Vite di commessi elettori. Le elezioni americane e la «middle class»

«Per una volta in vita mia vorrei possedere qualcosa interamente prima che si rompa» dice Willy Loman, il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. È una frase che per David R. Roediger, autore di The Sinking Middle Class (OR Books, 2020) descrive bene la condizione della classe media che vive acquistando costantemente a credito. Ma a ben pensarci è la condizione stessa della classe media a essere in bilico, a non essere mai «posseduta interamente» ma sempre in modo precario e parziale, a essere «sempre già rotta».
È la costante minaccia di perdere il proprio status sociale, il «sinking» nel titolo del libro: la minaccia di affondare nella classe operaia, di naufragare nella proletarizzazione. E anche se si resta a galla nella classe media, quello status non sarà mai pienamente proprio. Lo status della classe media pretende la messa a lavoro non solo del corpo ma anche dell’anima. La maggior parte del tempo della vita è trascorso a lavoro e nel poco tempo restante si è tormentati dall'ansia, dalla depressione e dalle dipendenze, «sempre già rotti», prendendo in prestito sempre più soldi nella speranza che qualcosa di nuovo tappi i buchi. Il sogno della classe media si compra a credito.
Pur sostenendo che si tratta di una condizione ampiamente diffusa, Roediger afferma che l'estensione della classe media negli Stati Uniti è grossolanamente sopravvalutata. Per «middle class» sia i democratici che i repubblicani intendono tutte le persone che guadagnano meno di 250.000 dollari, ovvero il 96% degli americani. Il sogno americano resta quello ottocentesco: un paese di «contadini, liberi professionisti e negozianti», un ceto medio artefice del proprio destino, senza padroni né resti di feudalesimo contro cui combattere. Ma mentre nel 1829 l'80% della popolazione maschile bianca lavorava autonomamente, nel 1940 l'80% lavorava per qualcun altro. La vecchia classe media imprenditoriale era stata sostituita da un nuovo soggetto salariato di «impiegati, professionisti dipendenti e manager» che esercitava un certo potere ma non aveva nessun controllo sulla produzione e sugli investimenti. Tuttavia, anche se ora il ceto medio aveva in teoria dei capi contro cui combattere, era ancora considerato la migliore difesa contro il comunismo, una diga tra la classe operaia e il capitale. Non a caso, il riferimento alla «middle class» è forte al culmine della Guerra fredda e va sfumando nel tempo, per tornare alla ribalta con Bill Clinton che mirava a riconquistare i voti dei «Reagan Democrat», gli elettori democratici che erano stati ammaliati dal reaganismo.
Per Roediger la sopravvalutazione del ceto medio americano non dipende solo dal mito del sogno americano, ma riflette anche l’autopercezione distorta della gente. Gli Stati Uniti sono al diciannovesimo posto nel mondo per ricchezza mediana (ben dietro l'Italia, che è tra i primi cinque paesi). Nonostante ciò, spesso nei sondaggi oltre il 70% degli intervistati si identifica come classe media, tra cui molte persone che fanno lavori tradizionalmente «da classe operaia» (anche se, come ci ricorda Roediger, è importante notare che spesso i sondaggisti non danno «working class» come opzione). Secondo Roediger se le persone si sentono di appartenere al ceto medio non è tanto per motivi di aspirazione ma perché condividono la miseria particolare del ceto medio: percepiscono un particolare tipo di alienazione, un eccesso di lavoro e di debito propri del ceto medio.
Il sovraccarico di lavoro tipico del ceto medio è diventato la regola: dal 1980 al 2015 l'anno lavorativo medio negli USA è aumentato di 173 ore, pari a un mese di lavoro in più. Il 20% degli americani lavora più di sessanta ore alla settimana, e un altro 40% più di cinquanta ore. Ma allo stesso tempo, molti lavori della classe operaia sembrano più «middle class» perché richiedono un «marketing della personalità». Roediger sostiene che i primi lavoratori a cui è stata chiesto di mettere a disposizione la propria personalità sono state le segretarie che sono entrate negli uffici americani negli anni ’20 del ’900. Sostituendo le figure (e gli atteggiamenti) dei «Bartleby», queste donne dovevano ricreare la sfera domestica sul posto di lavoro, essere altamente produttive nel rispondere allo stesso tempo alle esigenze professionali e psicologiche dei loro capi. Questo particolare tipo di alienazione profonda fu esteso ad altri impieghi del ceto medio e poi anche ai lavori della classe operaia, come i fast food e addirittura nell'industria pesante. E nello stesso periodo, anche il debito venne associato all'aspirazione del ceto medio: secondo Roediger la rispettabilità della classe media vittoriana che passava per il risparmio e la «rinuncia a se stessi» fu sostituita negli anni ’20 col desiderio di investire nel proprio status. L'accesso al credito fu concesso solo a coloro che sembravano avere tutti i crismi del ceto medio e il debito fu ripensato come «fiducia del consumatore». I simboli del successo comprati a credito potevano poi essere rivenduti sul mercato del lavoro come «personalità». Stressata, indebitata e sempre insoddisfatta e alienata, l’America, nota Roediger, è leader mondiale nel consumo di religione e di pornografia. Questo loop sta a significare che le persone si identificano come ceto medio «tanto per un dolore condiviso e un senso comune di impossibilità quanto per un senso di trionfo».
Ma che forza ha questa autopercezione? Credersi ceto medio è sufficiente per difendersi dallo spettro del comunismo? Oppure i miserabili e irraggiungibili sogni del ceto medio sono vissuti solo come le proprie catene da perdere? Anche se nel libro si esaminano brevemente i limiti e le possibilità delle analisi marxiane e marxiste a proposito del potenziale politico del ceto medio, Roediger non si concentra sul rapporto tra le posizioni di classe reali e quelle percepite, sostenendo semplicemente che l’autopercepita classe media include persone con «posizioni di classe contraddittorie, sia materialmente che ideologicamente». E nonostante insista sul fatto che dobbiamo cercare la politica oltre le elezioni, il libro è dedicato principalmente all'analisi delle campagne elettorali e dei discorsi presidenziali. Forse l'idea è che mettere in discussione il mito del ceto medio americano, perpetuato e rafforzato nelle campagne elettorali presidenziali, potrebbe aprire la strada a un'analisi dei rapporti di classe reali.
Nelle campagne elettorali e nei discorsi presidenziali, i riferimenti al ceto medio abbondano da entrambe le parti, ma il libro di Roediger tende a concentrarsi sul suo uso da parte dei Democratici. Bernie Sanders non ha mai smesso di ricordarci che il socialismo è per la classe media, Joe Biden si definisce «Middle Class Joe», Elizabeth Warren ha scritto tre libri sull'argomento e Obama si è definito «un guerriero per la classe media» (il “primo presidente nero” durante il suo mandato ha citato «the poor» e «poverty» meno di tutti gli ultimi dieci presidenti). Roediger sostiene che questa ossessione per la «middle class» è iniziata con Bill Clinton e dedica un intero capitolo agli sforzi del suo team nel 1992 per riconquistare il ceto medio. Tutto ha inizio con uno studio del 1985 di Stan Greenberg – poi pubblicato col titolo Middle class dreams – sulle opinioni delle persone che abitavano a Macomb, una contea a maggioranza bianca che era andata ai repubblicani nel 1980 e nel 1984. Anche se lo studio in teoria era sul ceto medio americano, in realtà i suoi focus group erano composti da un tipo di elettore molto specifico: i partecipanti erano tutti bianchi, oltre i 35 anni e avevano votato per Reagan nel 1984, il 75% erano maschi e il 25% erano casalinghe. I risultati dello studio dimostravano che per queste persone le preoccupazioni economiche erano spesso al secondo posto rispetto a quelle relative alla razza. La loro percezione di far parte del ceto medio si basava sul fatto di essere bianchi: «Non essere neri era ciò che costituiva l'essere del ceto medio, non vivere con i neri era ciò che rendeva un quartiere un posto decente in cui vivere». Greenberg scoprì che queste persone avevano votato per Reagan non tanto per la sua politica, ma perché lo vedevano come «un uomo che si è fatto valere per se stesso e per l’americano medio bianco». Le opinioni di questo gruppo di elettori incerti furono poi usate per rappresentare il ceto medio di tutto il paese. E il deformato caso di studio di Greenberg ha informato non solo la campagna di Bill Clinton ma tutte le campagne elettorali dei decenni successivi. Non c'è da stupirsi: la definizione di «middle class» è un regalo ai politici, si rivolge apparentemente alla maggioranza del paese, mentre in realtà nasconde un focus su un elettore strategicamente importante, a cui ci si può rivolgere in quanto bianco e suburbano, piuttosto che in quanto lavoratore. In questo modo le preoccupazioni della «middle class» sarebbero soddisfatte attraverso politiche razziali codificate, per esempio sull'immigrazione, la criminalità, il welfare e l'«integrazione», senza occuparsi dell’economia. Come sostiene Roediger, i richiami alla «middle class» hanno sempre tacitamente sottinteso i bianchi, di pelle più che di colletto.
Negli ultimi anni gli appelli espliciti agli elettori bianchi da parte di entrambi i partiti sono diventati più frequenti rispetto ai precedenti 60 anni. Anche se i riferimenti al ceto medio li superano di gran lunga, c'è stato un netto aumento dei riferimenti alla «white working class». E c'è stato anche un aumento delle persone che si definiscono «working class» (quasi il 60% degli under 35 anni e in generale con un tasso inedito nella storia degli States). Facendo riferimento alla working class sempre e solo come «white», i politici sperano di rendere più gestibile questa ritrovata classe operaia.
La vittoria di Trump nel 2016 è stata regolarmente e pigramente attribuita ai voti della «white working class». Ma Roediger mostra come alle ultime presidenziali lo spostamento di voti verso i repubblicani della classe operaia bianca non è stato particolarmente significativo. In realtà lo spostamento di voti verso i repubblicani è stato di tutti i bianchi di tutte le classi sociali: quella parte della classe operaia bianca che va a votare ha comportamenti di voto molto più simili ai bianchi delle altre classi sociali che alla classe operaia non bianca.
L’elezione di Trump è stata possibile grazie al voto dei bianchi in generale e più specificamente delle donne bianche. Questo potrebbe spiegare il disperato appello di Trump alla «suburban woman» nel corso della campagna elettorale 2020, ricordandogli che ha messo fine alle leggi che imponevano nuove case popolari nei suburbs per proteggere il loro «american dream» dalla criminalità. «Suburban women, will you please like me? Please, please. I saved your damned neighborhood, ok?» implora Donald.
Trump dice chiaro e tondo quello che pensano anche gli altri politici: quasi quarant'anni dopo lo studio di Greenberg, tutti sanno che l'elettore bianco del sobborgo decide ancora le elezioni.
Il libro di Roediger ci ricorda che l'omogeneo e felice ceto medio è un mito sognato da e per i politici per conquistare il voto di un piccolo ma decisivo numero di elettori bianchi. Se vogliamo trovare il potenziale della lotta di classe sarebbe meglio guardare a coloro a cui nessuno si rivolge durante le campagne elettorali: il 45% della popolazione americana che non vota e chi è escluso dal voto come più del 6% degli afro-americani a causa di condanne penali e i migranti senza documenti. E provare a capire perché, come mai prima nella loro storia, molta parte degli americani si definisce oggi come working class. E rispetto alla maggioranza che ancora si definisce middle class domandarsi se il suo sogno si è infanto, se è un «sogno rotto» che può finire solo con il suicidio del commesso viaggiatore, oppure può diventare un incubo da rompere, un «incubo rotto» da un risveglio di rivolta. «Ti devi rompere il collo per vedere una stella in questo posto!» dice Willy Loman.