I giovani non sono nichilisti

Il discorso pubblico che nella pandemia ha contribuito a produrre un’immagine della composizione giovanile associa generalmente i giovani a forme di malessere psicologico ed esistenziale. Senza negare l’impatto psicopatologico che il virus e la sua gestione hanno avuto su di loro, se vogliamo attribuire un valore politico alla questione generazionale non possiamo accontentarci di questa “banale” considerazione sociologica. Dobbiamo invece iniziare a tratteggiare i profili, al plurale perché quella dei giovani è una composizione fortemente stratificata, della soggettività giovanile per individuare le potenziali linee di conflitto. Tuttavia nei confronti dei giovani scontiamo una lacuna analitica che è anche e soprattutto il riflesso di una lacuna organizzativa e viceversa. Lo scopo di questa intervista a Marco Rizzo, militante e insegnante nelle scuole di secondo grado, è quindi quello di inaugurare uno spazio di riflessione sulla composizione giovanile capace di spezzare questo circolo vizioso tra mancanza di analisi e assenza di intervento. A questa intervista seguiranno altri materiali prodotti per lo più da “osservatori privilegiati” capaci di ragionare, come fa bene qui Marco Rizzo, sulle forme di politicità implicita dei giovani, sulle ambivalenze dei loro comportamenti e quindi di tratteggiare delle ipotesi di lavoro politico. L’assenza di una presa di parola soggettiva da parte dei giovani potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Tuttavia, sebbene sia sempre importante dare spazio alla voce dei soggetti, in fase di elaborazione delle ipotesi di lavoro è altrettanto rilevante lasciare spazio a chi riesce a produrre forme di astrazione a partire da una diretta osservazione.
Per iniziare ti chiedo di presentarti, anche per contestualizzare le tue risposte. Dove lavori?
Da circa un anno e mezzo insegno materie umanistiche nelle scuole superiori della provincia di Lucca. Lo strato giovanile con cui ho avuto modo di interagire in questa esperienza è stato quasi esclusivamente liceale (con una significativa eccezione, una classe di un istituto professionale), nella fascia d’età 14-16 anni.
Sulla base della tua esperienza e delle tue osservazioni che tipo di rapporto hanno i giovani con la scuola e con l’investimento educativo? Questo rapporto si è modificato con la pandemia?
Essendo l’arco di tempo del mio insegnamento assai breve, per due terzi coincidente con la fase pandemica e con il passaggio alla Dad (prima totale, poi alternata alla presenza, poi di nuovo totale, adesso di nuovo alternata), non ho molti elementi di giudizio, ricavabili per via diretta, per definire con precisione e ampiezza di sguardo dei cambiamenti di lungo corso. Come traccia puramente indicativa, mi viene da dire che la Dad non ha prodotto sconvolgimenti veri e propri; ha invece accentuato il rapporto preesistente dei giovani con l’istituzione scolastica, che proverei a classificare in tre gruppi fondamentali.
Gli studenti e le studentesse che erano abituati a vivere la scuola come un terreno di affermazione individuale e competitiva (o anche, a voler cogliere l’altra sfumatura del fenomeno, l’ambito principale in cui dimostrare di “non essere inadeguati” e di saper ripagare le aspettative di genitori e insegnanti) hanno mantenuto quella che potremmo definire una “buona condotta performativa”:compiti consegnati nei tempi e nelle modalità indicate, connessioni puntuali, preparazione metodica per le interrogazioni, come prima – o meglio, quasi come prima: stress, ansia, stanchezza sono aumentati e hanno comportato un costo psichico non indifferente anche per questa fetta di mondo giovanile.
Ci sono poi gli studenti e le studentesse che vedevano nella scuola, al di là della dinamica valutativa e nonostante essa, un luogo di socializzazione con i coetanei e, con singoli docenti, anche di confronto con figure adulte esterne al nucleo familiare. Venute meno, e di colpo, le altre possibilità di svago, divertimento e socialità durante il lockdown della primavera 2020 e in larga misura anche negli ultimi mesi dello scorso anno, questa fascia giovanile ha vissuto (così almeno pare a me) la pur impoverente esperienza della Dad come un’ancora di salvezza: sia pure su Meet, la dimensione del gruppo-classe non viene del tutto meno, e qualche brandello di socialità e di scherzo si riesce comunque a mantenere vivo negli interstizi, tra un problema di connessione e un ritardo dell’insegnante nel trasferirsi da un’aula (o da una stanza virtuale) all’altra. Tra queste due categorie si divide sostanzialmente la realtà degli studenti dei licei.
Vi è poi l’ultimo gruppo, quello che chiamerei degli “studenti parcheggiati”. Si tratta di giovani, perlopiù dei professionali (e forse in parte anche degli istituti tecnici), che già prima del Covid sostanzialmente si trovavano a scuola senza sapere perché, senza trarne alcun arricchimento immediato né la fiducia che questo tipo di formazione potesse garantire loro una qualche prospettiva lavorativa “sicura”. Si va a scuola quindi perché fino a 16 anni si è obbligati per legge, perché lo vogliono i genitori e perché non ci sono altre possibilità (legali) di fare soldi lavorando. Noia, disinteresse, desiderio di sottrarsi all’istituzione erano evidenti e tangibili già prima del Covid, in questa componente. Con la pandemia e la Dad il tappo è saltato. Diversi di loro, durante il lockdown di primavera, sono spariti (letteralmente) dagli schermi per settimane e mesi, godendosi la fortunosa e inaspettata latitanza, contando sulla promessa della promozione assicurata per tutti.
Abbiamo riscontrato una reazione dei giovani alla Dad apparentemente contraddittoria. Da un lato ci sono state delle mobilitazioni contro la didattica a distanza, dall’altro contro il ritorno a scuola o quantomeno nella scuola così come è ora, cioè senza un’adeguata messa in sicurezza. Cosa hai visto dal tuo osservatorio? Come vivono il senso di responsabilità imposto dall’emergenza sanitaria ?
La sensazione che ho ricavato dalla mia esperienza, è che questo dibattito non risulta particolarmente coinvolgente per il grosso della popolazione studentesca (mi riferisco in questo caso unicamente a quella dei licei), fondamentalmente per due motivi: la difficoltà a valutare e a giudicare appieno l’insieme delle variabili e dei fattori che orientano le restrizioni, con conseguente delega agli “esperti”; il conflitto tra il desiderio, innegabile nei più, di tornare alla scuola in presenza per vivere un’esperienza formativa e relazionale migliore, e la paura di essere vettori di contagio per i propri famigliari, dall’altro.
Da questo punto di vista, e sempre riferendomi alla realtà liceale, direi che il senso di responsabilità è assai più interiorizzato di quanto sia imposto. Quasi inesistente è la necessità di richiamare qualcuno di loro perché non tiene o tiene male la mascherina, a voler fare l’esempio più banale. Né si sono manifestate da parte loro rivendicazioni collettive per accelerare il ritorno alla didattica in presenza, e neppure c’è stata una qualche partecipazione ai presìdi organizzati dal movimento Priorità alla Scuola. Può pesare in questo senso la mancanza, da qualche anno ormai, di collettivi studenteschi attivi nelle scuole sul territorio, ma questa mancanza risulta tanto più rivelatoria, in questa fase, dell’assenza di pratiche spontanee degne di nota.
In che modo stanno usando la Dad?
L’uso (inteso qui come utilizzo consapevole e orientato a un fine) della Dad da parte di alcuni studenti è perlopiù strumentale e opportunistico, e finalizzato ad avere più margini di manovra per sottrarsi alla valutazione o per alterarne l’esito a proprio favore. Non serve molta immaginazione al riguardo. Ciò sia nel caso di una singola prova che dell’andamento complessivo in una o più materie nei periodi in cui prevale o è totale il ricorso alla didattica online. Se i risultati valutativi non sono soddisfacenti, si può sempre dire che “è colpa della Dad”. Viene qui agita, direttamente o tramite i genitori, una condizione di “vittimità formativa”. Non mancano gli insegnanti e le insegnanti disposti ad eccessi di comprensione “materni” in tal senso.
A parte questo specifico utilizzo, la Dad è accettata ma comunque subita. Al di là della qualità (e della quantità, viste la riduzione oraria delle lezioni online) dell’apprendimento che risulta peggiore, il ritorno alla scuola in presenza (dove si è verificato) è di gran lunga preferito per il corredo di socialità che sta attorno alle ore di lezioni, e anche per la difficoltà a concentrarsi e la maggiore stanchezza visiva che richiede invece il continuo confronto con lo schermo a casa.
Che tipo di aspettative hanno rispetto al proprio futuro? Sono cambiate con la pandemia?
Non ho elementi sufficienti per dare una risposta sicura, provo quindi a fare ipotesi. Per quanto riguarda i liceali, l’ingresso vero e proprio nel mondo del lavoro rappresenta una realtà temporalmente lontana, e ciò costituisce per loro un elemento di relativa tranquillità: non è questo il momento per pensarci, il percorso formativo (dato dalla scuola e poi dall’università vista come un passaggio necessario e importante) da percorrere è ancora lungo.
Ben diversa credo sia invece la realtà dei giovani dei professionali. Qui il senso di vuoto, la sensazione di vedersi un già magro futuro completamente bruciato almeno nel breve-medio termine, deve essere terribile. Pensiamo solo a quanto la pandemia ha falcidiato il settore del turismo e della ristorazione, all’ondata di nuovi disoccupati che si riverserà nei prossimi anni alla ricerca di un impiego e che aumenterà la concorrenza per l’accesso ai lavori più dequalificati e ulteriormente deprivati sul fronte del salario e dei diritti contrattuali (se e dove esistenti). E non c’è nemmeno per loro, a differenza dei liceali, la scuola come realtà presente minimamente formativa e arricchente. La “rivolta senza parole” che ha visto coinvolta una inedita composizione giovanile nelle piazze antilockdown di fine ottobre, matura a mio avviso in un vuoto di questo tipo.
Come descriveresti il pezzo di composizione giovanile con cui hai un rapporto? Per quello che puoi osservare quali sono le istanze, sebbene non esplicitate su un livello politico, che muovono i giovani?
Al riguardo, più che un bisogno specifico vero e proprio, e a dispetto di una certa immagine di semplice passività che se ne potrebbe ricavare da fuori, direi che sta covando, proprio nella fascia d’età che va dai 14 ai 16 anni, un bisogno di contare, di essere ascoltati. Non riesco ad ora a definire i contorni esatti di questa esigenza di presa di parola generazionale, quale forma può assumere e che tipo di direzione può prendere. Credo però che, a differenza di altri segmenti del mondo giovanile anagraficamente più grandi, entrati nel periodo dell’adolescenza in una sorta di “presente senza storia”, questa fascia è stata segnata più fortemente sia dallo choc pandemico, sia dal ritorno sulla scena degli ultimi movimenti globali ambientalisti, femministi e antirazzisti. C’è insomma una rinnovata voglia di discutere, confrontarsi e conoscere che emerge in maniera tangibile ogni volta che il canovaccio preimpostato delle lezione frontale subisce qualche deviazione o inciampo sui fatti e le contraddizioni del presente. Direi insomma che c’è in loro una “domanda di idealità” che, non trovando davanti (nella maggior parte dei casi, almeno) le tradizionali forme organizzate, o ideologie solide immediatamente afferrabili a cui aderire, può assumere momentaneamente forme identitarie individuali (e virtuali). Ancora è da vedere se e come si svilupperà tale esigenza in questa generazione, se assumerà forme compatibiliste e democraticiste o invece traiettorie più conflittuali; ma il nichilismo rinunciatario e il cinismo rassegnato non mi paiono più i sentimenti prevalenti. Direi che non è poco.