Perché un salto di progetto?

Perché un salto di progetto?
«Commonware si colloca perciò sul medio raggio, dove la teoria diventa azione e la pratica crea discorso». Così, nel 2013, scrivevamo nella presentazione del nostro progetto politico-editoriale. Oggi, a sette anni di distanza, pensiamo che questa indicazione di metodo sia ancora valida e necessaria. È in questa posizione intermedia che deve collocarsi la militanza. Senza pratica infatti la teoria diventa autoreferenziale, si fa mera speculazione intellettuale, senza teoria la pratica gira a vuoto su se stessa, non riesce a farsi progetto. Compito di un luogo di elaborazione militante è quindi quello di mettere in relazione circolare l’«alto» della teoria con il «basso» della prassi. Di verificare la correttezza delle indicazioni teoriche sul piano della pratica e viceversa di produrre teoria a partire dalle sperimentazioni della pratica.
In questi anni abbiamo tentato di dare consistenza a questo stile della militanza – tema, questo della militanza, che venne affrontato in un seminario formativo propedeutico all’avvio del nostro progetto – smarcandoci da un atteggiamento che con buona approssimazione possiamo definire idealista e che abbiamo sempre ritenuto dannoso per l’organizzazione della lotta di classe. Un idealismo che nella lunga crisi globale ha viziato la produzione teorica e la pratica politica di gran parte degli ambienti antagonisti. Già Marx ammoniva che non è compito dei rivoluzionari e delle rivoluzionarie scrivere «ricette per l’osteria dell’avvenire», eppure nel corso di questo lungo decennio abbiamo visto fiorire innumerevoli formule ritenute risolutive per le sorti della nostra parte. Ognuna delle quali sostenuta da raffinatissimi apparati teorici sovente in polemica tra di loro. Dal reddito al mutualismo, dai beni comuni al comune, dal salario minimo all’automazione e via di questo passo. La lista potrebbe allungarsi ancora molto e per ogni stagione più o meno breve sarebbe possibile individuare una specifica ricetta alla moda, come il terribile cocktail di gamberi nei ristoranti per turisti degli anni Ottanta. In questa gara a chi vende la ricetta migliore non si capisce però perché il comunismo e la rivoluzione siano spariti dal menù.
Evidentemente il punto non è tanto individuare quale tra queste ricette sia la più corretta o la più radicale, né si tratta di tifare per l’una o per l’altra. Il compito della teoria non è quello di prefigurare un mondo migliore, di conseguenza il compito della prassi non è quello idealistico di disvelare alle coscienze degli sfruttati e delle sfruttate presunte verità emancipative. Non stiamo sostenendo che le ricette, formulate nella migliore delle ipotesi da cicli di lotte, non possano essere strumenti di battaglia politica o che non abbiano una qualche validità: tutti desideriamo un mondo migliore! Vogliamo semplicemente affermare che occorre cambiare il metodo: dobbiamo sbarazzarci delle rivendicazioni disincarnate e pensare prima all’organizzazione di una forza soggettiva, a partire dalle profonde contraddizioni e ambiguità, spesso terribili, che innervano la realtà della composizione sociale. In genere senza una forza organizzata nessuna istanza ha le gambe per camminare e tutte si trasformano in inutile feticcio: in merce-propaganda o in merce-identità, buone per il mercato alternativo dell’attivismo. Inoltre in alcuni casi l’uso di una rivendicazione, ancorché corretta sul piano astratto, può persino essere dannosa per il processo organizzativo. D’altronde la storia ci insegna che spesso i motivi che innescano i movimenti sono sorprendentemente banali e distanti dalle parole d’ordine teorizzate nell’accademia. La progettualità, cosa ben diversa dalle semplici rivendicazioni, va costruita dentro il processo organizzativo, si nutre dei salti di contro-soggettivazione, è alimentata dalla relazione circolare tra spontaneità e organizzazione. Sono queste le ragioni materiali e le necessità di metodo per cui su Commonware non troverete contenuti di propaganda in senso lato.
Cosa significa allora organizzare una forza soggettiva? Per i materialisti e quindi anche per noi, significa organizzare le forme di rifiuto che attraversano la composizione di classe. Qual è dunque, a questo punto del ragionamento, il compito della teoria, della prassi e quindi di una rivista militante? In questi sette anni di attività editoriale e politica abbiamo cercato di rispondere a questa fondamentale domanda, senza farci travolgere dall’entusiasmo per l’insorgenza di lotte per lo più distanti da noi, né dalla depressione per la «fase di bassa», evitando di inseguire le teorie alla moda nel mercato editoriale alternativo. Abbiamo cercato cioè, con lo sguardo rivolto costantemente alle trasformazioni della composizione di classe, di anticipare delle tendenze e di prefigurare la forma dei movimenti a venire per fornire alla nostra pratica politica la giusta collocazione; di individuare e interpretare, senza ideologia ma con la rigidità del punto di vista, delle specifiche ambivalenze che potessero essere piegate a nostro vantaggio; di formulare per noi e di condividere con i compagni e le compagne che ci leggono, facendo funzionare le macchine teoriche che le lotte ci hanno consegnato, delle ipotesi di intervento politico da verificare sul campo, eventualmente da criticare o anche da gettare via qualora risultassero infruttuose. Abbiamo cercato di interpretare i processi di ristrutturazione capitalistica senza cedere alle illusioni progressiste che confondono lo sviluppo del capitale e le sue innovazioni sui livelli bassi di realtà con il dispiegamento già compiuto dell’autonomia del lavoro vivo. Insieme alle forme nuove dello sfruttamento abbiamo sempre cercato di individuare le potenziali linee del conflitto. In questi anni, da un lato osservando gli sviluppi delle lotte di classe su scala internazionale, dall’altro sperimentando direttamente alcune forme di organizzazione, abbiamo formulato l’ipotesi che le lotte nella crisi – quanto meno alle nostre latitudini – sono e continueranno a essere spurie, ovvero connotate da tratti politicamente ambigui e problematici e soprattutto estranee al lessico della sinistra. Questa è probabilmente la più importante acquisizione politica di questi anni di prassi politica, maturata a partire dal movimento studentesco dell’onda con il suo forte tratto meritocratico, passando per le espressioni elettorali cosiddette «populiste» e poi ancora per il movimento dei forconi e quello dei no salvabanche, per quello dei gilets jaunes fino alle più recenti lotte indipendentiste. Tale estraneità alla sinistra è visibile anche nelle recenti rivolte degli afroamericani. Nelle strade statunitensi brucia, insieme ai commissariati di polizia, l’antirazzismo bianco, umanitario, vittimizzante e compassionevole.
Tuttavia, nonostante la realtà continui a confermare la validità di questa ipotesi che – crediamo – sarà ancora più solida in seguito alla crisi epidemica, le organizzazioni e i gruppi militanti non hanno cessato di manifestare un certo snobismo se non una vera e propria ostilità per le ambiguità della composizione di classe, etichettate frettolosamente e senza mezzi termini come fasciste. Abbiamo spesso duramente criticato questo atteggiamento disprezzante perché da un lato ci sembra l’espressione di una cieca presunzione, quella di voler ricondurre forzatamente la realtà alle proprie categorie anche quando queste ultime sono improduttive. Dall’altro ci appare un pericoloso difetto di materialismo. E senza materialismo non ci sono né pensiero né pratica rivoluzionaria. Questo atteggiamento ha provocato fortissimi arretramenti teorici e politici: la marginalizzazione e lo scollamento dalla composizione di classe delle compagini militanti fino alla loro chiusura identitaria; l’assunzione di posture idealistiche del tutto paragonabili a quelle che già Marx attribuiva alla «critica critica»; lo schiacciamento strategico sul frontismo democratico e quindi la difesa de facto di una specifica normalità capitalistica; la produzione di un antirazzismo compassionevole e liberale fondato su una concezione vittimizzante dei soggetti razzializzati; l’inferiorizzazione del povero e dello sfruttato che legittima un ritorno della rappresentanza; un europeismo a prescindere speculare al sovranismo. In poche parole, l’incapacità di vedere le ambigue forme di rifiuto, di stare dentro le ambivalenze della composizione di classe e di scommettere su possibili processi di contro-soggettivazione ha portato, di fronte al «successo» del cosiddetto «populismo» (termine che abbiamo sempre messo a critica perché impedisce di vedere lo spazio di possibilità che la crisi della democrazia dischiude alle nostre finalità), al rilancio difensivo della sinistra, peraltro con scarsissimi risultati anche sul piano elettorale. E di nuovo senza rottura con la sinistra non ci sono né pensiero né pratica rivoluzionaria.
Quest’ultima affermazione non è un vezzo intellettualistico, ma un’altra indispensabile indicazione di metodo. Il minoritarismo, che non va confuso con l’essere una minoranza organizzata, è soprattutto una conseguenza di questa incapacità di rompere con la sinistra, non tanto o non solo sul piano politico-organizzativo ma ben più profondamente sul piano dell’attitudine. Rompere con la sinistra non significa porsi al margine estremo di un immaginario asse su cui si collocano in continuità le diverse posizioni. Più radicalmente significa cambiare gli occhiali con cui si osserva il mondo. Significa farla finita con il giudizio, i valori, la solidarietà e l’opinione pubblica per iniziare con l’analisi, la forza, la ricomposizione e l’organizzazione. Rompere con la sinistra significa infine rompere con il progresso del capitale. Senza progresso la modernità capitalistica e la democrazia liberale non avrebbero goduto di una straordinaria fonte di legittimità. Senza quel processo di progressiva integrazione di pezzi di composizione di classe, di costruzione di un ceto medio la cui funzione politica è stata quella di stabilizzare il sistema non vi sarebbe stata legittimità e quindi tenuta sistemica. Se oggi, con una certa cautela, possiamo dire di assistere a un passaggio epocale è perché questo processo di integrazione si è in parte interrotto: il ceto medio è in via di frantumazione, la distanza tra la realtà del capitale e le sue promesse è sempre più grande e a fronte di un’innovazione tecnologica sempre più accelerata le nostre esperienze sono sempre più impoverite, e la nostra esistenza sempre più in pericolo. È su questa base materiale, sulla battuta d’arresto, se non sull’esaurimento vero e proprio, del progresso capitalistico che poggia la fine della sinistra e l’estraneità a essa dei movimenti. Non si capisce allora perché di fronte all’opportunità che la crisi del progresso e della democrazia dischiudono davanti a noi dovremmo, proprio noi che abbiamo in odio questa civiltà, diventare i loro più fedeli sostenitori: progresso e democrazia per noi sono sempre stati sinonimi di sfruttamento e dominio. Se c’è un merito che possiamo legittimamente attribuirci, in questi anni di crisi, di rassegnazione delle soggettività militanti, di disorientamento è quello di aver sempre cercato di combinare la flessibilità tattica con la rigidità strategica, ovvero con l’odio per la civiltà del capitale. In fondo il compito di una rivista militante è proprio quello di offrire un punto di vista di parte, rigido e unilaterale. Di costruire una prospettiva che consenta ai e alle militanti di posizionarsi correttamente dentro le ambiguità dei processi reali per piegarli alle proprie finalità di rottura. Questo ha fatto finora Commonware e questo continuerà a fare: nella proliferazione di siti, blog e pagine social che affollano l’infosfera, noi proviamo continuamente a offrire la rigidità del punto di vista di parte, collocandolo dentro e contro il confuso deserto del reale.
La lunga crisi globale, che l’epidemia ha accelerato spingendo in avanti molti dei processi che abbiamo individuato, oggi ci costringe a sperimentare nuovi strumenti e a sviluppare un salto in avanti. Il virus non ha affatto messo in quarantena il capitale, al contrario, come ogni crisi, ha da un lato distrutto forme specifiche di accumulazione, dall’altro ha aperto le porte a nuove o latenti opportunità di dominio e sfruttamento. Ma se il capitale è innanzitutto un rapporto sociale tra due parti in lotta, gli esiti di questi processi non sono affatto scontati. Molto dipenderà dalla nostra capacità di organizzare la forza della nostra parte. Il compito dell’elaborazione militante è allora, ancora una volta, quello di individuare gli spazi di organizzazione, di fare inchiesta per comprendere le soggettività, spesso molto distanti dalle nostre rappresentazioni, prodotte dalla crisi e dai processi di ristrutturazione capitalistica. Nelle nostre raffigurazioni le soggettività coinvolte nelle lotte sono sovente pulite e prive di contraddizioni e conflitti, ma la realtà non funziona mai in maniera così lineare. Se per esempio osserviamo con questo sguardo le recenti rivolte scoppiate negli U.S.A. possiamo vedere che la linea della razza, quando è in grado di esprimere una forza, riesce ad aggregare molteplici figure sociali, talvolta anche in conflitto tra loro e disomogenee in quanto ad obiettivi ed intenzioni, e quindi ad essere un potenziale vettore di ricomposizione. In questo senso l’inchiesta è uno strumento di fondamentale importanza nella costruzione di un metodo fino in fondo materialista.
Con una nuova veste grafica oggi rilanciamo il nostro progetto politico-editoriale attrezzandoci con qualche nuovo strumento, sperimentato durante il lockdown, ad affrontare la fase innescata dalla crisi epidemica. La principale novità è la sezione «video e podcast», resa necessaria dalla trasformazione dei comportamenti, dei modelli di lavoro e di consumo prodotta dalle tecnologie telematiche. Molta attenzione verrà poi dedicata al nodo della formazione, che per noi fin dall’inizio è stato centrale. La crisi delle soggettività militanti è infatti anche causa e insieme conseguenza dell’esaurimento della produzione autonoma di saperi. L’industria accademica ha fatto il resto, da un lato cannibalizzando e spoliticizzando i saperi di parte, dall'altro distribuendo qua e là qualche salario, per lo più psicologico, in cambio di merce-alternatività. Un luogo di elaborazione militante non può pertanto esimersi dal compito della formazione. Sia chiaro: non si tratta di costruire un’accademia alternativa, ma di produrre soggettività militanti che, al pari della forza lavoro, non si trovano in natura. Di fornire strumenti, metodi ed esperienze per rovesciare lo stato di cose presente. Nel nuovo sito troveranno inoltre molto spazio le recensioni dei più diversi prodotti culturali selezionati senza problemi di affinità ideologica, perché prima di tutto abbiamo la necessità di scovare nuove armi contro i padroni. Molta attenzione sarà infine rivolta al piano internazionale. Se però cercherete su Commonware le cronache delle lotte nel mondo rimarrete delusi: esistono già molti giornali di movimento che scimmiottano «la Repubblica». Se invece vorrete capire cosa può suggerirci una lotta scoppiata altrove o una soggettività politica in un determinato contesto geografico, o ancora se siete interessati a capire in che forme si declina sul piano globale un certo fenomeno, allora ci impegniamo affinché Commonware sia il posto giusto. Nella sezione «focus» troverete i nostri approfondimenti tematici. Anche in questo caso la scelta di dedicare uno spazio alle analisi tematiche parte da una considerazione di metodo. La rapidità della produzione mediatica di notizie e contenuti sulle piattaforme social ha infatti eroso la nostra temporalità autonoma e la nostra capacità di stare dentro e contro il nostro tempo. Corriamo il rischio di inseguire, anche con la nostra pratica politica, le bolle mediatiche – performanti come quelle finanziarie – prodotte dall’infosfera. Scopo dei nostri focus è quindi quello di conquistare una temporalità propria, contro la cronofagia e il presentismo dell’industria dell’informazione.
A differenza di molti e molte non pensiamo che dopo questa crisi, oggettivamente, «nulla sarà come prima», come con toni enfatici è stato asserito a destra e a manca. Allo stesso tempo però sarebbe sbagliato ritenere che non ci siano delle forti discontinuità di cui dobbiamo tenere conto. Il capitale infatti si innova producendo scarti sui livelli bassi di realtà, mantenendo però una rigidità forte su quelli più alti, quelli del dominio e dello sfruttamento. Compito di un progetto come il nostro è quindi quello di trasformare i suoi livelli bassi di realtà, mantenendo la propria rigidità su quelli più alti, quelli della lotta di classe e della rottura con la civiltà del capitale. Per farlo serve un salto in avanti, consapevoli che quello che abbiamo fin qui fatto e brevemente descritto è al contempo necessario ma non sufficiente. Per dirla in altri termini: se negli anni scorsi abbiamo cercato di anticipare e prefigurare alcune caratteristiche dei movimenti a venire, il loro essere specificamente contraddittori e ambigui, ora che queste caratteristiche si incarnano su un piano di massa la loro semplice constatazione non basta più. Abbiamo spesso polemizzato con altri punti di vista di «movimento», ora tale polemica rischia di essere ridondante: qui si tratta di prendere congedo da quello che siamo, da un «noi del movimento» che non c’è più. Se non vogliamo anche noi restare prigionieri dell’indispensabile metodo, ossificandolo, non dobbiamo avere paura tale metodo di sporcarlo, metterlo a verifica e in azione, trasformarlo in arma per rispondere ai tanti nodi irrisolti a cui ci troviamo di fronte. Sbaglieremo certamente e tante volte, non è questo che ci preoccupa. Il punto è di smettere di guardare al passato e volgere lo sguardo in avanti, verso un’autonomia tutta da scoprire. Per dirla con parole antiquate ma sempre valide: proviamo a passare dal che non fare al che fare.