Rovesciare la narrazione della sicilianità

Rovesciare la narrazione della sicilianità

Arrinesci
Una recensione di Anna Curcio a «Si resti arrinesci. Per fermare l’emigrazione dalla Sicilia» della redazione di Antudo.info

Si resti arrinesci. Per fermare l’emigrazione dalla Sicilia della redazione di Antudo.info (DeriveApprodi 2020) è un testo eminentemente politico. Non solo perché fa da compendio a una campagna militante che si sta imponendo nel dibattito pubblico in Sicilia. Il volume compie un’operazione politica di pregio nel detournare un vecchio proverbio siciliano «molto conosciuto, forse anche troppo», come si legge in una delle interviste che chiudono il volume.

«Cu nesci arrinesci», il mantra che ha segnato generazioni su generazioni di siciliani, spinti dalla convinzione che per riuscire nella vita fosse necessario attraversare lo Stretto, «andare in Italia» o finanche spingersi al di là dell’Atlantico, è tradotto nel suo rovescio. L’obiettivo è sovvertire il senso di sconfitta, impotenza e marginalità che sembra aver segnato la storia dell’isola e dei suoi abitanti fin dagli anni immediatamente successivi all’Unità. La parola d’ordine diventa «restare». «Restare per lottare e lottare ogni giorno per restare». Non una scelta individuale dunque, ma un progetto collettivo sul territorio per il territorio, che ha anche l’ambizione di uscire dalla settorialità che spesso segna i movimenti territoriali e punta a comporre un tessuto di lotte trasversale, «contro un nemico comune».

Sulla scorta delle riflessioni di Frantz Fanon, il volume assume un approccio curativo: «l’identità negata può risorgere solo ammettendo una rottura con la civiltà coloniale». A essere negata, in particolare, è l’identità stessa dell’isola, come interiorizzazione di una narrazione dominante schiacciata sull’idea di inferiorità sociale e culturale che vuole l’emigrazione una «volontà» piuttosto che una «necessità», come se attraversare lo Stretto fosse fanonianamente «una boccata d’aria». D’altra parte la narrazione dell’Europa moderna ci ha abituato a pensare al Mezzogiorno come a «un paradiso abitato da diavoli» secondo la celebre definizione attribuita a Wolfgang Goethe. La retorica di paesaggi d’incanto, inerzia civile e scarso senso della moralità, da Goethe al Robert D. Putnam di La tradizione civica nelle regioni italiane, passando per l’antropologia positivista di Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo, fino alle più recenti prese di posizione della stampa internazionale e della letteratura grigia in Europa, non hanno mai abbandonato la rappresentazione del Sud Italia.

Per rompere con questa rappresentazione è necessario innanzitutto ribaltare il punto di vista. Spiazzare la retorica dominante e aprire nuovi spazi di possibilità. Occorre interrompere e rigettare la subalternità cucita negli anni addosso ai siciliani e agli abitanti del meridione d’Italia, come conseguenza di quel patto scellerato tra interessi capitalistici del Nord e interessi agrario-feudali del Sud che governa ininterrottamente questo paese dal 1861. Perché, come il volume opportunamente sottolinea, l’arretratezza meridionale è funzione dello stesso sviluppo economico italiano ed europeo. Più precisamente, come già Luciano Ferrari Bravo aveva evidenziato nel suo studio magistrale sulle dinamiche sociali e produttive del Mezzogiorno italiano negli anni Sessanta e Settanta, il sottosviluppo non è il non ancora dello sviluppo ma una condizione specifica e peculiare dello sviluppo capitalistico.

Occorre dunque raccontare l’altra storia, quella taciuta dagli interessi del capitale. La scelta dei termini per farlo è nel volume tutt’altro che casuale. Il linguaggio e gli argomenti hanno infatti una spiccata matrice anticoloniale: l’Unità – che nel 1861 suggella il mito nazionale – è qui Annessione, mettendo in primo piano il tema del dominio e della resistenza. Il sottosviluppo, si è detto, è inteso come prerogativa di un’economia coloniale. L’emigrazione è sempre estrazione di ricchezza come in tutte le colonie e serve a «regolare i flussi di manodopera tra paesi a sviluppo ineguale».

Con l’obiettivo, insieme polemico e politico, di dare spazio a una contronarrazione, il volume propone una ricostruzione storica dei processi economici e delle dinamiche sociali che hanno interessato l’isola negli ultimi centosessanta anni o giù di lì. Dalla vivacità sociale e produttiva degli anni pre-unitari alle politiche economiche del Regno d’Italia che favoriscono lo sviluppo industriale del Nord a discapito del Sud, alle opere pubbliche del fascismo alla ricerca di consenso, fino all’affossamento della riforma agraria nel secondo dopoguerra, all’intensificazione delle politiche estrattiviste e all’assistenzialismo della Democrazia Cristiana, ripercorrendo la storia sociale ed economica dell’isola, il volume insiste sulla costruzione dell’arretratezza meridionale. È stata condizione necessaria per lo sviluppo industriale del Nord (come in tutti i contesti coloniali, il Mezzogiorno è un enorme mercato vergine e un bacino di manodopera razzializzata a basso costo) e insieme l’indispensabile biglietto da visita per entrare nel novero delle potenze europee. Segnando l’esistenza di una frattura interna, l’Italia ha potuto scrollarsi di dosso la rappresentazione di territorio in bilico tra l’Europa e l’Africa della narrazione europea della modernità. In realtà il volume si limita a tratteggiare questi processi, e non potrebbe essere altrimenti data la natura politica del progetto editoriale che sottende. In tutti i casi, nel suo essere un testo snello, nel carattere asciutto degli argomenti che propone, si presenta come uno stimolante punto di partenza per una riflessione da riprendere.

Con un analogo intento curativo, il volume propone un excursus dell’emigrazione dall’isola, evidenziando come la scelta di partire sia storicamente dipesa più da una condizione di necessità (depauperamento del territorio, disinvestimento produttivo, costante impoverimento) che da una volontà soggettiva, come vorrebbe il mantra del riuscire solo partendo. Sullo sfondo risaltano le dinamiche del capitalismo razziale, che si afferma sul piano internazionale proprio in concomitanza con la nascita del Regno d’Italia. In Sicilia, «prima dell’Annessione – scrive Elio Di Piazza nell’Introduzione – non esisteva l’emigrazione economica (…) lo scenario si capovolse nel 1861». Nell’ipotesi avanzata dal volume, ciò fu anche la risposta all’affrancamento di milioni di schiavi dal lavoro coatto nelle piantagioni e alle «strane idee» dei siciliani che «volevano la terra» e «si ribellavano». Il volume stabilisce cioè un nesso tra la fine della guerra civile americana e l’avvio in Sicilia di «un esodo di proporzioni bibliche». Senza voler qui insistere su un dubbio rapporto deterministico tra l’emigrazione di massa dalla Sicilia e gli sviluppi della guerra di secessione negli Stati Uniti, è innegabile che la seconda metà del XIX secolo sia un periodo cruciale per lo sviluppo del capitalismo: la razza è messa a lavoro sul piano internazionale per costruire gerarchie e processi di subordinazione funzionali alla nuova organizzazione della produzione. Negli Stati Uniti la manodopera italiana a basso costo perché razzializzata darà un importante impulso allo sviluppo industriale, mentre più complessivamente una vera e propria tassonomia della razza punterà a collocare ogni nuovo arrivato nelle gerarchie del lavoro del nascente capitalismo in America, Australia, Sudafrica, così come nei territori coloniali.

Guardando in particolare al rapporto tra emigrazione e lavoro, il volume insiste sulla dialettica tra «spinta» e «attrazione» con cui le scienze sociali sono solite leggere le migrazioni. Propone una lettura incline a privilegiare il fattore «attrazione» sul fattore «spinta», cioè la costruzione del sottosviluppo funzionale alla produzione capitalistica piuttosto che la fuga da povertà e marginalità. Negli anni successivi all’Annessione braccianti e contadini emigrano perché colpiti dalla crisi agricola innescata dalle politiche unitarie, mentre nel secondo dopoguerra il fallimento (doloso) della riforma agraria attira svariate centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici alla catena di montaggio nelle città del triangolo industriale. Più di recente il lavoro iperqualificato si sposta in massa verso le aree del Nord Europa, dove è alta la richiesta di lavoro intellettuale e creativo. In questa lettura, l’insistenza sulle condizioni di natura strutturale sembrerebbe a prima vista tener fuori la dimensione soggettiva sempre indiscutibilmente presente nei processi migratori, tuttavia la proposta del volume va ben oltre il determinismo economico. Punta piuttosto al piano, tutto politico, della composizione delle lotte.

Si resti arrinesci è, innanzitutto, la rivendicazione della possibilità di scegliere, è lotta di autodeterminazione. È presa di parola collettiva e conflittuale: rovescia la narrazione della sicilianità per rovesciare lo stato di cose presente.

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