Ho letto «La valle oscura» e adesso odio i trentenni

Le velleità ti aiutano a campare
Quando mancano sei giorni all’analista
Ed è tutto così facile o così difficile
Nel posto letto che non paghi per intero
(Le Velleità – I Cani)
«Perché vuoi lavorare con noi?»: ricordo ancora il senso di spiazzamento di fronte a una domanda così banale, e la tentazione di prendermi a pugni in testa per non aver pensato a una risposta brillante e convincente – o perlomeno a una risposta che non fosse «perché ho sempre avuto una grande passione per il non morire di fame». Correva il 2018, mi ero da poco laureata – per la seconda volta – in una materia assolutamente inutile ma che mi appassionava, con una tesi di cui andavo estremamente fiera, che mi era costata mesi di duro lavoro e di spese per portare avanti in modo decente una ricerca etnografica, e che recava, in appendice, le scuse al posto dei ringraziamenti. Dopo un vano tentativo di strappare un assegno di dottorato, avevo passato mesi nelle agenzie interinali, tra colloqui di orientamento dalle venature paternaliste che mi causavano un profondo e superbo fastidio («Davvero con due lauree con il massimo dei voti posso solo fare ’sti lavori di merda?») misto a un’angoscia strisciante dettata dalla recondita consapevolezza che quel gioco da ragazzetta choosy non poteva durare – o almeno, poteva durare solo finché mamma e papà me lo avrebbero concesso, finanziando a fondo perduto il mio desiderio di cambiare il mondo e trovare una posizione che veramente mi facesse sentire realizzata. E in effetti, siccome mio padre è thatcheriano, dopo soli due mesi ero finita lì, in una di quelle aziende (un multisala, per la precisione) che hanno un’apposita pagina per il caricamento del curriculum, la quale, a dispetto del pimpante «lavora con noi!», sembra gridare da ogni angolo «non ce ne frega un cazzo di te». Il colloquio era stato un’esperienza estraniante. Tre step, per un totale di otto ore: prove individuali e collettive in cui ad essere testata era la nostra capacità di mediazione, di essere leader, di saper disinnescare i conflitti, di essere pronti a abbracciare non un lavoro, ma un’esperienza.
La mia personalissima e breve carriera come friggitrice di popcorn – durata appena due mesi: al colloquio per il rinnovo del contratto il manager sembrò sollevato nel sentirmi dire che quel posto non faceva per me; evidentemente era l’unica cosa su cui io e lui saremmo mai stati d’accordo – ha ben poco a che vedere, almeno in apparenza, con quella descritta da Anna Wiener ne La valle oscura (Adelphi, 2020): un ritratto orrifico e dolorosamente reale, a tratti inquietante, della Silicon Valley, vissuto in prima persona dall’autrice, che nel fiore dei suoi vent’anni, dopo una laurea in sociologia, decide di abbandonare lo stantio ambiente editoriale, fatto di stage sottopagati e un senso incombente di stasi e fallimento, alla volta del ben più redditizio e all’epoca nascente astro del tech. Un mondo sicuramente ben più complesso, inquietante e dalle implicazioni più gravose del mio multisala: un mondo in cui i magnati con la felpa, ragazzini di vent’anni o poco più, fagocitano dati, risorse, città, identità, mercato del lavoro, bar, ristoranti, mentre sfrecciano agili sui loro mini-skateboard attraverso uffici mastodontici – dotati di termoscanner corporei che permettono di sapere in ogni momento dove si trova un collega (di cui però tendenzialmente non conoscono il nome, ma solo il nickname) – sorseggiando kombucha e sgranocchiando barrette energetiche. Personalità maschiliste, dotate di un narcisismo simil-divino dispiegato nella creazione di città-giocattolo, quando la città vera è ormai consumata dalle diseguaglianze e non ha più terreno da rosicchiare, quartieri da trasformare e rendere inaccessibili, ex fabbriche da riconvertire in lussuosi uffici in stile industriale. Potremmo guardare il libro di Anna Wiener da questo punto di vista: quello dell’etica del mondo del tech, un mondo in cui la privacy è diretta emanazione della liberty – l’unica libertà possibile, quella individualista che ci rende liberi di consumare e di generare profitto nel momento stesso in cui ci concede la libertà di scegliere se tornare a casa dal lavoro con i mezzi o con un Uber, se mangiare thailandese o messicano, se comprare un appartamento in un quartiere piuttosto che un altro. Ma chi ha letto il libro con questa lente lo avrà sicuramente trovato noioso, o, come diceva qualcuno, «preciso», «non emotivo». E in effetti l’incedere narrativo di Anna Wiener è talmente minuzioso, accurato, talmente privo di colpi di scena (come forse si addice alle storie vere) da far venire la gastrite. Però è proprio in quel senso di frustrazione che si annida il vero senso – o forse l’utilità – de La valle oscura: il molle bisogno di senso e di riconoscimento che accompagna e orienta ogni scellerata decisione di Anna, anche quando si tratti, consapevolmente, di «assicurarsi un posto dalla parte sbagliata della barricata» («la parte che sta già vincendo»), è un bisogno che lega lei (e il suo stipendio a cinque zeri) alla macchiettistica esperienza italiana, mia e dei miei coetanei.
Mia madre spesso chiedeva in tono gentile come mai a venticinque anni fossi ancora un’assistente, che faceva il caffè e prendeva i cappotti. Non domandava una spiegazione di tipo strutturale.
Io avevo desideri piuttosto generici. Volevo trovare il mio posto nel mondo, ed essere indipendente, utile e brava. Volevo guadagnare, perché volevo sentirmi affermata, apprezzata e sicura di me. Volevo che gli altri mi prendessero sul serio e, soprattutto, che nessuno si preoccupasse per me.
Mia madre mi chiedeva spesso (in tono meno gentile di quella di Anna, credo) perché a ventisei anni stessi ancora facendo i popcorn indossando un costume gonfiabile da T-Rex («perché è uscito Jurassic Park, mamma» non era la risposta che si aspettava, suppongo) dopo aver speso quindicimila-e-passa euro in tasse universitarie e spese da fuorisede. Mi chiedeva dei miei obiettivi, dei miei desideri, e sono quasi certa che nel mio «ma io non lo so quali sono i miei obiettivi» era celato qualcosa di molto simile a quel «volevo essere indipendente, utile e brava». In poche parole, quello che rende potenzialmente «generazionale» e straordinario il libro di Anna Wiener è il suo mettere in luce, in prima persona e senza veli, la strisciante guerra di una parte della nostra generazione per una risorsa sempre più rara, e che invece ci avevano promesso: il riconoscimento. Bombardati fin da piccoli con la retorica dei nostri genitori (emblema di una generazione che, bene o male, è riuscita a godere di un certo grado di mobilità sociale), siamo cresciuti nella convinzione che il nostro impegno, la nostra intelligenza, la nostra unicità meritassero un adeguato compenso (più psicologico che monetario, essendo ormai avvezzi ai «rimborsi spesa» a due zeri oppure a espressioni come «la tua remunerazione è la formazione che stai ricevendo»). Che la cultura, lo studio e la formazione fossero il nostro lasciapassare per un posto nel mondo, perché quel segmento colto e intellettualizzato del ceto medio che ci ha dato i natali considerava – e forse considera tutt’ora – la «conoscenza» come sinonimo di potere e ascesa sociale. E invece dopo svariate lauree, master strapagati e stage non retribuiti abbiamo scoperto, a nostre spese (sia psicologiche che monetarie), che il mercato non se ne fa un cazzo delle brillanti menti umaniste – al massimo possiamo aspirare a delle promettenti carriere fatte di inglesismi grotteschi (spacciare delle mansioni di segreteria per front office management è un po’ come definire creative food and beverage junior consultant una che fa i popcorn vestita da T-Rex).
Fin qui, nulla di nuovo: negli ultimi anni, in tanti si sono prodigati in articolate (e, a volte, valide) analisi su questa crisi – forse prima di senso, che produttiva – del ceto medio riflessivo. Il punto, però, è che tutte quelle analisi sono state condotte secondo un duplice (ma speculare) e problematico metodo: da un lato quello della sferzante ironia e della lucidità analitica, che però non rompe mai veramente fino in fondo con quella stessa feticizzazione della cultura che tenta di mettere a critica - finendo forse a tratti per riabilitare lei e se stessi, in qualità di rappresentanti di un ceto medio riflessivo un po’ grottesco e decadente; dall’altro quello - ben più stucchevole - della vittimità, che dipinge orde di trentenni depressi come succubi di un mondo che li ha ingiustamente respinti, e che finisce per riabilitare la lettura della snowflake generation, fatta di splendidi individui incompresi che, in fondo, vogliono riparare il mondo per ottenere quel riconoscimento (sempre e rigorosamente individuale) che gli è stato negato. Come se, in fondo, guardando ai rapporti di forza attraverso una lente «morale», sia più desiderabile un mondo in cui a dominare e sfruttare i rapporti di potere sono degli snob acculturati con le borse di tela piuttosto che dei nerd miliardari.
Dal canto suo, invece, Anna Wiener dimostra di avere, perlomeno, l’onestà intellettuale di non dipingersi mai come «vittima di un sistema ingiusto», ma come soggettività perfettamente incastonata in quei meccanismi di riconoscimento, di «senso di proprietà e appartenenza» – «quella facile identità, quel pervasivo sentimento di affiliazione» – che hanno informato tutta la nostra generazione. In altre parole, Anna non è mai vittima, ma parte del problema: un soggetto dotato di capacità di agire e che prende coscientemente delle decisioni. Con sensi di colpa, certamente; con un continuo conflitto interiore, non c’è dubbio – ma di tutto questo finisce a parlarne con un analista. E si sa, non è stato Freud a parlare della dialettica servo-padrone.
Proprio dentro questa dialettica, d’altronde, si colloca uno dei nodi più problematici e interessanti di tutto il libro: quello dei rapporti di genere. Giova qui fare una premessa: il mondo dipinto ne La valle oscura è oggettivamente caratterizzato da un sessismo esplicito – ma, in tutta onestà, non c’è bisogno di arrivare nella Silicon Valley per sperimentare molestie sul lavoro e divari economici; il rischio, altrimenti, è quello di relegare la questione di genere, ancora una volta, non a un’analisi strutturale ma piuttosto a un livello «morale» che divide i buoni dai cattivi. Ma, comunque sia, quello che più colpisce nel libro di Wiener è il suo disperato bisogno, sul posto di lavoro, di essere «la fidanzata, la sorella e la madre di tutti» – un bisogno chiaramente legato a quella stessa ricerca di consenso e approvazione. È un nodo importante, perché dimostra come tutto quell’aspetto «riproduttivo» – le doti relazionali, l’intelligenza emotiva, il prendersi cura degli altri – che costituisce, in alcuni frangenti, motivo di discriminazione, è al tempo stesso messo a valore da Anna stessa all’interno delle gerarchie di potere, per accaparrarsi una posizione o una ricompensa (che sia in termini economici o di riconoscimento) sul posto di lavoro. Nelle parole di Wiener:
Quando alcuni ingegneri di supporto tecnico cominciarono a dare segni di esaurimento, suggerii all’amministratore delegato che complimentarsi con loro per il lavoro fatto poteva essere di grande aiuto. Sarebbe stata un’efficace iniezione di autostima, dissi. Un pizzico di rinforzo positivo, inoltre, non poteva nuocere alla produttività - forse, anzi, se ne sarebbero addirittura visti gli effetti nelle metriche di successo individuali, che presentavo all’azienda durante le riunioni del martedì.
Il lavoro dei colleghi viene definito «strategia», mentre il suo è «considerato amore», ma le frutta una promozione – per quanto con meno quote societarie rispetto agli uomini. E proprio in questa contraddizione si situa la problematicità del rapporto tra identità (e la sua ricerca) e questione di genere: quando Anna Wiener, esasperata dalle molestie e dalle disparità di trattamento rispetto al sesso maschile, si ritrova a desiderare «una Silicon Valley matriarcale», «una Silicon Valley separatista-femminista», dimostra come la questione di genere unita a una ricerca di identità e riconoscimento senza un’effettiva messa in discussione delle «regole del gioco» – in altre parole, rimanendo sempre all’interno della dialettica tra dominata e dominante – sfoci in una richiesta indiscussa di potere. Anche nel momento in cui Anna entra a far parte del diversity council della sua azienda – un «consiglio» incaricato di discutere e affrontare i problemi di integrazione all’interno della startup, capeggiato dalla diversity trainer, una «latinoamericana spumeggiante e schietta che si era specializzata in una delle migliori business school dopo aver frequentato una rinomata università privata di Palo Alto» – lo fa sì, esternando esplicitamente il suo «desiderio di essere la cocca della maestra», «così profondamente radicato da essere quasi patologico» (torna quindi, ancora una volta, il tema del riconoscimento). Ma lo fa anche perché far leggere Feminism is for everybody a una schiera di uomini che annuisce con aria solenne «sembrava un lavoro importante, intellettualmente impegnato»; e Anna ammette: «non riuscivo a credere che venissi pagata per farlo». Vediamo qua, quindi, i «quattordici anni di formazione umanistica e modelli aspirazionali altoborghesi» entrare in relazione con una serie di complessi meccanismi – dal già citato bisogno di identità fino all’introiettamento (e poi alla proiezione sul mondo esterno) di determinate aspettative.
Aspettative che, possiamo dirlo tranquillamente, agiscono in modo più peculiare sulle donne fin dalla più tenera età, tanto nel mondo della formazione quanto nell’ambito familiare: una studentessa con voti bassi o un carattere più irruento fa sempre più scalpore di un «maschietto»; a noi tocca essere, appunto, «brave», «diligenti», «responsabili» (e lo dice una che è sempre stata quella «intelligente che non si applica»). Che questa sia una postura che dimostra il sessismo radicato nelle istituzioni del nostro paese è una constatazione dell’ovvio; molto più interessante è osservare cosa succede quando la discriminazione di genere viene ricondotta proprio al mancato riconoscimento di queste doti, che vengono quindi messe al lavoro per riprendersi quella mancata valorizzazione individuale. Che è un meccanismo che va molto oltre la banale «sussunzione» (termine francamente ormai abusato, spesso peraltro senza alcuna cognizione di causa) delle istanze femministe da parte del capitale, perché interroga direttamente l’irrisolto nodo del potere e dell’autorità: c’è ancora, in altre parole, una ambivalenza aperta tra la richiesta di riconoscimento, innestata sulla questione di genere – sporca e ambigua, non c’è dubbio – e la sua automatica trasformazione in un’acritica richiesta di potere?
L’esperienza narrata da Wiener ci dimostra infatti come il bisogno di identità, forgiato nelle promessa di un progresso lineare della modernità capitalistica, si incarni in quell’ideologia dell’autosfruttamento, che, in nome di una ricompensa già tradita nei suoi stessi presupposti, porta Anna (e come lei, tantissimi della nostra generazione) a piangere nel bagno dell’ufficio e a permettere agli altri «di farla sentire una merda», ma al tempo stesso ad agognare disperatamente quel mondo promesso e mai ottenuto, incarnato da «persone che manifestavano e soddisfacevano con tanta facilità i loro desideri». Il nodo allora, il punto di rottura, sembra essere in quel «bisogno di identità», e non invece nelle spiacevoli condizioni di infelicità a cui la nostra generazione sembra essere condannata e che viene spesso decantata dagli intellettuali.
Che sia ben chiaro: l’identità di cui parliamo è lontana anni luce dai nostri paradigmi. È un’identità individualista, competitiva, che non fa del riconoscimento un mero palliativo psicologico, ma vero e proprio dispositivo di potere; ma dopotutto, l’identità è quasi sempre il motore centrale di qualunque lotta – il problema, semmai, sorge quando non si rompe in pieno anche con l’identità stessa per cui si è lottato. E forse noi trentenni siamo ormai una generazione da buttar via, unici veri nichilisti della nostra epoca, destinati a mangiare sushi che davvero non potremmo permetterci, tra una serie tv e l’altra, con mamma che ci chiama per dirci ancora una volta di provare quel concorso perché «il posto da statale ti salva la vita». Ma il pessimismo deterministico preferiamo lasciarlo ai tifosi da fine della storia, non per un fideistico ottimismo – che oltre a essere naïf si è dimostrato, in quest’ultimo anno pandemico, ampiamente fuori dall’orizzonte del raziocinio - ma perché il compito dei militanti (sì, sì, anche quelli trentenni) non è guardare il bicchiere e decidere se sia mezzo pieno o mezzo vuoto, ma rovesciarlo. E quindi cominciamo a chiederci: quel campo, quell’ambivalenza – e dunque il suo potenziale di rottura - che connotava il desiderio della nostra generazione di ottenere un qualche riconoscimento si è definitivamente esaurito? E soprattutto, che forma prenderanno le aspettative di una generazione successiva alla nostra, su cui il Capitale investirà sempre più in termini di formazione tecnica e specializzata, relegando la formazione umanistica e la «cultura» a un vezzo elitario, più remunerativo in termini di riproduzione di stili-di-vita-merce che non strettamente produttivi?
Lasciamo perdere quelli che vogliono riparare il mondo, così come quelli che lo contemplano con un ghigno post-ironico: a noi, purtroppo o per fortuna, piace vederlo bruciare.