrica, prendi bei soldi, ti fai la casa, ti fai la famiglia, hai la possibilità di mandare un figlio all’università (ma anche due senza troppi sacrifici in fondo), e poi vabbè la pensione. Per intenderci: quella composizione che dopo il 2008 ha preso una mazzata e prima del covid aveva iniziato a risollevarsi un poco, ecco quella roba là.

Insomma, quel ceto medio di provincia, che si era costituito come soggettività politica proprio intorno a quella concezione di medietà, che sembrava assicurargli un sereno e progressivo aumento delle proprie condizioni. Fra quelle prospettive future c’ero pure io, il tenero pargolo che si poteva mandare all’università e che poi avrebbe trovato il lavoro figo e altre magnifiche sorti e progressive. Arriva il 2008 e tutti si rendono conto che i giovani saranno spacciati, quelli che già studiano saranno i primi a finire male, gli altri si vedrà, ma nessuno ha voglia di pensarci perché tanto può solo peggiorare (come l’età a cui si andrà in pensione, del resto).

Appartengo a quella seconda generazione di università (veramente) di massa, quella che ha fatto breccia anche in provincia. Per farvi capire: l’esplosione di universitari dalle mie parti (provincia di Belluno) è avvenuta per coloro che sono nati attorno al 90 o poco prima, tutta gente spacciata, costretti ad essere giovani a vita, in condizioni di perenne dipendenza economica dai loro genitori, la volontà insoddisfatta di andarsene di casa (e dalla provincia) etc. Di base condividiamo lo stesso futuro precario ma, a differenza della generazione dell’Onda, la mia generazione non ha assistito, in età abbastanza matura da rendersene conto, al brusco cambio di prospettiva verso la palude delle aspettative discendenti, ma ha fatto della crisi la sua adolescenza.

Quella generazione che ha interiorizzato (anche nella scelta dell’università), il paradigma delle aspirazioni stanche e che guarda al proprio futuro con un cinismo piatto e neanche più (nel senso stretto della parola) pessimista, piuttosto che con la paura che media, politicanti e gruppi indie di 40enni vorrebbero dipingergli addosso.

Insomma: se il futuro arriva, di positivo non ci si aspetta nulla, di ciò che invece avverrà di negativo difficilmente si resterà sorpresi. La delusione ha lasciato spazio alla disillusione. Il fatto che le cose possano solo peggiorare è assodato e non stupisce più di tanto. Per riprendere il testo di uno striscione appeso al balcone di qualche universitario quarantenato ai tempi del lockdown: andrà tutto a puttane.

Apocalypse Noi

Bene, ora arriviamo al nodo che interessa veramente a noi comunisti: di tutto sto calderone di sentimenti e aspirazioni stanche che ce ne facciamo? Di tutto sto cinismo e disillusione individuali, cosa effettivamente si distilla nella coscienza collettiva, cosa si deposita nella formazione di soggettività.

La domanda non è se, ma come la soggettività giovanile si forma e si è formata ai tempi dell’apocalisse. Tutto questo chiaramente non è un processo omogeneo, ma dipende fortemente da collocazione sociale, geografica, spaziale e generazionale. Porsi una domanda all’altezza dei tempi riguardo la soggettività giovanile vuol dire cercare -se c’è- il filo conduttore fra questi elementi, senza ingarbugliarsi nell’intersezionalità speculativa.

Dunque: facciamo un altro passo indietro per poi balzare avanti.

Il fatto che il futuro ci sarà ostile, l’abbiamo detto, è dato per scontato. Tuttavia, se il fatto di sapere già «come andrà a finire» contribuisce ad esorcizzare la paura di un futuro apocalittico, di certo non rinfranca le coscienze, introducendo infatti un sentimento d’attesa per un futuro incerto ma sicuramente non desiderabile. Non sappiamo quando e come, ma sappiamo che finirà male. È attorno a questo pronostico che si condensa la peculiarità della soggettività giovanile, è se vogliamo nella zona grigia dove finisce la paura e inizia l’angoscia.

Si ha paura di qualcosa che si ha di fronte, che si può toccare, che si può conoscere, che si può evitare, (davanti a cui ci si può organizzare). L’angoscia invece è incerta, indeterminata, globale, inafferrabile, è una sensazione, è il sentimento proprio di chi vive per la morte. Insomma: l’angoscia è il rumore di fondo che accompagna l’esistenza, coloro che sono nati nella crisi o a cavallo del millennio sono pregni di questo sentimento, poiché è l’unico che abbiano mai sperimentato in potenza davvero a livello di coscienza collettiva.

Bon adesso prendiamo nonno Heidegger e sbattiamolo dentro una merdosa cassapanca, con l’attenzione di sederci sopra nel caso il vecchio bastardo provi ad uscirsene. Abbiamo inquadrato la situazione, ora basta. Prenderci male di fronte al nostro nemico non serve a niente, noi semmai vogliamo fargli del male.

Angoscia, soggettività, coscienza collettiva, abbiamo detto, aggiungiamo anche la solitudine al quadro dei frammenti che vogliamo ricomporre.

Essere disillusi verso il proprio futuro non ha come immediata conseguenza la lucidità nell’interpretare il presente, e tanto meno nel determinare la volontà di rivolta o di vendetta verso un avvenire misero. Queste semmai sono le derive ideologiche che piacerebbero a noi militanti, le tendenze tuttavia sono ben diverse e sicuramente, in nostra assenza, seguono la compatibilità con le direzioni del capitale. L’angoscia infatti può più facilmente portare alla rassegnazione, alla ricerca di vie di fuga individuali (dal riflusso all’ entrepreneurship), alla ricerca di identità collettive depoliticizzate (lo stadio, la nike), al cinismo dell’auto distruzione. A questo proposito: è interessante notare come sia stata interiorizzata l’imminenza dell’apocalisse anche nelle ambizioni individuali, attraverso una tendenza nichilista e autodistruttiva, per la quale, venuto meno il futuro, tutto ciò che resta è il presente e l’impellenza di divorarlo. Non vi è molta differenza fra The Wolf of Wall Street e Ketama 126, a parte -chiaramente- la qualità della coca a disposizione. Entrambi condividono lo stesso vuoto, ad entrambi non gliene frega un cazzo di guardare in prospettiva, ciò che per loro conta è prendere tutto e subito, non importa andare incontro all’autodistruzione. A volte non importa nemmeno dare l’idea che il proprio modo di vivere sia desiderabile. Dall’uomo economico all’uomo finanziarizzato, dal consumare al consumarsi. Sono entrambi portabandiera ed ambasciatori del medesimo partito.

«potevo essere un tossico morto e invece sono un tossico ricco»

Love Bandana, Ketama 126 ft. Tedua

Insomma, abbandonata a sé stessa l’angoscia agisce da blocco per qualsiasi prospettiva rivoluzionaria, proprio perché il suo stesso senso d’essere si basa sull’annullamento di qualsiasi prospettiva.

Del resto, cosa ci aspettavamo compagni e compagne? Se il capitale può permettersi di mostrare il suo sorriso più marcio e decadente è solo perché nel farlo esso riconferma continuamente sé stesso. (E perché noi non riusciamo a rovesciarne la narrazione). Evitando di scadere nella speculazione intellettuale e masturbatoria sui film di zombie come metafora dell’apocalisse. Prendiamo, invece, i film d’azione o di spionaggio -vanno bene anche quelli di Steven Seagal- è impossibile non notare come in molte opere ci venga sparato in faccia come le multinazionali siano delle superpotenze infami, i governi corrotti e corruttori, i ricchi infimi, la polizia assassina. Di fatto è difficile trovare un film dove il sistema capitalista ne esca bene, il problema semmai è che all’interno delle pellicole il capitale pone come risoluzione alla propria malattia sé stesso. Lo sbirro eroe, il politico giusto, il miliardario benefattore. Denunciandosi continuamente, il capitale non si denuncia mai, anzi, si autolegittima. Annunciare la propria morte diviene un modo per scongiurarla, esorcizzarla, depotenziare il discorso rivoluzionario. Come distruggere qualcosa che è già morto e che non ha un volto? Così è l’apocalisse, non arriva mai poiché è continuamente annunciata, sottraendoci qualsiasi prospettiva ci toglie la terra da sotto i piedi, non si presenta mai poiché è già qui fra noi.

Poi arrivano film come Joker o Parasite e la storia cambia, nessun buono o cattivo identificabili, nessuna passione nobile, ma soprattutto, fra i pochi film a ben trasmettere l’impressione della fine di una civiltà, proprio perché privi di una morale salvifica o di qualsiasi annuncio di morte del sistema vigente. Gli unici a ben trasmettere la miseria di mondo in cui viviamo e continueremo a vivere, usciti dalla sala sicuramente non percepiamo la fine del capitale, ma semmai la nostra. Non sono necessari i compagni per arrivare alla concezione che il mondo che viviamo è una merda.

Disillusione e forza

«Da qualunque parte lo si guardi, il presente è senza uscita»

Comitato invisibile, L’insurrezione che viene.

Più che sui contenuti e sull’analisi politica, sarebbe il caso di interrogarsi soprattutto su chi oggi legge i libri del comitato invisibile. Da brave cariatidi leniniste non capiamo un cazzo se non parliamo di classe ogni 2 per 3, tuttavia c’è da dire che un incipit come il soprastante, muove corde talmente profonde da non poter essere trascurate con leggerezza nell’analisi della soggettività giovanile.

Bene, torniamo a noi. La domanda è quindi: il sedimentarsi di tutte queste percezioni individuali, arriva mai ad emergere dal pelo dell’acqua per divenire forza collettiva? Per dirla meglio: come può l’angoscia diventare rabbia e la disillusione inserirsi ed amplificare i processi di soggettivazione?

Per tagliarla con l’accetta: se da un lato la percezione che le cose andranno male è sentimento comune, dall’altra l’impressione è che sia destinato ad essere «così e basta», e inoltre, che non vi sia un colpevole individuabile per il fatto che -per citare Youtube- «ogni giorno migliaia di bambini stanno morendo». La dinamite sta tutta qui: nel trasformare il sentimento comune in coscienza di classe, nella materializzazione di un nemico. Nel riportare sulla terra la chimera dell’angoscia, qui dove possiamo toccarla, colpirla, annientarla. In quel momento «la vita di merda che viviamo» diventa «la vita di merda che ci fate vivere».

Volendo (pericolosamente) semplificare: la mia generazione, come quella dei millennials, è probabilmente meno informata, ma sicuramente più consapevole del mondo che la circonda e del destino che la attende rispetto alle generazioni nate negli anni 70 e 80, proprio perché è angosciata e disillusa. La concezione che non vi siano prospettive di lotta e che le giovani generazioni siano meno combattive appartiene per lo più ai compagni disattenti e ai boomers. Non confondiamo il cinismo con una visione reazionaria. È vero: rispetto agli anni passati è più difficile lottare, ma la consapevolezza che «ribellarsi fa bene» non è certo minore. E qui inizia a prefigurarsi un primo sdoppiamento nell’emersione delle tendenze. Questa consapevolezza può oggettivarsi in una miriade di comportamenti, determinati (questi sì) da spinte intersezionali. Per dirla schietta: i giovani che sono scesi in piazza col FFF e col BLM pochi mesi fa, non hanno rotto la vetrina della Gucci l’altra sera a Torino. L’hanno fatto i loro coetanei, che probabilmente pochi mesi prima se ne sono sbattuti di andare alla piazza coloratissima dei giovani liceali.

Rileggere i movimenti giovanili degli ultimi anni attraverso le lenti dell’angoscia può darci nuove chiavi di lettura e nuovi strumenti per cercare di indirizzare la soggettività che in questi movimenti si forma continuamente.

Con tutte le sue contraddizioni: prendiamo ad esempio il Fridays For Future (e tutta la rosa di movimenti giovanili che sono nati negli ultimi tre anni attorno ai temi dell’ecologia). Non è importante polemizzare (non qui, non in questo articolo) sulle derive istituzionali/eco-chic che alcuni settori del movimento hanno preso (è ovvio che il capitale cerca di inglobare e rendere compatibile con sé stesso ciò che ne esalta la propria crisi), quanto piuttosto sul substrato su cui FFF&Co si sono innestati. Tutti sapevano che gli orsi polari stavano messi peggio de Briatore dopo un soggiorno allo Spallanzani, ciò che mancava era il collettore che incanalasse l’angoscia collettiva derivante dal fatto di essere condannati ad un futuro misero. Poi è arrivata sta ragazzina con un impermeabile giallo e sappiamo com’è andata: istituzionalizzazione, greenwashing, appiattimento del conflitto etc. Ma a noi di come sia finita non deve interessare, bensì di come sia stato possibile un processo di soggettivazione così ampio e su che terreno questo si sia dato.

Altre due riflessioni flash:

  1. Non importa il fatto che il FFF sia finito nel dimenticatoio, ciò che importa è la soggettività giovanile che è stata formata al suo interno, quella va studiata assolutamente, pena la nostra futura incomprensione dei movimenti giovanili dei prossimi anni. Per dirla grezza: «i FFF avranno tutte le contraddizioni di sto mondo, ma voi cazzo facevate a 14 anni?». Qualcosa si è depositato, bisogna capire come e dove. A volte ritornano.
  2. Con tutti i loro difetti, ai centri sociali va il merito di aver radicalizzato -almeno in parte- il pensiero ecologista del fff, detto questo può darsi che ne abbiano anche smorzato l’interperanza e la possibilità di costruzione di una radicalità autonoma. Ma questo non lo sapremo mai.
  3. Più che interrogarsi sugli studentelli che, dopo averci conosciuto nel fff, hanno continuato a frequentare le nostre aule studio autogestite, sarebbe più utile studiare chi se n’è andato e i cani sciolti. Non i cazzoni coi rasta e non i piddini, gli altri. Questo per evitare di costruire modelli generali su noi stessi. L’emblematica figura -per noi- del potenziale compagno che per qualche motivo sceglie di ricercare la forza, che gli serve per bucare sto mondo di merda, da qualche altra parte. Ecco chi vogliamo. Non biasimiamo chi si allontana dalle nostre aulette per scoppiati e perdigiorno, dove più che alla costruzione di forza comune si preferisce collettivizzare la sfiga.
  4. Smettere di inchiestare solo negli ambienti liceali e universitari, privilegiare gli istituti tecnici e coloro che dopo la scuola superiore non continuano gli studi. Il vostro compagno delle elementari che rivedete al bancone del bar dopo 7 anni. Tanto per toccare con mano quella materialità dell’angoscia no future che piace tanto a noi comunisti. La differenza fra l’angoscia per un futuro precario e un presente fatto di precarietà è notevole. Pochi possono permettersi di preoccuparsi degli orsi polari.
  5. Altra questione centrale (da prendere con le pinze) è quella della solitudine: se il capitale usa la remunerazione psicologica come nuova moneta è importante tornare a riflettere su come non sia più data una netta precedenza fra bisogni materiali e immateriali nell’analisi delle rivendicazioni. Il capitale è una macchina che produce continuamente appagamento e insoddisfazione, comunità digitali e solitudine. Un’analisi completa della tendenza non può astenersi dal prendere ad esame questi fattori. (concetti piccolo-borghesi? Può darsi.)
     

Ancora una volta per non lasciare spazio a fraintendimenti: non bisogna prendere i FFF come rappresentativi per i processi di soggettivazione di un’intera generazione; del resto, lo sappiamo, la composizione giovanile non è per nulla omogenea, dipende da molteplici fattori: collocazione sociale, geografica, spaziale. Scannarsi su chi è più rivoluzionario fra i baby trappers della periferia e i ragazzi di greta significa non aver compreso la domanda. Vogliamo invece sapere come sia stato possibile un processo di soggettivazione e ricomposizione così ampio in un mondo dove tutto sembra frammentarsi sempre di più, grazie e nonostante l’angoscia. Vogliamo sapere se questo processo, che è stato possibile per i figli del ceto medio altamente scolarizzati, si possa presentare in altre forme per coloro che non hanno il reddito dei propri genitori come garanzia del presente. Questo è il taglio che bisogna dare alle nostre inchieste, l’analisi sulla potenzialità rivoluzionaria si dà come conseguenza non come presupposto.

Altro nodo fondamentale, da rimandare alla riflessione collettiva, è inoltre lo sviluppo di un pensiero che vada oltre questa cazzo di apocalisse. Prima di tutto perché l’apocalisse -come l’angoscia- lega braccia e gambe. Secondo perché l’apocalisse introduce un pensiero fatalista, che rimanda alla caduta del sistema vigente per via delle evidenti contraddizioni del capitalismo, che è fuorviante. Terzo, perché fra trent’anni siamo ancora vivi e vegeti, i tifosi dell’estinzione possono anche impiccarsi adesso se non ci credono e alleggerirci dalla loro presa male.

Non mischiare la merda con la cioccolata. (cari compagni e compagne)

Quindi i giovani non provano alcuna passione verso il loro futuro? Sono già rassegnati al mondo di merda che gli si prefigura? Assolutamente no. La rassegnazione prevede che ci sia appartenuta una potenza poi fallita. Non è stato così per la mia generazione. Siamo arrivati dopo l’Onda e prima dei Fridays for Future, i racconti degli anni 70 ci sono arrivati per lo più di seconda mano (al bar) o attraverso qualche libro. Gli anni 90 solo confusione e cyberpunk.

Lapalissiano: non sono gli anni 70 o 90. Rispetto a quegli anni è più difficile lottare, quello sì, ma più che per la repressione ci si scoraggia per l’assenza di un progetto da costruire, di una direzione di forza, di un’alternativa credibile e di un modo (altro) di vivere desiderabile a cui aderire nella conflittualità (a cui dovremmo pensarci noi, compagni e compagne). Manca quella forma di vita (di lotta) che combini la volontà di rivolta per le proprie condizioni di vita (materiali o esistenziali) con l’annientamento della solitudine derivante dal riscoprirsi forza comune. Piccolo suggerimento: tutte queste cose appena elencate non sono riassumibili nella pacificata squadretta di calcio antirazzista di quartiere, la quale è sicuramente una bella esperienza, ma per metterla in piedi basta iscriversi all’ARCI e soprattutto non è l’esercizio di rottura collettiva di cui stiamo parlando. Chi afferma il contrario mente o è un cretino.

Un impiego a consumarci la vita ce l’abbiamo già tutti, che sia la scuola, l’università o il lavoro salariato, la militanza non può diventare essa stessa una forma di martirio. In una vita messa a lavoro, la lavorizzazione a gratis del militante è uno scempio che andrebbe come minimo perseguito con la violenza fisica.

Quando mio padre mi chiede «ma perché non fate qualcosa di costruttivo col collettivo?» oltre a mandarlo a cagare, me lo chiedo anch’io. Andare a rubare in massa prodotti biologici al supermercato di certo non basta, ma almeno è molto più divertente ed aggregativo di venti squadrette del «menga», oltre che più - intrinsecamente - politicizzato.

Insomma, senza considerare i pochi (sfortunati) frequentatori di qualche centro sociale o area scricchiolante, della mia generazione l’appartenenza «al movimento» non la sente quasi nessuno. Semmai ciò che è presente è il senso di appartenenza, che, più dello (ri)scoprirsi frammento di una coscienza collettiva, assomiglia alla ricerca di un’identità da stadio. Il resto son solo magliette con grafiche brutte e auto-rappresentazione masturbatoria oltre che folkloristica. A testimonianza di ciò non ci chiamano nemmeno più comunisti o sinistra extraparlamentare o i ragazzi dei centri sociali, ma «gli antifa».

Insomma, regà, per noi il movimento non è mai morto poiché semplicemente non è mai esistito. Il che, parliamoci chiaro, per quello che è oggi «il movimento» non è una tragedia.

Da qui dobbiamo ripartire, smettiamola di chiederci perché i nostri coetanei «non fanno politica» e poniamo - per una buona volta - la domanda a noi stessi. Perché ogni tanto per affinare la vista bisogna anche guardarsi allo specchio al fine di ritarare le lenti, smetterla per un attimo di guardare il mondo da militanti per iniziare a vederlo come giovani. Se ci pensiamo è paradossale a volte non riuscire a riconoscersi all’interno della propria stessa generazione. Come Heisenberg: senza strumenti non vedo nulla, con gli strumenti perturbo tutto. E allora ribaltiamo il tavolo e spacchiamo gli strumenti, assembliamone di nuovi, l’esperienza della militanza, per essere tale, deve affinare la nostra vista senza confonderci, guardare le formiche con il cannocchiale è utile solo al mal di testa. Perché in fondo di questo si parla, essere flessibili, aperti a qualsiasi deviazione, facciamola finita coi militanti massa.

«Il sociologo ha la procedura, il militante ha l’attitudine». Togliersi i paraocchi ideologici per mantenere l’attitudine all’inchiesta. E - per favore - senza scadere nell’autocoscienza speculativa e masturbatoria.

Ora più che mai è importante avviare un processo di inchiesta sulle soggettività giovanili, questo testo vorrebbe essere l’inizio di una riflessione collettiva intorno alla questione. Anche perché, con buona pace per i depressi, fra 30 anni siamo ancora qua, più poveri e con qualche orso polare in meno, ma siamo ancora qua (eh già).

P.S. Grazie mille ai più svariati amici, amiche, compagni e compagne, con cui ho avuto modo di chiacchIerare e condividere questi ragionamenti, senza di loro questo testo non ci sarebbe stato :)

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