Meme col fucile. Un’antropologia del collasso

Meme col fucile. Un’antropologia del collasso

Pepe
Una recensione di Jack Orlando a «Kill All Normies» di Angela Nagle

«Che cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario come me e una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia?», chiede il Joker di Todd Philipps, prima di dare da sé la risposta: «Ottieni il cazzo che ti meriti».

Se ne è fatto un gran parlare di quel film. Di quel personaggio che più che da un fumetto è sembrato uscire dallo specchio del bagno di casa. Delle possibili letture, immancabilmente cieche, di destra o di sinistra del suo agire torbido, sconclusionato eppure familiare.

Familiare perché incarnava l’emarginazione strutturale e la sofferenza psichica che scivolano verso la violenza, il bravo bambino che diventa lupo mannaro. Un loop visto ripetersi a coazione fuori e dentro gli schermi. Perché è evidente a chiunque che la civiltà capitalistica moderna non faccia altro che incedere producendo scarti umani, affastellandoli gli uni sugli altri come le macerie ai piedi dell’Angelo della Storia. E dove vanno quegli scarti, quando non entrano in carcere, in comunità, in obitorio o in psicanalisi?

Si ritirano nell’ombra, si leccano le ferite e covano odio e rancore per una vergogna a cui è difficile trovare un responsabile. L’emarginazione comporta ontologicamente un ripiegamento su se stessi come la natura umana comporta la ricerca del proprio simile. Ed ecco sorgere comunità di esclusi e falliti che mangiano dallo stesso piatto amaro e parlano la stessa lingua sgradevole dando le spalle al resto del mondo, autocompiaciuti e vicendevolmente esaltati.

E in un mondo dove il social network è diventato parte integrante della socialità, assumendone a volte l’unica forma, dove altro potevano ritrovarsi questi soggetti? Rassicurati dall’anonimato, confortati da una dimensione comunitaria che non necessita di rapporti umani, felici della assoluta libertà di parola che queste idrovore di parole garantiscono.

Angela Nagle, ricercatrice statunitense, ha rintracciato e ricostruito la genealogia di queste comunità (o è meglio dire community?) dagli esordi fino al loro esplodere nella cultura mainstream, nel libro del 2017 Kill all normies (Zero Books, tradotto in italiano dalla Luiss University Press in Contro la vostra realtà nel 2018), offrendo un’analisi di prim’ordine per un fenomeno specificatamente americano, ma che ha risvolti reali e richiami anche oltre l’Atlantico.

Ciò che ne emerge è che una moltitudine di questi soggetti emarginati, ritrovatisi su forum online di nicchia e imageboards anonime come 4chan o 8chan, abbia riversato le proprie energie nella creazione di una controcultura nerd dai tratti violenti, misogini, provocatori che ha poi preso le forme, prima forse inconsapevolmente ma dopo con crescete lucidità, di vere e proprie guerre culturali contro il pensiero liberale dominante. Sono le radici dell’Alt-Right, la destra alternativa di stampo nordamericano che ha fatto poi scuola in tutto il globo e che nel fenomeno Trump ha trovato la sua coronazione politica.

È un magma confuso fatto di meme, shitstorm, rancori contro le donne, fascinazioni per le svastiche e per la violenza estrema, gusto della provocazione e dello scandalo che, rodati e messi a sistema, assumono i contorni di una militanza cybernetica priva di organizzazione e guidata da una logica dello sciame, in cui tutti i suoi attori si muovono al contempo spontaneamente e coordinati attaccando di volta in volta obbiettivi diversi per poi disperdersi di nuovo nei meandri del web. Ora, è poco utile e riduttivo ripercorrerne qui la genealogia, più interessante è concentrarsi su alcuni nodi che emergono e che offrono importanti spunti di riflessione.

Perché e come, ad esempio, appassionati di videogame e ragazzini frustrati dal senso di inadeguatezza sessuale, complottisti paranoidi e suprematisti bianchi fatti e finiti, si ritrovano a condividere lo stesso humus e le stesse battaglie? I piani che si intrecciano qui sono differenti e corrono, come le scintille di un circuito elettrico, tra i poli dell’angoscia esistenziale e dell’insicurezza lavorativa, della psiche individuale ferita e del degradamento di classe collettivo, della crisi di senso e di quella economica.

Eccoli qui gli scarti umani della civiltà tardocapitalista occidentale che si scagliano furiosamente contro il senso comune e la cultura dominante, muovendosi da destra – estrema non di rado – perché è a sinistra che trovano il nemico.

C’è da fare un doveroso inciso qui: perché prendersela con la sinistra per tutto ciò? Perché dal boom economico prima e soprattutto dagli anni Ottanta della pace sociale in poi, la retorica e la cultura della classe dominante è stata invariabilmente di stampo liberalprogressista, poco importa se i governi succedutisi fossero o meno di sinistra: la produzione culturale delle accademie, l’informazione mediatica, la vita artistica e culturale sono state appannaggio di una borghesia che aveva fatto propri valori e immaginari protosocialisti (d)epurati dalla critica marxista, dalla volontà di trasformazione sociale, dalla visione di classe, da un universalismo concreto; formando così generazioni di privilegiati (perché permettersi l’accesso a certe istituzioni nel mondo anglosassone, ricordiamolo, significa quasi automaticamente far parte del ceto più abbiente) le cui preoccupazioni politiche hanno la forma del pietismo, del buon cuore sulla pelle degli altri, dell’esaltazione pedante e ossessiva della vittimità e della pretesa isterica di riconoscimento della propria individualità e dei propri microdrammi esistenziali, nonché di un rigido quando non feroce disprezzo per il volgo illetterato e intollerante.

E così, quando il baraccone delle democrazie occidentali è venuto giù con il 2008, l’assurdo è divenuto insopportabile, e mentre la falce della disoccupazione e della precarietà sistemica mieteva vittime senza posa e flagellava la vita della working class, negli atenei si organizzavano safe spaces dove colorare album, giocare con i gattini e bere cioccolata calda per tutelare la sensibilità degli studenti da seminari in cui si trattava la tematica dello stupro; frattanto nei tumblr degli attivisti idpol (delle identity politics) si faceva la conta di ogni genere sessuale potesse spuntare fuori e si mettevano alla gogna (con il risultato di distruggere reputazioni, carriere, vite reali) personaggi progressisti e non di rado assolutamente innocenti per qualche presunta mancanza all’etichetta (ad esempio reduci delle lotte dei diritti civili e degli omosessuali, tacciati di transfobia per non aver mai trattato quella tematica specifica), o ci si accusava a vicenda di appropriazione culturale per il fatto di praticare yoga o suonare il tamburo. Una sorta di autistica sindrome da indice del libro, per farla breve, in cui ogni elemento di confronto con la realtà è stato sbattuto fuori dalla porta e ogni cosa detta o scritta è passibile di manipolazione e interpretazione forzosa al fine di scovare il germe nascosto dell’oppressione delle minoranze, dell’odio di genere o del privilegio bianco, in un dibattito sterile tra cannibali altamente istruiti chiusi dentro una torre d’avorio. L’alba di quella che abbiamo finalmente conosciuto come Cancel culture.

E mentre nelle strade si aggiravano i superstiti della classe lavoratrice e del ceto medio la cui ascesa si era appena convertita in rovinosa caduta i figli di questo disastro, come un doppelganger dei rampolli dell’accademia coi loro tumblr lacrimosi, si ritrovavano sui forum a istigare (e condurre) adolescenti al suicidio e inneggiare a stragisti come Tarrant e Breivik, a discutere quali fossero le armi migliori per sparare sui propri compagni di classe o a cancellare da internet figure pubbliche a suon di violazioni della privacy e minacce seriali di stupro e di morte, o ancora a coniare il bizzarro neologismo Boogaloo per designare una ventura guerra civile che riparasse ogni torto.

Non solo, come rileva la Nagle, il fenomeno di queste guerre culturali combattute da sgangherate avanguardie dell’infosfera ha segnalato la morte di ogni empatia e sensibilità sociale, sostituendole con una mentalità cinica e psicotica; ma se nel caso dei tumblr dei liberali ha accompagnato l’irrigidimento conservativo di un ceto dominante che si è visto la propria posizione egemonica cigolare sempre più forte sotto i piedi, nel caso delle boards degli emarginati ha evidenziato la dimostrazione di una volontà di potenza e riscatto rapidamente captata dagli osservatori reazionari che ne hanno sfruttato e incrementato il potenziale per una riscossa politica che, al suo apice, ha portato alla presidenza degli Stati Uniti un personaggio grottesco e caricaturale come Donald Trump, mettendo in discussione tutti quegli assunti liberali dati per accettati una volta per tutte. Quelle scaramucce ridicole agli angoli del web hanno finito per riversarsi nella realtà spingendola oltre ogni black humour di sorta.

Ed oggi, a distanza di tre anni dal libro della Nagle, non possiamo certo parlare di una rivoluzione fascista del web, ma possiamo dare per assodato che questo genere di fenomeni non unici abbia contribuito ad uno spostamento a destra del discorso pubblico e della percezione sociale, che ha fatto tanto più presa quanto più si è fatta serrata la competizione per l’accesso alle risorse dentro le città. In questo senso possiamo leggere l’Alt-Right come la cartina di tornasole che riflette la mutazione antropologica di una società i cui appartenenti si consideravano dei garantiti, cui l’accesso al lavoro era concesso come diritto e il benessere come premio, e che si è scoperta garantita su nulla, spinta a mendicare il lavoro e tagliuzzare il proprio benessere sui risparmi familiari senza nemmeno la garanzia di poter sperare in un futuro migliore.

Proprio in questo collasso si è prosciugata anche la possibilità della mediazione e la sinistra, anche quella combattiva e realmente intenzionata a una trasformazione della società, ha perso via via terreno fino a diventare quasi l’ombra di se stessa, perché non ha tenuto il passo, rimasta ancorata a uno scenario ormai bello che morto, in cui ancora poteva funzionare la rivendicazione di diritti, la difesa delle conquiste sindacali, il riconoscimento della propria opposizione dentro una dialettica democratica. Ma è qualcosa che non esiste più, «non ci sono i soldi» come è stato ripetuto pedissequamente nei palazzi di governo, e di conseguenza non c’è alcun diritto, né tanto meno c’è più un consesso sociale in grado di mediare la conflittualità e assicurare il benessere collettivo.

Al contrario, di fronte al crollo delle certezze d’Occidente, la nuova destra, che ha dimostrato di ben conoscere il metodo gramsciano dell’egemonia, ha saputo rispondere calibrando una rinnovata radicalità del suo discorso, interpretando e plasmando in senso reazionario le angosce e le contraddizioni che soggiacciono a una guerra di tutti il cui spettro, intuito da tempo, ha iniziato a prendere oggi consistenze molto terrene.

Perché, che si spari o meno per la strada, che ci siano o no lupi solitari e squadroni della morte, è di tendenza alla guerra civile che si tratta nello scenario odierno; e se pure il termine evoca scenari somali o balcanici altro non è, come ci indica la sua stessa definizione, che l’esplodere ultimo di un conflitto che separa irrimediabilmente due o più corpi appartenenti allo stesso consesso storico nella competizione per chi debba prevalere nell’accesso e nel controllo delle risorse (materiali, ma anche simboliche). Ciò che prima era tenuto assieme ora si sfalda e confligge, ciò che per il vecchio Hobbes era il brutale stato di natura che emergeva nel rompersi della tenuta sociale, per le frange rivoluzionarie è sempre stato possibilità d’attacco e separazione definitiva tra amico e nemico: gli autoctoni puri contro gli stranieri invasori nella tradizione nazionalista, il proletariato produttivo contro la borghesia parassita nella lotta di classe.

Una dimensione, quindi, carica di violenza e tensione immanente che attraversa ogni stadio della vita, dalla macroeconomia alla psiche individuale, che non potrà che risolversi nella sua risoluzione attraverso un nuovo patto sociale e una nuova forma della civiltà, e di cui tanto gli incel della Nagle quanto gli alfieri della cancel culture non sono che dei primi impazziti epifenomeni.

Impazziti perché una dimensione simile non può più produrre una razionalità condivisa, un riconoscimento reciproco, una serenità di coscienza ma, producendo sofferenza psichica, fisica e materiale, produce follia.

Torna qui, ancora una volta, la lezione dimenticata di Fanon: tutta questa violenza subita, incamerata, respirata dai dominati, si accumula nei loro muscoli e nelle menti; produce soggetti assuefatti e alienati i cui movimenti sono sclerotizzati e inibiti mentre i sogni e le fantasie restano dinamici, ma di un dinamismo sanguinoso e incattivito. E questi stessi soggetti, che solo violenza conoscono, tornano a essere umani e a respirare pienamente quando oltre a subire cominciano ad agirla la violenza; quando nel ribaltamento della forza scoprono di poter essere attori e non spettatori della rovina, quando, cioè, si riappropriano di ciò che è la loro dimensione.

Questa galassia di emarginati, nella maniera bastarda che gli è propria, cercano di riappropriarsi della loro dimensione umana, sono pienamente inseriti nella dinamica della violenza di Fanon, la conoscono bene e la riversano sui propri simili facendone allo stesso tempo un inibitore e un apprendistato: per ognuno di loro che agisce altri mille e più restano inattivi alla scrivania, appagati in una perenne masturbazione necrofila, e quell’uno che agisce trova la determinazione e gli strumenti proprio in questo processo di riappropriazione della forza e quando esce in strada, armato e pronto a uccidere, sta certamente commettendo un’ignominia dato che si scaglia su degli innocenti, ma sta compiendo un gesto immensamente politico in cui impone la sua presenza e la sua verità a un contesto che altrimenti lo ignora e tiene a terra con disprezzo.

Non si vuole di certo fare un’apologia di qualche invasato in vena di stragi, anche perché c’è poco da simpatizzare con ammiratori di nazisti e serial killer o con millantatori di oscuri e mirabolanti complotti, ma levandosi di dosso quel vezzo borghese di liquidare come retrogrado o inetto tutto ciò che arrivi dal basso e non sia incasellabile nelle rigide maglie dell’ideologia, è necessario cogliere le tendenze in atto e le linee di forza che si delineano nel ventre di quello che potremmo definire il popolo. E una tendenza, una ricerca della forza, che piaccia o meno è rilevabile in queste soggettività allo sbando, nichiliste, individualiste e autodistruttive.

Tornando a Fanon, la follia di questi soggetti, fattasi prassi, esce via via dalla reazione psicotica ed entra nella sfera della presa di posizione, della soggettivazione politica, dell’incisione sulla realtà e della sua costruzione. Le psicosi vengono guarite dal (e nel) conflitto.

E se di stampo per lo più reazionario sono i loro enunciati, questo non è un assunto automatico e immodificabile, non vuol dire che ogni confuso in azione debba essere per forza e immancabilmente un proto-fascio.

Nel momento in cui si dia una frattura reale, si inneschi il moto di un movimento di liberazione che assuma su di sé dimensione collettiva e senso radicale in grado di rovesciare questa violenza sistemica, ecco che immancabilmente parte di queste figure bizzarre e grottesche vengono captate e inserite nel processo di rottura rivoluzionario.

Basti, a titolo di esempio recentissimo, guardare come i cosiddetti Boogaloo Boys, finora visti come un monolitico blocco di terroristi armati e di estrema destra, si siano ritrovati schierati tanto nelle milizie suprematiste quanto nei cortei e nelle iniziative Black Lives Matter, costituendone a volte parte non indifferente e in grado di produrre ulteriore polarizzazione.

Quando la paura cambia di campo e la forza non viene solo subita, qui si dischiude non solo la possibilità della rottura, ma dell’invesione della violenza sistemica in potenza creatrice e la linea di demarcazione tra amico e nemico assume un posizionamento verticale, contro chi di questo mondo ne è l’artefice.

È un ottimo libro quello della Nagle, fondamentale per comprendere certi fenomeni contemporanei in modo chiaro; ma per rendere utile questa comprensione è necessario passare oltre la denuncia o lo scandalo di certi elementi e cogliere il dato della possibilità.

Che qui come altrove, è come dire: solo la volontà di potenza rivitalizza il sangue nuovo nella metropoli, mai il pianto delle vittime.

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