Esiste una crisi dell’antirazzismo?

Decolonizzare l’antirazzismo è un testo breve ma denso, che impone una lettura lenta, pena l’impossibilità di una metabolizzazione efficace. Non si tratta di un manuale agile pensato per i “non addetti”, quanto piuttosto di un lavoro di approfondimento tematico, oltre che una presa di posizione all’interno della teoria antirazzista. Il testo si compone di un’introduzione, a firma del curatore Tommaso Palmi, e di sei contributi di critica al sistema razziale: Miguel Mellino, Anna Curcio, Jamila Mascat, Alvise Sbraccia, Dhanveer Singh Brar e Houria Bouteldja.
L’introduzione di Palmi chiama in causa, ancora una volta, lo sfortunato Marx dei dispacci del ’53 per il New York Daily Tribune. Non si tratta dello stesso articolo che costò al nostro l’impietosa condanna di Edward Said, The British Rule in India, ma di un pezzo che lo seguì di pochi mesi, ovvero The Future Results of British Rule in India. Nell’estratto leggiamo un Marx etnocentrico, francamente razzista, particolarmente imbevuto di un internazionalismo storicista progressivo e lineare. Non il migliore dei nostri Marx e non lo stesso Marx dello scambio con Vera Zasulich, dove postula per la Russia la possibilità di una transizione dell’obščina – un fondo comunitario – da un comunismo primitivo ad un socialismo compiuto senza una fase di accumulazione originaria e spossessamento capitalistico. Questo Marx, tuttavia, serve a Palmi per parlare di qualcosa che difficilmente riceverebbe altrettanta attenzione non fosse espresso dal campione delle sinistre globali, ed è la stessa manovra teorica operata da Said. Utilizzare Marx è infatti un modo per “liberare” il razzismo da un confinamento discorsivo che lo vorrebbe appannaggio delle destre e riposizionarlo nel cuore della contemporaneità. Questo movimento di fuoriuscita è di fatto doppio: è uscita dal dominio delle destre e uscita dalla sfera della moralità. Come evidenziato da numerosi teorici di critical race studies, la tendenza a identificare il razzismo unicamente quando connesso ad atti di violenza episodica portati avanti da esponenti dell’estrema destra risponde ad una pluralità di esigenze. Innanzitutto, è funzionale all’occultamento di tutte quelle forme razzismo – sistemiche, strutturali, quotidiane – con le quali fare i conti è molto più complesso rispetto al giudicare e condannare l’atto di un singolo. In secondo luogo, permette l’assoluzione dall’accusa (morale) di razzismo di chi non si riconosce nell’ideologia nazifascista. Infine, permette contemporaneamente di sminuire la portata del razzismo – considerato liminale ed anacronistico – e di relegarlo nella sfera di una devianza morale. Il primo obiettivo di Decolonizzare l’antirazzismo è infatti quello di sottrarre razzismo e antirazzismo ad un paradigma moralistico/umanitario, nel quale il razzismo è dato da pregiudizio e ignoranza e la risposta necessaria è dunque di tipo cultural-educativo.
Mellino, che scrive il contributo di apertura, elabora nel suo saggio una possibile genealogia del razzismo in Europa. Partendo dal proprio posizionamento e dal vissuto della migrazione dall’Argentina alla fine degli anni Ottanta, Mellino racconta l’Italia dell’assassinio di Jerry Masslo e dello sbarco della Vlora. L’autore mette al centro della sua riflessione quella che lui definisce la «crisi» dell’antirazzismo europeo, ovvero la sua deriva umanitaria. Protagonista di questa crisi è una whiteness – una “bianchezza” – che si ostina a prendere parola per e al posto di soggetti razzializzati, e così facendo (ri)produce un discorso già da sempre imbrigliato in categorie di pensiero coloniali.
Segue il primo intervento quello di Anna Curcio, che mostra la specificità del contesto italiano interrogando la questione meridionale alla luce della categoria di razzializzazione, mostrando come la forza lavoro migrante del mezzogiorno italiano sia anch’essa storicamente investita da forme di sfruttamento e de-umanizzazione di matrice coloniale. Curcio rende evidente come colonizzazione e razzializzazione non vadano ridotti a processi che si consumano al di fuori dello stato e della cittadinanza, al contrario, essi si rivelano costitutivi dell’italianità e del farsi nazione del paese.
Nel saggio di Mascat, cuore teorico del libro, emergono i limiti di una lettura foucaultiana e biopolitica della “razza”, nonostante l’apparato foucaultiano, in particolare la categoria del governo, sia prepotentemente presente nell’impostazione generale del testo. Secondo l’autrice Foucault manca completamente di cogliere il rapporto che storicamente intercorre tra la “razza” e il colonialismo, e così facendo porta la prima ad assumere connotati trans-storici. Così facendo viene meno anche una possibile analisi sulla “razza” quale attributo, storicamente connotato, del potere, che è esattamente il fulcro dell’analisi decoloniale. Anche la categoria di “razzismo di stato” proposta dall’autore è da intendersi come l’esercizio di un potere biopolitico volto a difendere la specie da una minaccia di bio-degenerazione piuttosto che come un dispositivo atto a distinguere dominanti e dominati. In questo senso Foucault è reo di aver elaborato una teoria dalla quale subalterni e colonizzati sono totalmente esclusi. Mascat recupera dunque la lettura di Cedric Robinson, autore di Black Marxism (1983), che rende possibile riarticolare il rapporto di subalternità razziale attraverso il nesso, assente in Foucault, razza-lavoro-capitale. Contemporaneamente, Robinson situa le origini del sistema razziale all’interno dell’Europa feudale, materializzato nello sfruttamento delle popolazioni Rom, sinte e dei popoli slavi, complicando così la genealogia del fenomeno – e del sistema – razzista.
Nel testo seguente Alvise Sbraccia propone una riflessione sulla relazione tra razzializzazione e criminalizzazione. Lo studioso mostra come la criminologia abbia sin dai suoi albori connotati razzisti e coloniali, e come la “razza” sia funzionale alla costruzione di una criminalità che ha di per sé un importante ruolo di organizzazione sociale. Se il criminale (come il migrante) non esistesse andrebbe inventato!
Dhanveer Singh Brar, autore del penultimo saggio, propone un lavoro sul pensiero politico della blackness diasporica, a cavallo tra produzione teorica e artistica. Brar ripercorre una traiettoria atlantica, attingendo ad un archivio afroamericano, afrocaraibico e afrobritannico. La dimensione diasporica è dunque quella della tratta schiavile e dei suoi eredi. L’autore evidenzia come una critica trasversale al marxismo ortodosso caratterizzi le diverse tradizioni critiche nere, rivelando contemporaneamente come la lettura marxiana venga comunque assunta e ampliata da questi posizionamenti neri. In questo senso, secondo Brar, la tradizione nera si fa interprete ed innovatrice di Marx, pur radicando la propria riflessione in una lettura materialista della condizione di subalternità coloniale.
Il testo si conclude infine con uno scambio tra Curcio e Bouteldja, che porta il titolo del libro, Decolonizzare l’antirazzismo. Nel capitolo vengono messi a tema l’antirazzismo politico e l’antirazzismo decoloniale, il rapporto con la sinistra francese ed europea bianca, e il posizionamento del Parti des Indigènes de la République, di cui Bouteldja è portavoce.
Il razzismo, come mostrano in modo differente tutti gli interventi, è una componente fondamentale nell’organizzazione e nella ri-produzione della società e del capitale. Non è un caso che uno dei teorici più citati nel testo sia Cedric Robinson. Robinson obbliga a pensare al modo di produzione capitalistico in termini di capitalismo razziale (racial capitalism), portando così alla luce la natura sistemica e strutturale del razzismo. Come il capitale, infatti, il razzismo è anzitutto un rapporto sociale – un rapporto che vede dominanti e dominati separati lungo linee del colore, etno-nazionali, religiose, etc – e come tale ha una funzione specifica, ovvero quella di privilegiare i dominanti. Riportare al centro la materialità insita nei processi di razzializzazione permette alle autrici di affrancare il discorso antirazzista da una deriva moralista, individualizzante e psicologizzante, rappresentata in Italia, secondo Curcio e Bouteldja, dalla logica umanitaria e solidaristica che ha sorretto gli sforzi legati all’accoglienza. Curcio, citando Bouteldja, parla in questo senso di un tardivo e maldestro tentativo di scrollarsi di dosso la colpa coloniale (51).
Nonostante sia evidente la necessità di riportare la dimensione coloniale al centro del dibattito, in particolare vista la mancanza di analisi sui processi neocoloniali e le “nuove” forme di dipendenza e scambio diseguale tra nord e sud globale, più attenzione forse va prestata all’idea di una «crisi» dell’antirazzismo europeo individuata da Mellino, all’assunzione che tale crisi sia da ricercarsi nella «deriva umanitarista», e alla sublimazione di questo processo nelle battaglie legate all’accoglienza. L’idea di una “crisi” dell’antirazzismo è forse problematica da un lato perché la retorica della “crisi” ha pervaso ormai ogni spazio discorsivo e perso di capacità descrittiva, dall’altro perché l’antirazzismo europeo continentale non ha di per sé una lunga storia, e non è stato finora abitato da soggetti razzializzati. Per tanto l’idea che sia in crisi potrebbe paradossalmente essere troppo generosa. Forse è più vero, come postulato da Palmi nell’introduzione, che ci troviamo oggi a testimoniare della nascita di più movimenti antirazzisti in Europa, movimenti che iniziano ad avere una composizione postcoloniale più forte.
È inoltre necessario distinguere, come del resto fanno le autrici e gli autori del libro, la solidarietà umanitaria dalla lotta antirazzista, piuttosto che pensare questa prima come una deriva liberale – o una cattiva coscienza – della seconda. Le lotte legate al diritto all’accoglienza e al transito delle persone migranti in questo caso farebbero indubbiamente parte di questa prima categoria. L’antirazzismo in queste lotte è infatti più spesso legato ad un’esperienza di prossimità con, e quindi frutto di un percorso piuttosto che istanza di partenza. Le pratiche adottate dell'umanitarismo solidale “accogliente” possono avere – e molto spesso, a parere di chi scrive, hanno – risvolti antirazzisti, ma nascono situate in contesti emergenziali come forme di resistenza e sopravvivenza piuttosto che di trasformazione o emancipazione. Inoltre, tali pratiche coinvolgono principalmente soggetti non razzializzati. In questo senso, l’asimmetria della relazione di aiuto è tanto evidente quanto ineliminabile. Sottolineo questo senza voler occultare da un lato la natura segregante e razzista del sistema di accoglienza, in particolare in Italia, e dall’altro senza togliere valore alle lotte di tutt* quell* che si stanno battendo per migliorare e trasformare tale sistema – e alla peggio anche per farlo sopravvivere. Perché la realtà è che ad oggi non vi sono alternative praticabili e che per quanto il sistema di accoglienza sia da ripensare totalmente e, in prospettiva, da eliminare, i decreti sicurezza Salvini hanno obbligato anche i più feroci critici del sistema a difendere il diritto di asilo e assistenza.
Realtà differenti come il Collettivo 20k, Refugees Welcome o Mediterranea portano questi tratti comuni: vedono per lo più bianchi tra i promotori, agiscono in contesti emergenziali, portano avanti azioni di solidarietà e hanno una matrice politica di carattere umanitarista. Queste – e molte altre – realtà sono potenziali o effettive alleate della lotta antirazzista, ma non rappresentano il movimento antirazzista in Italia.
La «decolonizzazione dell’antirazzismo» – evidentemente necessaria perché la colonialità è un attributo del potere che diviene prassi di governo, e il razzismo un «fatto sociale totale» (69) al quale nulla rimane esente – potrebbe dunque consistere, come a più riprese suggerito dalle autrici e dagli autori, nel porre al centro della narrazione antirazzista l’azione e le riflessioni dei soggetti razzializzati. Tale operazione potrebbe implicare, già di per sé, una ridefinizione e riterritorializzazione dell’antirazzismo, e con esso dello spazio delle alleanze, dell’umanitarismo solidarista e delle cattive coscienze.