Per scomporre l’orologio della modernità

Per scomporre l’orologio della modernità

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A mo’ di una recensione di Gigi Roggero sulla trilogia di Raffaele Alberto Ventura

Leggeteli, i libri di Raffaele Alberto Ventura. Non solo l’ultimo, Radical Choc (Einaudi 2020), ma anche quelli precedenti, Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti (minimum fax 2017 e 2019). In una sorta di trilogia, ci sembra che già il primo volume contenga le tesi e gli argomenti centrali. Aggiornando Thorstein Veblen, che definiva «agiata» una classe oziosa e improduttiva, che spende nei consumi per lo status, Ventura propone una teoria di quella classe diventata «disagiata». Nel contesto della crisi del ceto medio, l’autore si concentra sulla sua frazione colta e intellettualizzata, che usa o usava la conoscenza come strumento di potere e di ascesa sociale, abituata a uno stile di vita – fatto di riconoscimento e consumi «posizionali» – che non può più permettersi. Da qui l’infelicità rancorosa, che per le diverse frazioni prende strade differenti e confluisce nella guerra di tutti. Un novello stato di natura di hobbesiana memoria, che rischia di assumere più i toni grotteschi della farsa che non quelli seriosi della tragedia. Nell’arena si scontrano così i vari pezzi del ceto medio declassato e minoranze aggrappate all’orgoglio di un’identità costruita sull’oppressione subita. Gli uni vogliono tornare a quello che avevano prima, gli altri vogliono avere quello che non hanno mai avuto. Entrambi pretendono un risarcimento per i torti subiti e sono pronti a scannarsi per una risorsa sempre più scarsa: il riconoscimento, appunto.

Con continui riferimenti, culturalmente raffinati, alternativamente colti e pop (ci perdonerà Ventura se rimarchiamo la sua evidente appartenenza allo stile di scrittura del ceto su cui giustamente infierisce nel suo libro), l’autore scarnifica una classe troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, troppo povera per realizzarle. Affrontandole correttamente da questo angolo prospettico può confrontarsi con le grandi questioni dell’attualità, dal cosiddetto «populismo» alla crisi della scienza. Lo fa talora con una spietatezza che nasconde eccessiva compassione, con una radicalità che ci pare, arrivata al nocciolo, timorosa di andare fino in fondo. Proviamo a mettere in fila alcune delle osservazioni principali.

 

Abbattere il feticcio della cultura

Gli appartenenti alla classe disagiata sono stati bruscamente svegliati dai loro sogni, o peggio ancora continuano a esserne prigionieri. Sogni costruiti dalle promesse della modernità capitalistica: un progresso lineare e senza interruzioni, un mondo che riserva ai colti uno status speciale, torri d’avorio antisismiche. Improvvisamente, tutto ciò che pareva solido si dissolve nell’aria della crisi. Scrive l’autore: «La classe disagiata è il residuo umano lasciato dalle crisi di sovrapproduzione nel momento in cui non è più possibile finanziare il consumo improduttivo». Rileggendo le attività di questa classe, agiata o disagiata che sia, Ventura le cataloga infatti nella categoria del lavoro improduttivo. Il prosumer, di cui tanto si è parlato negli ultimi decenni, è quindi nient’altro che un consumatore mascherato da produttore.

È condivisibile l’obiettivo polemico dell’autore: il feticcio della cultura, mezzo di mistificazione di massa divenuto ideologia dell’autosfruttamento. Da qui il bisogno di «decostruire» il ruolo delle istituzioni che continuiamo a venerare: la scuola, l’università, l’industria culturale, il social web. In questo modo, Ventura può altrettanto correttamente mettere a critica le ideologie costruite attorno alle figure in cui il feticcio della cultura si incarna, ritenute in varia misura portatrici dell’interesse generale del progresso umano. Tale ideologia, inutile sottolinearlo, alberga storicamente a sinistra, fino ad arrivare all’odierno disprezzo non solo per le posizioni «populiste», ma per coloro che da queste posizioni verrebbero abbindolati, come se esistesse un’oggettiva correlazione tra difetto di istruzione e cultura e orientamento a destra. Da qui discende una patologizzazione e medicalizzazione del dibattito politico: astraendosi dalla dura materialità dei rapporti sociali e di potere, attorno a questa ideologia aleggia una terribile puzza di disprezzo di classe nel nome di una conoscenza neutra, oggettiva, universale. A offendere i disagiati di questa frazione di classe non è dunque la precarietà, ma il fatto che la precarietà colpisca le intelligenze del paese. Con il prevedibile paradosso che la tanto decantata democrazia viene rigettata proprio da coloro che dicono di volerla difendere: eh che cazzo, non si può far votare gli ignoranti, altrimenti vincono gli anti-democratici!

Ci convince meno, nell’analisi di Ventura, il suo ricondurre la classe disagiata al lavoro improduttivo. Per dirla sinteticamente, del più volte citato prosumer diamo la lettura opposta a quella da lui fornita: è un produttore mascherato da consumatore, o meglio indica la lavorizzazione del consumo. Il punto non è che cultura e conoscenza siano improduttive, ma al contrario che siano pienamente messe in produzione, al centro dei processi di accumulazione capitalistica. Da ciò non ne dobbiamo trarre la conclusione – giustamente criticata dall’autore – secondo cui i knowledge worker sarebbero soggetto centrale della trasformazione, bensì che si tratta di figure sottoposte a violenti processi di proletarizzazione, nonostante restino aggrappate a vetuste appartenenze di status e illusioni di agiatezza. Il fuoco del ragionamento andrebbe cioè spostato dallo spreco all’impoverimento di capacità, che tra l’altro viene intravisto dall’autore in alcuni passaggi, ad esempio quando afferma che «l’era della post-verità non è un tempo di ignoranza ma di stupidità». Quelle legate alla merce-cultura e alla merce-sapere, lungi dall’essere attività improduttive, innervano infatti uno sviluppo produttivo che impoverisce le capacità e crea, appunto, stupidità.

La stessa crisi è un elemento non decisivo nell’analisi condotta dall’autore del declassamento e del divenire disagiata di questa classe, appena accennato per poi finire sullo sfondo di un’impostazione che rischia di perdere di vista la determinazione storica dei processi esaminati. Anzi, Ventura sembra quasi affermare che è inutile parlare di crisi, perché semmai l’eccezione è il periodo di boom economico. Mentre proprio le sue argomentazioni illuminano la crisi non solo economica del capitalismo, ma la crisi del capitalismo in quanto civiltà. È dunque come se l’analisi sociologica sviluppata sui livelli della vita quotidiana, estremamente efficace e perspicua, non considerasse che quei livelli sono inseriti dentro un sistema complesso di dominio e di produzione, che per alcuni aspetti muta continuamente. È come se – facendoci ininterrottamente viaggiare in modo affascinante avanti e indietro, attraverso i secoli e le epoche, con uno stile che a tratti ricorda da vicino Žižek – non ci fossero fasi e cicli, come se non ci fosse il tempo storico.

 

Guerra civile liquida

«Stai facendo quello che qualsiasi uomo sano di mente farebbe nella tua situazione: stai impazzendo»: le parole che il Joker di Alan Moore rivolge al commissario Gordon calzano a pennello con il quadro sociale della contemporaneità. Non sappiamo se chi oggi riempie le ambigue piazze «cospirazioniste» fosse un tempo sano di mente, certamente l’impazzimento è della società nel suo complesso e non solo dei suoi membri incolti o dei cosiddetti «analfabeti funzionali». Senza nulla concedere alle narrazioni «populiste», da lui anzi ritenute «abiette e pericolose», Ventura si concentra nell’ultimo libro sulla «rottura epistemologica» creata dalla crisi della competenza. Perciò non possiamo accontentarci di «analisi prodotte all’interno dei paradigmi dominanti, perché questi sono allo stesso tempo giudice e parte in causa. È necessario prendere sul serio la critica radicale rivolta al sistema della competenza, apparentemente “irrazionale”, per chiederci se la sua razionalità non si situi a un altro livello. Ci siamo concentrati troppo sulla questione della verità senza capire che a contare davvero era l’efficienza dei paradigmi, la loro capacità di rispondere ai nostri bisogni: così siamo caduti nella metafisica». Detta altrimenti: la questione non è se i paradigmi dominanti siano veri o se chi li attacca si avvalga di fake news, il problema è che tali paradigmi non sono più in grado di mantenere le promesse sulla cui base erano nati e avevano costruito la propria legittimità.

Il cosiddetto «populismo», che ha nella crisi del ceto medio il suo fulcro (il trumpismo non è la rabbia degli ultimi ma dei declassati, chiosa l’autore), va allora interpretato come sintomo, una sensazione di cattivo funzionamento delle istituzioni esistenti. Allo stesso modo, Nietzsche considerava un sintomo il nichilismo: lo faceva non in quanto nichilista, bensì perché era pienamente consapevole, o meglio anticipatore della crisi della razionalità moderna. Dunque, nel momento in cui un sistema tradisce le promesse che aveva fatto per imporsi, si apre una fase di delegittimazione, potenzialmente rivoluzionaria: «la legittimazione è un debito che deve presto o tardi essere pagato». Quella che Ventura definisce la «classe competente» fatica a onorare innanzitutto «l’antica promessa di sicurezza sulla quale aveva fondato la propria legittimità». Non solo: nel dominio della tecnica, i rischi sono creati dallo stesso ordine razionale che avrebbe dovuto scongiurarli. Si determinano cioè degli «effetti iatrogeni», che indicano una patologia causata o amplificata dalla cura. Il panico della crisi pandemica deriva anche dall’ossessione per la sicurezza, ovvero dall’illusione della scienza moderna di dover avere tutto sotto controllo. Oppure, si potrebbe continuare seguendo il filo del suo ragionamento, la classe disagiata è un effetto iatrogeno delle promesse di progresso legate alla merce-istruzione.

La paranoia dei cospirazionisti, del resto, è una derivata della paranoia del «potere», quello visibile; è il risultato cioè di un sistema che continuamente produce paranoia, alimentando «il rischio di volersi proteggere da tutti i rischi». Il punto, infatti, è che i cospirazionisti immaginano molto meno e non più di quello che il potere reale effettivamente fa. Tutto sommato, ci dice l’autore, hanno una fede profonda nella scienza, che li porta a credere che gli scienziati dicano delle stupidaggini non per errore ma per calcolo. Puntando sempre a qualcosa di occulto, finiscono così per scagionare le istituzioni di potere esistenti per ciò che visibilmente fanno. Oppure – si pensi alla parabola dei 5 stelle – aprono la strada a una soluzione tecnocratica, del resto già contenuta in nuce nel ciclo dei movimento occupy (si pensi alla proposizione di una «tecnopolitica» delle acampadas spagnole).

Ecco perché la rivolta contro gli esperti e i competenti va presa sul serio. Sembra crollare – non per la prima volta, come ci ricorda l’autore sulla scorta di Merton – la fede nella grande religione moderna: uno scientismo che ha divorato la scienza. Si può irridere l’aspetto grottesco delle sue espressioni più mediatizzate, come fa lo spettatore di sinistra di fronte alle bufale o alle piazze no mask. Il punto, però, è che dentro quella rivolta vi è la crisi di fiducia nelle istituzioni, dalla scienza alla politica. Esprime, in modo deformato finché si vuole, una diffidenza nei confronti di una realtà così brutta che è difficile accettare che sia vera. Soprattutto da parte di chi fino a ieri da quella realtà ha goduto benefici materiali e promesse più o meno mantenute. Nella misura in cui quella rivolta non riesce a coagularsi contro chi sta in alto, si frantuma orizzontalmente e si sfoga verso il basso. Nel campo di battaglia delineato dalla crisi del ceto medio nel suo complesso, ogni individuo o segmento si radicalizza nelle bolle di un’appartenenza concreta o immaginaria, dando vita a una guerra civile molecolare, liquida, dai confini indefiniti e continuamente variabili. La questione è: le bolle devono restare tali o possono diventare parti? La guerra civile sarà fatta da lupi solitari oppure potrebbe trasformarsi in scontro di classe, e il rancore individuale in odio collettivo?

 

Dalla foto al film

In questa domanda, dall’interno della guerra civile liquida, c’è un’altra questione decisiva. Quella che Ventura chiama «classe», agiata da un lato e dei competenti dall’altro, è in realtà una bolla, un ceto sociologicamente inteso, che si aggrega attorno a uno status che ha o che vorrebbe tornare ad avere. La classe per noi resta al contrario una definizione politica, la posta in palio di un processo di lotta. Non è una banale questione terminologica bensì di sostanza, di postura e prospettiva politica. L’autore legge il declassamento degli ex agiati come una «tragedia della borghesia». Cosa succede, però, quando cambia la collocazione materiale di queste stesse figure, quando le promesse si infrangono, quando il ceto medio non può più continuare a vivere come prima? Questi soggetti non sono oppressi ma mancati oppressori, ci dice: la seconda parte è probabilmente vera ma ciò non significa che sia vera la prima. Anche gli operai possono essere mancati capitalisti, ma ciò non significa che non siano operai. Ci sembra che l’autore resti fermo su una fotografia dell’esistente, una fotografia molto nitida e ottimamente scattata, che tuttavia non riesce a cogliere le possibili tendenze, i punti di tensione, le faglie potenziali. La sua analisi corre cioè il rischio di essere statica, di non presupporre il movimento, di guardare indietro e non avanti. Pur criticando l’ideologia, Ventura ne resta parzialmente impigliato, perdendo di vista la materialità dei rapporti sociali, dunque la talora rapida tumultuosità dei processi e la possibilità della loro rottura e sovversione.

Le pagine di critica demolitrice dei radical chic sono indubbiamente gustose. Per certi versi, ci dice l’autore, il rapporto si è rovesciato rispetto al secolo scorso, quando con lo champagne si ostentava il lusso e con il dichiararsi di sinistra una moralità vistosa. Oggi la birra artigianale, equivalente funzionale dello champagne di ieri, esprime una posizione di moralità rispetto ai consumi e al mondo, mentre è proprio l’essere di sinistra a ostentare un’appartenenza di classe, a un ceto che può continuare a esprimere ideali che non costano niente sui grandi temi del mondo perché, materialmente, l’apericena non gliela toglie nessuno. I mercatini bio, coi loro prezzi direttamente proporzionali al consumo ideologico, sono i luoghi privilegiati di questa esibizione.

Da qui si può dedurre, per chi non l’avesse già fatto prima o addirittura assunto come un presupposto, che la critica al capitalismo non viaggia sull’asse sinistra-destra, perché quella dialettica è tutta interna alla modernità borghese. Nella «fabbrica del dissenso», Ventura evidenzia la sussunzione della contrapposizione e dell’indipendenza; il problema non è essere esclusi, ma al contrario essere triturati negli ingranaggi dell’inclusione al sistema. La questione è, ancora una volta: la sussunzione è fatto concreto o destino ineluttabile? L’autore dà la sua risposta: «Il capitalista e l’anticapitalista sono stretti in un abbraccio dal quale nessuno può staccarsi senza mettere in pericolo la propria esistenza». Altrove, tuttavia, ci invita a non cadere nell’immagine di perfetto funzionamento che il sistema dà di se stesso: «l’incubo della gabbia d’acciaio non è la sua inscalfibile razionalità, ma sono le venature di follia che la percorrono».

Quando la bolla si buca, sembra non restare altro che risentimento e depressione, schegge impazzite pronte a tutte, contro gli altri e/o contro se stesse. Il serial killer e il depresso sono due facce della stessa condizione. Tuttavia, anche la soggettività è materia di produzione: è formata dai rapporti sociali esistenti, si forma nella lotta contro di essi. E cambia, può cambiare. Può addirittura rovesciarsi contro se stessa, in forma imprevedibile. Non è ottimismo della volontà, ma critica di un pessimismo indotto da un presente eternizzato, da fine della storia. D’altro canto, non ci resta che un ruolo di testimonianza? Forse sì, però farsi professionisti e scrittori della testimonianza, perfino della condizione di sfiga dei traditi dal progresso, non è esattamente l’ennesima illusione feticistica della classe disagiata?

 

Una catastrofe senza apocalisse?

Nell’epilogo di Radical choc Ventura introduce un dubbio, che noi riformuliamo così: e se la democrazia fosse una tecnica di gestione politica capace di funzionare solo all’interno dei binari della normalità, cioè in contesti non segnati dall’emergenza e dall’eccezione? Democrazia e tecnocrazia non sono in contraddizione. Al contrario, possiamo dire che la seconda è insita nella prima, ne costituisce il compimento. La democrazia è il trionfo della tecnica, forma suprema di depoliticizzazione di massa. Del resto, ceto medio e democrazia sono le Twin Towers del Novecento: il primo non è pensabile se non nella cornice della seconda, la seconda ha bisogno del primo per stabilizzarsi. A questa altezza l’autore si ferma, colto dal timore del precipizio: «La tragedia nazista vale ancora oggi come avvertimento, ma è un avvertimento duplice e paradossale: essa ci mostra il pericolo rappresentato contemporaneamente dalla grande macchina della competenza e dall’ideologia che voleva abbatterla. Se davvero la Storia vorrà prendere la strada della distruzione creatrice per sostituire i suoi paradigmi in crisi, allora dobbiamo sperare che le catastrofi del passato ci abbiano insegnato un po’ di prudenza, e che tra i populismi che si candideranno ad abbattere l’ordine dominante sapremo scegliere il meno devastatore». Per certi versi Ventura è un eccellente sociologo della catastrofe. Una catastrofe senza apocalisse, una catastrofe normalizzata. Una catastrofe che non ha un volto inquietante o pauroso, ma ne ha uno di gran lunga peggiore: un volto banale e noioso. In questo collasso senza crollo, Ventura dipinge scene e vizi di una vita inesorabilmente da basso impero, ma senza barbari che minacciano i confini: sono già dentro, eppure gli ingranaggi della macchina continuano a girare indifferenti con i loro automatismi. Al contrario di quel che viene detto ne L’odio, il problema qui non è l’atterraggio, ma la caduta.

A questo punto, ci pare opportuno concludere approfondendo Hobbes e la metafora dell’orologio, solo accennata a più riprese nelle pagine dell’ultimo libro: «Come in un orologio o in un’altra macchina un poco complessa non si può sapere quale sia la funzione di ogni parte e di ogni ruota, se non lo si scompone, e si esaminano separatamente la materia, la figura, il moto delle parti, così nell’indagine sul diritto dello Stato e sui doveri dei cittadini si deve, se non scomporre lo Stato, considerarlo come scomposto, per intendere correttamente quale sia la natura umana, in quali cose sia adatta o inadatta a costruire lo Stato, e come debbano accordarsi gli uomini che intendono riunirsi». Leggeteli questi testi, dicevamo all’inizio. Grazie a Ventura possiamo articolare ulteriormente una discussione su temi e questioni dirimenti, che qui sono solo accennate e troppo poco scandagliate. Però, dopo aver esaminato la materia, la figura e il moto delle parti, andiamo avanti, e scomponiamo fino in fondo questo stato di cose presente. Che è così brutto che basta viverci dentro per odiarlo.

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