Perchè parlare oggi di crisi di mediazione del ceto medio? 

Perchè parlare oggi di crisi di mediazione del ceto medio? 

keyhole
Riportiamo un breve estratto (pagg. 73-81) del testo di Romano Alquati, Nicola Negri e Andrea Sormano, intitolato “Università di ceto medio e proletariato intellettuale”.

Per provare a portare a fondo la sperimentazione sul presente

Il testo, pubblicato nel 1978 per la casa editrice Stampatori, prova ad interrogarsi sulla nuova composizione studentesca che in quegli anni popolava la facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino. La parte citata è contenuta nel primo saggio (pagg. 9-199) scritto interamente da Alquati. 

Il motivo per cui ci sembra interessante e utile, da un punto di vista controformativo, mettere a disposizione questo estratto, è collocato dentro l’urgenza di comprendere e agire il presente, mettendo in discussione le certezze e aprendo la strada ai dubbi. 

La riflessione da cui partiamo ha alla base una domanda fondamentale: quanto è rilevante oggi la questione del declassamento, e la conseguente crisi di mediazione, del cosiddetto ceto medio? 

Il filo conduttore dei tre concetti che Alquati analizza nell’estratto – classe, ceto medio, composizione di classe –, sebbene strettamente legato al contesto e alla specificità del caso empirico, risiede, a nostro avviso, nella capacità dello sguardo militante di collocarsi nella dinamicità della stratificazione sociale, definita come componente subalterna della classe e come strumento di lotta della classe parte capitalistica. 

In altre parole, la stratificazione sociale stessa – che la sociologia eleva a teoria -, è un campo di battaglia per la classe operaia, ma solo nella misura in cui quest’ultima fa paura al capitale per la sua forza ricompositiva e unificante. Il capitale stratifica, la classe operaia unifica. 

Ecco allora che il concetto di “ceto medio”, la diga storica di cui il capitale si serve per stratificare e stabilizzare la composizione di classe, si fa rappresentante – nel momento della sua crisi – della possibilità di rovesciamento della stratificazione in ricomposizione. Alla mediazione si sostituisce la polarizzazione e in essa si costituisce la possibilità di costituzione di una nuova forza motrice della lotta proletaria.  Tuttavia, la crisi del ceto medio a cui Alquati fa riferimento, era stata in quegli anni determinata dall’autonomia delle lotte, dalla forza espressa dalla classe operaia. Che crisi di mediazione è in atto oggi?

Sicuramente non una crisi dettata dalle lotte, ma frutto della riorganizzazione capitalistica della stratificazione sociale e nella crisi permanente che modella le aspettative; la nostra fase attuale è quella di un’assenza di lotte, il declassamento del ceto medio oggi è calato dall’alto. 

Crediamo che l’essenza delle concettualizzazioni alquatiane rappresenti una sfida per il nostro presente, dove la stratificazione sociale e politica sembra essere destinata all’accettazione più che al conflitto. Come rapportare dunque la questione del declassamento del ceto medio, a ciò che si è mosso, in modo ambivalente, negli ultimi anni – pensiamo ai Forconi, ai No Salvabanche, ai Gilet Jaune francesi e così via –, e a quelle dell’attualità, nonché dell’avvenire? In una contingenza particolare, l’emergenza Coronavirus.

Le domande sono molteplici: in assenza di lotte, il capitale ha interesse a riformare un ceto medio (che come ci dice Alquati si colloca dentro la dinamicità della stratificazione)?

Il declassamento è una fase transitoria? L’esplosione delle polarizzazioni è destinata a ricompattarsi o ci sono fratture e ferite difficilmente ricomponibili?

Il capitale sarà in grado di mantenere le promesse che fa nel momento in cui produce o si trova a dover gestire delle polarizzazioni sociali? Il rapporto tra capitale e ceto medio è infatti uno scambio: quest’ultimo fa da mediatore dei conflitti in cambio di qualcosa. 

Ritornando indietro nel ragionamento: l’assenza di lotte potrebbe essere una mera apparenza, almeno per occhi non attenti o che utilizzano la lente sbagliata. Vediamo infatti in modo chiaro che nuove forze si muovono nella composizione anche in modo autonomo; esse ci sembrano ambigue nella loro forte polarizzazione, non ancora espressione di soggettività politica. 

Si tratta dunque di capire, di andare a vedere cosa si cela dietro certe proteste e parole d’ordine ambivalenti. Alquati si chiedeva “come trasformare le soggettività autonome in soggettività politiche ?”; una parziale risposta che prova a dare: “portando a fondo la sperimentazione”. 

2. Contributo a un lessico

2.1. Classe, soggetto politico.

La prima parola di cui chiarire un poco il senso con cui la uso io in queste note (e i compagni del mio lavoro nell’altro scritto) è “classe”. Ho detto prima che faccio mia la teoria marxiana che pone il sistema capitalistico come rapporto specifico fra due classi. Infatti cerco di usare altri nomi per designare altri soggetti e protagonisti e attori che a vari livelli di astrazione si possono cogliere più o meno in movimento dentro il sistema complesso dell’accumulazione del capitale. Ma questa è anche una vecchia querelle teorica che divide da sempre i “marxisti” e non solo loro. Ci ha annoiati da sempre: e più alla fine degli anni ’50 che oggi. Eppure adesso torna a pesare. Una delle poche cose su cui ero d’accordo completamente con Panzieri era -ad esempio- la sua opinione che nel III libro del Capitale il capitolo sulle classi Marx non l’ha scritto perché dal punto di vista di quella teoria non era granché utile, poiché le classi non erano definite dalla distribuzione del reddito e neppure del plusvalore. Ed è interessante notare che oggi ha molta fortuna, anzi un successo che le conferisce un peso schiacciante, la posizione di chi allora si dichiarava “leninista ma non marxista” proprio per rifiutare la “teoria dicotomica” del “Capitale”. E chi respinge la teoria del rapporto fra le due classi è d’accordo con Weber e con le teorie del conflitto fra i gruppi sociali, i gruppi di interesse, che si ricompongono in un certo numero di aggregati chiamati da loro “classi”. Sono questioni vecchissime. Qualcuno poi, e chissà perché, chiama le classi e la lotta di classe 1’ “economico”.

Se si è fra coloro che dicono: “le classi sono due”, bisogna rispondere almeno all’altra domanda: cos’è la classe operaia? (sembrando ai più meno necessario chiedersi cos’è la classe capitalistica; ma non a noi). “Nel mio piccolo” continuo a rifiutare di ridurre la classe operaia al “lavoro produttivo”. E tanto meno di ridurla alla parte degli operai materialmente concentrati nei capannoni dove si fanno soltanto alcune delle lavorazioni con cui si valorizza il capitale. Ma ancor più di e- stendere il concetto di classe operaia fino a comprendervi tutta la forza lavoro mercificata. Metto dentro il grande dualismo del rapporto capitalistico “il sistema della forza lavoro mercificata” nella condizione di “proletariato”. Intendo sempre la “classe operaia” come avanguardia del proletariato. E la assumo in modo ibrido ricorrendo ad una pluralità di parametri molto astratti e piuttosto difficili da trasformare in indicatori. In parte attinenti la collocazione nella valorizzazione (qui c’è il rapporto con il plusvalore, ma con la sua produzione), ma in parte riferiti alla collocazione nella lotta, nell’accumulazione e contro l’accumulazione del capitale. A maggior ragione non metto dentro la classe operaia il lavoro improduttivo, ma solo alcune sue avanguardie, che oggi si vanno allargando: per ragioni strutturali e soggettive, e per il rapporto di tutto questo con la dimensione della lotta anticapitalistica.

Due parole adesso sui “soggetti” nella lotta di classe. Gli avversari della teoria dicotomica da decenni si richiamano al fatto che Marx in altre opere meno astratte ha usato più di due classi, e nel 18 Brumaio, se ben ricordo,addirittura undici.

Personalmente e modestamente in questi casi e in questo senso preferisco usare altri termini, e in particolare preferisco usare nell’analisi (determinata) di livello dì astrazione meno elevato l’espressione “soggetti politici”. Anche se qualche volta la loro politicità non va molto oltre ciò che si intende per “forze sociali” distinte dalle “forze politiche”. A tavolino ciascuno fa ciò che vuole, finché la classe operaia è pura astrattezza e non un soggetto reale che agisce in modo effettualmente verificabile nel sistema capitalistico e non altrove, la fantasia può sbizzarirsi. Nel dibattito odierno si va parlando di “soggettività politica” di nodi e momenti del sistema che non sono neppure classi sociali senso sociologico: “la soggettività autonoma dello stato”, “la soggettività dell’impresa”, “la soggettività del sindacato”, ecc. E’ anche questa un vecchia storia che a me non dà fastidio alcuno. Epperò succede sempre meno che si parli di “soggettività della classe operaia”, di “soggettività del proletariato”, o “soggettività della forza lavoro”: ma queste “soggettività autonome”sono quelle che interessano di più a noi. E la domanda ulteriore che pongo è: come si traducono queste “soggettività autonome”, che non sono sommatorie di gruppi di interesse, in “soggetti politici”?

2.2. Il “ceto medio”.

A mio parere la teoria “dicotomica” delle classi nel sistema capitalistico non si contrappone neppure alla teoria della stratificazione sociale, ma la comprende al proprio interno come suo momento subalterno , importante e oggi ancora insopprimibile. La stratificazione sociale è ancora indispensabile alla classe capitalistica proprio per l’acutezza eccezionale che ha raggiunto la lotta fra le due classi strategiche. E chi governa la società si preoccupa molto di riprodurla e di rinnovarla e di far funzionare la stratificazione sociale come difesa contro la forza d’attacco della classe operaia e contro la sua forte pressione ricompositiva e sempre unificante. Esiste la stratificazione sociale proprio perché esiste la lotta fra le due grandi classi storiche del sistema capitalistico.

Lo studio della stratificazione sociale e della riproduzione delle disuguaglianze e delle distanze sociali ai giorni nostri è quanto mai importante: ma non va limitato alla società come riproduzione, bensì ricondotto alla continuità dei movimenti di classe nei tre ambiti classici in cui l’ordinamento borghese ha separato il sistema capitalistico. E appunto la scuola, l’Università come cerniera fra di essi, e al loro interno la “cultura”, sono momenti “centrali” della stratificazione sociale in Italia, e interessano sempre più la lotta fra le due grandi classi strategicamente antagoniste.

E’ il momento di fare un accenno al “soggetto politico” che abbiamo posto nel titolo di questo “libro aperto’’ perché qualifica la situazione attuale, e di transizione, dell’Università: il “ceto medio”. In genere si intende per “ceto medio” gli strati sociali che occupano la parte intermedia della piramide sociale. E la composizione lavorativa o professionale di questo ceto di mezzo e dei suoi strati componenti è andata modificandosi continuamente nella storia del passaggio dalla società borghese alla società capitalistica, e cambierà ancora.

A me l’aggettivo “medio” piace perché è associato al verbo “mediare”, che come tutti sanno è il verbo fondamentale del “parlare politico”. Infatti gli strati intermedi della gerarchia sociale non si limitano a starsene tranquilli nella posizione mediana,ma “mediano”; e quasi sempre anche “stabilizzano”, e fanno da diga protettiva al blocco capitalistico contro la solida forza d’attacco della classe operaia. Ed è stato storicamente questo, e in tutto il mondo,il modo in cui il ceto medio ha funzionato, in grande prevalenza, e ne spiega quasi sempre resistenza, e il fatto che sia stato spesso imbottito di lavoro improduttivo.

Ma la storia cambia. La mia tesi è che nei momenti di forte tensione sociale il “ceto medio” può anche sentire l’attrazione dell’ascesa politica della classe operaia nella fase ascendente del suo ciclo di lotte, e allora si polarizza all’interno. E questo è particolarmente vero per il ciclo di lotta dal quale siamo usciti, ed anche di quello transitorio nel quale siamo entrati. Il “ceto medio” si è polarizzato e una parte consistente si è spostata verso il blocco politico della classe operaia, e vi è rimasta. E la conseguenza molto importante è che la stabilizzazione si è ridotta moltissimo, la diga si è ridotta e tiene pochissimo e anche la mediazione è in forte difficoltà. Tuttora. E proprio per questo parliamo di “ceto medio in crisi di mediazione”.

Molti dei cambiamenti sociali che tocchiamo in queste note possono anche essere interpretati come tentativi di riprodurre e riqualificare un ceto mediatore e stabilizzatore da parte della classe capitalistica: promuovendo nuovi lavoratori intermedi e rilanciando momenti vecchi e nuovi di lavoro improduttivo mediante la rendita, di cui la tregua ha ricostituito disponibilità per i bisogni politici del padrone. Ma la polarizzazione sembra funzionare con forza maggiore proprio fra i nuovi strati intermedi portandone una quota ancora maggiore verso il blocco della classe operaia: come suoi alleati, ma anche come sue parti integranti e “forze motrici” della sua ricomposizione. E proprio questa è una delle contraddizioni che la trasformazione recente del sistema capitalistico italiano ha riprodotto in modo allargato contro il dominio del capitale, E proprio in questa riproduzione allargata, e nella crisi di mediazione del ceto medio, viene a trovarsi come momento determinante l’Università che il ceto medio in crisi ha invaso polarizzandosi e valorizzandosi autonomamente: T “Università di ceto medio , in crisi di stabilizzazione e di mediazione”.

2.3. Composizione di classe.

Sulla composizione di classe c’è ormai una “scolastica”. Ad essa ho contribuito anch‘io, ad esempio, con la nota che nel ’67 precedeva l’opuscolo “Fiat punto medio” e poi nel ’68 con un libretto, che non ho poi pubblicato e di cui sono circolati appunti preparatori, che studiava appunto “la composizione della classe operaia italiana”. Con questo termine assumevamo la considerazione statica di come, in un momento dato, ciò che chiamiamo la classe operaia era composta, anche passivamente, nel senso che in certi momenti questa composizione è subita, e può essere letta come indicatore dell’iniziativa del capitale. Ma distinguevamo più livelli della questione, a) Già dalle sue origini si chiamarono “composizione di classe” tre cose diverse e da qui tuttora si alimenta una grande confusione. La prima è la “struttura di classe”, incominciando ad assumerla proprio in termini di stratificazione sociale ed andando un po’ oltre.

a.l.) Il livello del rapporto fra produzione di capitale, riproduzione della forza lavoro e livelli politico-istituzionali nella dimensione del lavoro concreto. Cioè come la classe operaia è composta nell’unità fra fabbrica società e stato,ma in rapporto alla cooperazione nel lavoro concreto.

a.2.) Il secondo livello di questa categoria era quello più proprio e più importante, ma già più difficile. In esso la continuità dei movimenti fra fabbrica, società e stato era posta in termini di “lavoro astratto” e di valore di scambio della forza lavoro mercificata, che si consumava accumulando capitale: a partire dalle qualifiche per il cottimo, il salario, ecc. E’ un livello particolarmente privilegiato negli anni ’60, che oggi si tende a mettere da parte perché è ancora più importante... Oggi lo complica il nuovo rapporto del salario col reddito. a.3.) Quindi un terzo livello, “residuale” e più ibrido, della struttura di classe. Quello della soggettività politica data: i livelli soggettivi assai diversi: dai bisogni, se volete, alla domanda

di obbiettivi e alla domanda politica, alla “composizione politica”, passando però per la soggettività data dalla classe operaia, nella sua composizione ed articolazione nella sua storia interna.

Noi abbiamo chiamato già da allora questo il “livello dell’organizzazione permanente”, per sottolinearne il limite, sia in termini di autonomia che di antagonismo. Ma anche questa struttura, questa composizione “statica” andava letta “a partire dalle lotte” e si poneva come struttura dei livelli di lotta, perchè anche la lotta operaia talora non è altro che un motore dell’accumulazione capitalistica - non il solo, anche se in quel momento era molto importante -. Talaltra neppure questo: ma routine del rapporto capitalistico. Talvolta invece sembra aprire potenzialità di uscita dal sistema capitalistico in tempi medi.... come già è avvenuto in altri momenti storici, b ) Epperò già allora si intendeva la “composizione di classe” anche in un altro modo, più problematico e velleitario, ma più interessante. Esso cosi non è andato lontano nell’elaborazione, nella spiegazione e nell’interpretazione, e neppure nella descrizione. Figurarsi la sua previsione, anticipazione, organizzazione e direzione “politica”. In questa seconda accezione la “composizione di classe” io la chiamavo “ricomposizione”, per sottolinearne l’essenza “dinamica” che ne qualificava 1 momenti di autonomia assunta contro il capitale dalla stessa lotta autonoma di classe operaia.

Anche la dinamica di ricomposizione dei movimenti di classe poteva essere letta secondo i tre suddetti livelli. E si suggerisce al lettore di cercare attivamente di farlo. Ma in questo secondo significato ciascuno di essi diventa altro: ne coglie a ciascun livello ciò che si è chiamato intenzionalità antagonistica. La ricomposizione cosi intesa è assai differenziata dentro i movimenti: ma “ricompositiva” perchè già autonomamente esprimente, e talora realizzante, un’intenzionalità di “ricomposizione” come domanda di unificazione politica. Ed è ancor più ovvio che per cogliere la “ricomposizione” si dovesse partire dalle lotte, ed in questa seconda dimensione si parlava di “organizzazione autonoma”.

c } Ma si postulava, si poneva (e si tentava anche di farne l’analisi) una terza dimensione della composizione di classe : quella che chiamavamo F “unificazione politica”. Essa è pure leggibile ai tre livelli ed a partire dalle lotte. La ritenevamo funzione del partito,- anche se quelli storici si guardano bene dal compierla. Ma anche a noi dei partiti storici interessava piuttosto la “crisi verticale”, per ricostruire altro.

Se adesso riprendiamo questa vecchia e rozza concettualizzazione, possiamo ricavarne una pluralità di concetti diversi di “composizione di classe”, tutti piuttosto oscuri,nondimeno piuttosto importanti. A quali di essi in realtà si avvicina chi oggi parla di composizione di classe? Mi sembra che quelli più spesso approssimati siano stati i due estremi, il primo e l’ultimo: il che sta ad indicare che gli strumenti teorici con cui si studia o si assume la forza - lavoro sono piuttosto polarizzati.

Della “composizione di classe” si è fatto un mito. La si è caricata di significati che non poteva avere o che bisognava darle attivamente, anche soltanto nella pratica di una sperimentazione di approccio politico. Purtroppo sia noi che gli altri ci siamo sempre fermati più o meno al punto di partenza. E in conseguenza di questo la categoria è rimasta abbastanza “statica’,’ malgrado si cominciasse ad apporre l’aggettivo “dinamico” a tutto quanto. Si poteva benissimo andare oltre: la mia opinione è che è mancata e in fondo manca la “volontà politica” di portare più a fondo almeno la sperimentazione.

Si sapeva benissimo fin dall’inizio che il problema era quello del partito storico e delle forme tradizionali di organizzazione, e anche del sindacato con la sua dirigenza e il suo apparato. Il difetto era però “nel manico”, nella qualità politica precaria delle forze soggettive e della loro credibilità rispetto al discorso che facevano; non nell’assenza delle condizioni strutturali o nel tempo ritardato, semmai era troppo presto: è certo migliore il momento attuale. Noi non abbiamo solo pianto “il piano del capitale”: già allora abbiamo posto il problema di tornare a combattere con le armi politiche e politico-istituzionali nuove che lo sviluppo offriva. Adesso ce ne sono di più di allora.

Una “composizione di classe” nei tre sensi della parola (e cioè che ad un certo momento della storia del rapporto capitalistico la “classe operaia” si trova composta in un modo dato e determinato che può benissimo essere letto nelle tre dimensioni dianzi accennate) c’è sempre stata. C’è dell’altro.

In particolare, è sempre stata compresente- fra l’altro - una forte differenza interna nei livelli di semplificazione della forza-lavoro astratta. E’ poco serio - ad esempio - interpretare il “taylorismo” come passaggio generale e complessivo dalla forza-lavoro complessa dei “professionali” a quella “semplice” dei lavoratori di linea. Il passaggio riguarda solo una parte dei “lavoratori professionali” di allora. Ma c’era già forza- lavoro semplice, e spesso al centro della valorizzazione, prima di quella grande stagione dell’organizzazione scientifica del lavoro altrui; e viceversa, ci fu poi forza-lavoro complessa anche di tipo nuovo all’interno della nuova organizzazione scientifica dello sfruttamento. Quello che mi sembra più interessante è vedere, in un dato momento della storia della “composizione di classe”, quale tra le sue “forze motrici”, ovvero tra le sue parti traenti nella lotta anticapitalistica, ha un ruolo d’avanguardia nei confronti dell’intero movimento e in che modo riesce a farlo e con quali risultati e quale ne è la portata politica: quale tra le forze motrici è egemone e guida l’intero movimento di lotte del proletariato, è qual’è il rapporto di questa egemonia con la composizione di classe in quel dato momento storico. 

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