Je ne suis pas leniniste, disse Lenin

Ho paura che una corona sulla sua testa
possa nascondere la sua fronte
così umana e geniale,
così vera. Sì, io temo
che processioni e mausolei,
con la regola fissa dell’ammirazione,
offuschino d’aciduli incensi
la semplicità di Lenin; io temo,
come si teme per la pupilla degli occhi,
ch’egli venga falsato
dalle soavi bellezze dell’ideale.
V. Majakovskij
Leggetelo questo libro di Guido Carpi, per diversi motivi. Uno – non il più importante, anche se crediamo non dispiaccia affatto all’autore, docente di letteratura russa presso l’Orientale di Napoli – perché è scritto bene, con rigore storico e chiarezza espositiva, con capacità di coinvolgere il lettore anche nei passaggi più complessi. Il motivo, quello più importante, è la figura al centro dell’opera: Lenin (Stilo editrice, 2020). In questo primo volume, che ripercorre il periodo della sua formazione politica fino alla vigilia della rivoluzione russa del 1905, Carpi contribuisce a rompere il silenzio su Vladimir Il’ič – il rivoluzionario maledetto a destra e a sinistra – senza cadere nella stucchevole agiografia o nella nefasta canonizzazione. Nelle pagine di questo libro lui e gli altri militanti rivoluzionari si incarnano nelle vicende e nei problemi della loro quotidianità e del loro tempo, non solo nella storia ma dentro le storie, grandi e piccole, talvolta comiche, talaltra avventurose. Quelle storie diventano così materia viva, e non icone museali da consegnare alla celebrazione o alla condanna. Tolta la «corona» dei residuali circolini marxisti-leninisti, possiamo così finalmente seguire la genialità del futuro dirigente bolscevico. Ci sembra quasi di sentirlo, Vladimiro, con il suo ghigno: no, non sono proprio leninista.
Corretto è anche il metodo seguito dall’autore: non si può considerare la biografia di un militante politico prescindendo dai suoi scritti, così come non si possono analizzare i suoi scritti decontestualizzandoli dalle esigenze tattiche e organizzative. Dunque, non è possibile leggere il Che fare? senza comprendere le lotte dell’organizzazione e per l’organizzazione di cui Lenin è protagonista. Non è possibile comprendere il suo stile di scrittura, il suo alternare «un tono d’ironia e di dileggio» a «un tono di affermazione energica, categorica» senza aver ben presenti i nemici e gli amici, contro e a cui si rivolge. I nemici strategici, i capitalisti, quelli che definisce semplicemente «loro»; i nemici tattici, contro cui conduce instancabili battaglie, quasi pedanti, spesso incomprensibili ai più, anche a chi gli sta coerentemente intorno.
In questo modo, tuttavia, Lenin ha concretamente affrontato la questione del militante rivoluzionario. Procedendo attraverso una continua selezione qualitativa, mai per sommatoria quantitativa. E non ha solo teorizzato normativamente come questo militante doveva essere: ne ha anticipato l’emergenza, dunque ha attivamente contribuito alla sua formazione. Perciò il sottotitolo di questo primo volume, La formazione di un rivoluzionario, può essere inteso in un doppio senso: quello più strettamente biografico, come fa l’autore, o quello più complessivo, in quanto processo di soggettivazione rivoluzionaria. Il dirigente bolscevico ha fatto ciò in un contesto particolare, storicamente determinato: quello della Russia zarista, della contraddizione tra «arretratezza» e spinte modernizzatrici», dell’organizzazione rivoluzionaria clandestina, dell’esilio e dei difficoltosi collegamenti con la madrepatria. Contesto che Carpi tratteggia con precisione, ricchezza di dettagli, esempi aneddotici.
Chi è questo nuovo militante, un intellettuale o un operaio? Un po’ l’uno e un po’ l’altro, né l’uno né l’altro, oltre e anche contro l’uno e l’altro: «per metà intelligènt e per metà operaio, è in grado di superare i limiti di entrambi i “cromosomi”: da una parte non è individualista e velleitario come il vecchio attivista narodnik di estrazione colta, e dall’altra ha una capacità di trasporre le contraddizioni economiche sul piano politico, che la massa del proletariato ancora non possiede». Perché, anche qui ha ragione Carpi, il leninismo è fin da subito questo: «a) non si dà teoria che non si traduca in pratica, né pratica che non produca teoria; b) i due termini diventano immediatamente complementari solo nella sfera di una specifica forma di organizzazione, e solo in essa acquistano concretezza e realtà».
Carpi affronta anche la complessa questione della coscienza che il rivoluzionario di professione deve portare dall’esterno, quasi sempre banalizzata tanto dai leninisti quanto dagli anti-leninisti. Tralasciamo la questione della coscienza, concentriamoci sull’esterno. Non va concepito, sostiene l’autore, «come una setta di detentori della dottrina impegnati in un’opera pedagogica presso gli operai, ma anche – e soprattutto – come esterno rispetto ai rapporti economici immediati […]: è la capacità di ricollegare nella pratica particolare e generale, tattica e strategia, problemi economici e problemi politici. Si tratta di un orizzonte esterno che l’operaio stesso si conquista attraverso una serie di dure lotte inizialmente solo economiche […] arrivando a scorgere oltre di esse tutto un mondo infinitamente complesso, per poi imparare a comprenderlo e dominarlo nella dimensione della politica». Qui dentro, in un rapporto incessante tra spontaneità e organizzazione, quella forza esterna diventa interna alla composizione di classe, portandola contro e oltre se stessa. Qui l’avanguardia si trasforma nella stessa misura in cui trasforma la composizione di classe.
In questo percorso, la critica radicale condotta da Lenin ai populisti, al supposto «eccezionalismo» del sistema socio-economico russo e alla conseguente esaltazione romantica dell’obščina, fondata su un popolo astratto e cieca di fronte alla sua potenziale separazione in classi contrapposte, non gli impedisce di recuperare e rielaborare alcuni elementi della tradizione rivoluzionaria dei naròdniki nella futura prassi bolscevica: la possibilità di saltare gli stadi dello sviluppo capitalistico, perno centrale della teleologia marxista, e la questione della volontà, che tra il 1905 e 1917 balzerà sulle gambe del materialismo storico. A saltare è cioè un corpo collettivo, mai l’ideologia individuale. «Col tempo, peraltro, i populisti perdono sempre più terreno in quanto, cresciuti nel culto del sacrificio eroico e della piena abnegazione individuale, capiscono poco le rivendicazioni “materiali” dell’operaio-massa: “Sono brava gente, ma troppo chiacchieroni”, – dicono i populisti del proletariato di fabbrica, con una punta di sarcasmo. – “Appena guadagnato un rublo ne vogliono tre”». Il materialismo leniniano racchiude in sé la «partiticità», l’irriducibile parzialità del punto di vista. Qui Carpi, dopo aver liquidato il Lenin leninista, scopre un Lenin operaista.
Allora, come non è lineare la storia, non può essere lineare neppure il processo di organizzazione rivoluzionaria. In questa decisiva ricerca, se bisogna rompere con i populisti a lui coevi, tra l’altro indegni eredi della grande tradizione sovversiva dei naròdniki, Lenin capisce ben presto di non poter rivolgere lo sguardo a Occidente, in primis alla socialdemocrazia tedesca, come facevano gli altri socialdemocratici russi, a cominciare dai menscevichi. Anche qui bisogna saltare, osare, scommettere. La retta è nella strategia, il percorso non può che essere una misteriosa curva. Delle battute d’arresto, delle interruzioni, dei faticosi passi avanti e dei rapidi passi indietro, delle ricchezze da valorizzare e dei limiti da superare, anche di questo ci parla utilmente e senza eccessivi timori Carpi, e siamo sicuri continuerà a parlarcene nei sequel.
Chiuso il libro, auspichiamo che – se è un compagno – il lettore non si limiti ad apprezzare il bel racconto di un tempo lontano. Invitiamo, invece, a farci interrogare da questo Lenin ritrovato. Non per compiacerci di una guida ideologica, o per riprodurne farsescamente le risposte: questo sì è il peggior tradimento dell’insegnamento leniniano. Piuttosto, identificare lì le domande da porci, quelle centrali. Siamo noi oggi in grado di rimetterci alla ricerca di un ignoto possibile, abbandonando la riproduzione di un noto inutile? Eccolo Vladimiro scrutarci per metterci di fronte alla questione decisiva. Cosa volete fare nella vostra vita sul medio periodo, diciamo nei prossimi trent’anni? Volete stare nelle vostre microcomunità, nei vostri gruppetti residuali, a vendere birre e stampare felpe che urlano di una rivoluzione che concretamente non fate niente per pensare e agire, andare a rituali presidi come si va a timbrare il cartellino, fingervi arrabbiati con un mondo di cui tutto sommato siete soddisfatti? Volete continuare a lamentarvi su facebook del presente che fa schifo e a masturbarvi sui video di un passato che non tornerà mai più e in cui, se foste stati presente, vi sareste comunque lamentati pur di non fare niente? E tutto questo finché non avrete trovato un lavoro, un fidanzato o una fidanzata, un cane che vi tenga compagnia e che vi permetta di fare i reduci di lotte che non avete mai realmente combattuto, a cominciare dalla lotta con voi stessi? Oppure? Ecco, oppure. Partiamo da qui. Oppure iniziamo a prendere sul serio la possibilità di essere esuli, a conquistarcela, a divenire esuli. Perché in fondo i militanti rivoluzionari sono sempre esuli dentro e contro il proprio tempo. Un tempo che non hanno scelto di vivere, però un tempo che hanno scelto di rovesciare.