«Ieri, e anche così non sarà presto abbastanza». Black Fire contro una storia delle «reazioni»

«Ieri, e anche così non sarà presto abbastanza». Black Fire contro una storia delle «reazioni»

Assata
Recensione di Arlena Buelli a «Black Fire» a cura di Anna Curcio

Black Fire è una raccolta di brevi traduzioni, curata da Anna Curcio per la nuova collana Input di DeriveApprodi. Questa è concepita come un percorso di lettura non-lineare, articolato attraverso alcuni contributi teorici e politici di militanti e intellettuali afroamericani e afrocaraibici. La selezione, che copre un arco temporale di quasi un secolo, vuole rispondere però a una domanda molto attuale: di quali correttivi disponiamo, per riconsiderare criticamente i bias delle rappresentazioni mediatiche e del dibattito militante sulle proteste antirazziste del 2020?

Ad essere posta come problema, su tutte, è quella che la curatrice descrive come una diffusa tendenza a presentare le rivolte – iniziate nella città di Minneapolis in seguito all’esecuzione di George Floyd (25 maggio 2020) e diffusesi, nelle settimane e nei mesi seguenti, in tutti gli Stati Uniti – «come epifenomeno, come mera reazione»: al tempo stesso, un prodotto emotivo e un fenomeno conservativo, come indicato dal termine stesso. Di questi eventi si propone qui una lettura diversa, orientata a cogliere ed enfatizzare la «profondità storica» di una «lunga tradizione di rivolta». 

I primi strumenti per effettuare questa rilettura, Curcio li va a cercare nella storiografia afroamericana sul sistema schiavista di piantagione, che nella prima metà del Novecento ha irreversibilmente demistificato la narrazione condivisa dall’America bianca sul “Vecchio Sud”. Per decenni, quest’ultima aveva infatti riproposto il ritratto apologetico e romantico di una perduta “armonia razziale” o accordato, nella migliore delle ipotesi, a schiavi e schiave uno status di vittime passive, colpevoli di non essersi opposte alla schiavitù con la forza del loro numero.

Nel momento in cui sono i loro e le loro discendenti a riscriverne la storia, questa cambia di tono: riemerge un continuum di violentissime sollevazioni, rivoluzioni – come nel caso della nascita della repubblica nera di Haiti, raccontata dall’intellettuale trinidadiano C.L.R. James –, “scioperi generali” – così come W.E.B. Du Bois aveva messo a registro la decisiva partecipazione nera alla Guerra civile americana – e creazione di comunità autogestite – ovvero quelle dei “cimarroni”, schiavi fuggiaschi costantemente impegnati in attività di liberazione e saccheggio contro le vicine piantagioni.

Al centro dei nuovi resoconti sta un apprezzamento della dimensione quotidiana della resistenza all’oppressione e allo sfruttamento razzista, là dove i processi di soggettivazione che a questi ineluttabilmente si dovrebbero accompagnare (sic!) deragliano: desistenza dal lavoro, sabotaggi, furti, ma anche canti e balli, manifestazioni dissacranti di gioia, fughe e suicidi, forme di ribellione a lungo catalogate come prepolitiche, individualistiche, infantili o difensive. Si tratta invece, nelle parole dello storico George P. Rawick, di modalità in cui uomini e donne in schiavitù hanno impugnato la «libertà e possibilità di appropriarsi del meglio di quel che è disponibile in quel luogo e in quel tempo determinato», conducendo la lotta contro il sistema schiavista «in modi scelti da loro stessi».

La storiografia e la ricca tradizione autobiografica che hanno raccontato questi liberi atti di ribellione «autotrasformatrice» hanno apparentemente rinnovato la loro eloquenza nella primavera di quest’anno, quando il dibattito pubblico si è raccolto concitatamente intorno alla questione della violenza insurrezionale. Ad oggetto, da una parte la (non) legittimità di espropri, “devastazioni” e roghi di caserme – non l’attualizzazione di una violenza politica organizzata e metodica, ma di «un’insubordinazione sempre più generalizzata delle comunità nere e latinos contro l’ordine sociale razzializzato» (Alvaro Reyes) – e dall’altra l’eziologia di queste azioni, fino alle strumentalizzazioni ufficiali delle hoax sulle infiltrazioni suprematiste fra i “rioters cattivi” [https://thenewinquiry.com/blog/warning/].

Altri spunti, attraverso cui riflettere sugli eventi degli ultimi mesi, sono suggeriti dagli sviluppi novecenteschi della tradizione radicale nera, di cui la curatrice opera una sintesi parziale nel secondo «blocco temporale» del volume. A ricorrere negli interventi raccolti sono, fra tutte, la questione urbana e quella del ghetto, casa e terreno d’azione dei movimenti radicali afroamericani fra gli anni Sessanta e Settanta. Attraverso discorsi ed estratti di saggistica, diventa possibile abbracciare una bigger picture: dalla segregazione abitativa post-Great Migration e i tumulti razzisti dei primi decenni del Novecento, passando per la stagione della guerrilla 1964-1972 (periodo a tutti gli effetti rivoluzionario, nel quale esplodono oltre 300 rivolte urbane), fino alle wars on drugs e agli effetti odierni dei processi di gentrification e finanziarizzazione. Sul suo sfondo, la costante della brutalità poliziesca, il difficile censimento dei suoi esiti genocidi e il contemporaneo intreccio con una colossale questione carceraria, denunciata da alcune (come l’intellettuale afroamericana Angela Davis) come “complesso carcero-industriale”.

Se nel capitolo di Black Power (1967) di Stokely Carmichael e Charles V. Hamilton è utilizzata per la prima volta la nozione di “razzismo istituzionalizzato”, anche il brano firmato dalla Black Panther Eldridge Cleaver si concentra sul rapporto fra “capitalismo razziale” e forze di polizia. Particolarmente attuali suonano qui i suoi appelli (dal lontano 1965, e dalle mura del carcere di Folsom) agli «utopisti» che «parlano del giorno in cui non ci sarà polizia», ricordando che a dover essere messa in discussione è in primo luogo «l’inviolabilità che circonda la proprietà privata», laddove questa viene scopertamente anteposta alla vita degli afroamericani – in rivolta, a Watts, per l’«ennesima dimostrazione che loro sono un popolo incline all’incidente», incline a perdere la vita in «incidenti che avvengono di proposito», per futili e venali motivi.

Fra i problemi toccati, ci sono anche quelli legati alla dimensione elettorale e a quella della rappresentanza; il rapporto fra strada e urne restava e resta, infatti, un interrogativo aperto per l’Afroamerica in rivolta, contestato quanto ancora rilevante per alcuni attori, come emerge dai contributi conclusivi di Reyes e di Asad Haider. Ora, nel momento in cui le contestatissime elezioni di una settimana fa sembrano esaurire presente e futuro, vale la pena ricordare che il loro incombere non ha rappresentato il cuore delle rivendicazioni sollevate nella primavera 2020.

Contro il mito dell’eccezionalismo americano, che continua a far sentire la sua presenza autoassolutoria e circostanziante pure attraverso i media nostrani, viene invece in soccorso la prospettiva internazionalista dell’attivismo radicale afroamericano, impensabile al di fuori del suo intreccio storico con i movimenti anticoloniali e della sua vocazione panafricanista. Mentre una critica sistematica dell’imperialismo statunitense tiene insieme le voci della raccolta, nel discorso più celebre contenuto in quest’ultima (“La scheda o il fucile”, 1964), Malcolm X dichiara «io non sono americano», bensì parte di una maggioranza globale oppressa dalla stessa ipocrisia democratica.

Per concludere, va segnalata la presenza importante di un articolo del politologo e militante afroamericano Cedric J. Robinson, laddove l’assenza di traduzioni italiane del suo lavoro continua a farsi notare. Oggi, infatti, risulterebbe impensabile ragionare sui temi di cui sopra senza i suoi concetti di “race capitalism” e “black radical tradition” – quest’ultimo, utilissimo di fronte a rivolte spontanee e dalla composizione illeggibile, in cui la solidarietà, nella medesimezza dell’intollerabile, sembra eccedere la dimensione di classe. Tuttavia, prima ancora di rileggere Black Marxism (1984), potrebbe valere la pena di recuperare un suo testo un po’ meno noto, e più datato.

Nella sua tesi di dottorato (discussa nel 1974, pubblicata sei anni e molte controversie dopo), Robinson aveva infatti ragionato sulla crisi dell’ordine sociale occidentale nei termini delle mitologie politiche legate al suo mantenimento; in particolare, del paradigma mitologico della leadership, «arbitrariamente posto» ad «assurdo e irrazionale» fondamento di questo. Polemica tanto nei confronti delle teorie liberali del cambiamento sociale quanto di quelle marxiste, questa tesi sembra un buon preambolo alle denunce della stanchezza del «mito della leadership nera», sollevate in questi mesi da voci di prima linea nella galassia di Black Lives Matter [https://illwilleditions.com/on-the-black-leadership-and-other-white-myths/] in risposta a imputazioni delegittimanti a proposito di una sua assenza, o della compromettente mancanza un apparato organizzativo centralizzato, delegato a tradurre “la rabbia in cambiamento” e a estrapolarne un progetto costituente.

Scritta al tramonto della stagione di lotte antirazziste negli anni Sessanta e Settanta, enfatizza infatti alcuni aspetti che non si ripresentano nelle proteste odierne, il superamento dei quali contribuisce forse alla loro novità ed efficacia. In particolare, la centralità militaresca e machista di alcune figure di riferimento (denunciata già da attiviste come Assata Shakur), l’endemicità di autoproclami di «avanguardia» e progetti (dal sapore inveteratamente leninista) di «formazione di una leva di dirigenti» e di «presa del potere» – espliciti in questi termini, ad esempio, nel Programma generale della League of Revolutionary Black Workers del 1971. Se queste dimensioni verticistiche erano state febbrilmente mediatizzate dalla stampa bianca e dagli organismi di propaganda radicale, la stessa intelligence americana non aveva tardato a realizzare che, per smantellare organizzazioni come il Black Panther Party, dotate di un Presidente (Bobby Seale), di un Presidente onorario (Carmichael) e, soprattutto, di un Ministro della Difesa (Huey P. Newton), bastava deporli: così il programma COINTELPRO, a conduzione federale, li arresta, li costringe all’esilio e li ammazza.

Oggi, sembra forse meno attrattiva una strategia di lotta che mira ad imitare simmetricamente le configurazioni di autorità e potere proprie dell’esistente al quale si contrappone: la tradizione radicale nera, fra le tante cose, ci suggerisce che il rischio è quello di non sovvertirlo, né tantomeno di delegittimarlo – a maggior ragione, se il nodo sono le soggettività e i processi di soggettivazione

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