L’avatar mimetico del razzismo

L’avatar mimetico del razzismo

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Intervista ad Ambalavaner Sivanandan - di Avery Gordon

A distanza di circa 7 anni dalla sua prima uscita ripubblichiamo una nota intervista di A. Gordon all’intellettuale e militante Sri Lankese A. Sivanandan (1923-2018), tradotta da Anna Curcio per Commonware  e pubblicata su «Il manifesto» il 18 dicembre 2013. Crediamo infatti che alcuni materiali d’archivio possano aiutarci a interrogare nuovamente il presente, per fare emergere e discutere realmente le lacune strutturali dell’antirazzismo italiano.

Tramite uno scambio di battute serrato e tagliente, l’intervista riporta al centro del discorso alcuni nodi centrali e irrisolti del dibattito antirazzista contemporaneo. Nonostante il trascorrere degli anni, spazi di discussione franca sul rimosso coloniale interno e la dimensione strutturante di razza e razzismo hanno faticato a vedere la luce, schiacciati fra un razzismo politico esplicito e aggressivo ed un antirazzismo di sinistra spoliticizzato e irrimediabilmente compromesso. D’altra parte, le piazze ispirate da Black Lives Matter spuntate in Italia nell’ultimo mese - soprattutto dove sono state organizzate da soggetti Neri e razzializzati stessi - hanno dimostrato il potenziale di spezzare questo circolo vizioso per rendere l’antirazzismo un vero e proprio campo di battaglia politica, andando oltre gli slogan ammuffiti di sinistra sulla solidarietà internazionale.

Proviamo allora ad accennare brevemente alcuni elementi su cui, a partire da questo breve testo, ci sembra utile e urgente ragionare. La relazione fra teoria e pratica antirazzista rappresenta un argomento non più rimandabile. Come evitare che la produzione di pensiero politico antirazzista divenga luogo di vuota speculazione senza alcuna ricaduta sul materiale? Come rompere con quella pratica antirazzista miope e astorica che ha contributo al rodaggio e al mantenimento dei rapporti di subalternità razziale che formalmente si propone di combattere? 

Sono probabilmente queste le domande che occorre riportare al centro. Una teoria antirazzista in grado di collocare il ruolo di razza e razzismo nella storia dello sfruttamento capitalistico non può che fare da preludio ad un’azione antirazzista in grado di affondare i denti nella carne viva dei rapporti sociali razzializzati. Allo stesso modo, una pratica politica antirazzista incardinata nella materialità dei processi di razzializzazione non può che portare alla luce la natura intima e strutturante del razzismo nella società contemporanea. Non si tratta di delineare una gerarchia. Si tratta di sottolineare senza indugi che teoria e prassi antirazzista hanno la necessità di procedere in parallelo, per affermarsi come forma di conflittualità sociale organizzata. Le facili scappatoie delle forme di assistenzialismo, che seguono pedissequamente il ritmo delle narrazioni emergenziali prodotte dalla controparte, si stanno in ultima istanza dimostrando per ciò che sono sempre state: strumenti di recupero perfettamente compatibili con il cosiddetto race management. 

Il secondo tema è fondamentale per una corretta lettura dei processi di razzializzazione: la dimensione mimetica del dispositivo razziale. La superficiale equiparazione fra razzismo e xenofobia, la riduzione del razzismo a degenerazione di natura individuale, morale e pedagogica, rappresentano il frutto di una riflessione e mobilitazione di stampo antirazzista inadeguata. Del resto, è sempre molto facile semplificare per fare audience. È molto più immediato ricondurre il funzionamento di razza e razzismo a un discorso di «colore della pelle». Non vedere nel razzismo un insieme eterogeneo di discorsi e pratiche orientati alla gerarchizzazione delle differenze fra vari gruppi e soggetti ci impedisce di coglierne la dimensione strutturale e strutturante. Il razzismo non vive ancorato alla linea del colore, ma si dispiega in maniera flessibile in base a spazi e tempi di applicazione. La dimensione mimetica del razzismo ci permette di osservare in maniera più chiara come questo venga modellato e messo al servizio delle necessità estrattive dell’ordine neoliberale. Per fare un esempio: razzismo non vuol dire fascismo, come antirazzismo non vuol dire antifascismo. Razzismo non è sovranismo. Razzismo non è destra. Troppe volte la sinistra bianca, probabilmente abbagliata dal candore della sua pelle, si è accomodata su questa facile assimilazione. Ma una simile impostazione porta all’impossibilità di rilevare come la sinistra, in tutte le sue sfaccettature, sia essa stessa ingranaggio centrale nella riproduzione di una società razzializzata. Questo facile parallelismo ci priva della possibilità di predisporre una critica alla democrazia in quanto forma di governo compromessa nel suo DNA dalle gerarchie razziali figlie dell’esperienza coloniale. 

Allora, dopo molte provocazioni dentro poche parole, lasciamo spazio all’esperienza di Sivanandan, con la convinzione che possa aiutarci nell’opera di fare piazza pulita della fumosa coltre di antirazzismo democratico, che da troppi anni contribuisce da un lato a nutrire la vorace industria umanitaria di sinistra, dall’altro ad annebbiare lo sguardo di molti militanti.                        

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[«Le ‘relazioni razziali’ richiedono un approccio olistico ... un riesame di tutta la società, del sistemi di valori e della struttura politica ed economica ... poiché tale preoccupazione ... ha una forte tensione al cambiamento, le ‘relazioni razziali’ hanno a che fare sia con il pensare che con il fare ... Si ripristina, cioè, il continuum tra esistenza e politica: l’esperienza e il potere di cambiarla». Così ha scritto a proposito del lavoro dell’Institute of Race Relations (IRR) di Londra Ambalavaner Sivanandan, intellettuale Tamil nato nel Ceylon (Sri Lanka), romanziere e militante, direttore dell’Istituto dal 1972. La sua attività politica militante e il lavoro di ricerca dell’Istituto sono al centro di una appassionata conversazione con Avery Gordon, studiosa engagé nelle lotte del radicalismo nero. L’intervista, realizzata in occasione della 10a Conferenza annuale di Historical Materialism è un vibrante dialogo che mette soprattutto a tema il metodo per la ricerca e la lotta antirazzista: un’elaborazione teorica che va radicata nelle lotte e alle lotte rivolta. Da questo nesso specifico, prende il via la conversazione.]

Quali sono state a partire dagli anni ’70 le nuove linee guida dell’Istituto?

Orientamenti e linee guida dell’Istituto sono venuti dalla lotta. Quando è nato era stato pensato come un think-tank indipendente, che aveva però finito per sostenere, con le sue ricerche, il razzismo dei governi, in particolare sull'immigrazione. Questo tipo di ricerca definiva un «problema» di razzialismo non di razzismo, cioè di pregiudizi personali e non di ingiustizia sociale strutturata. Ed era inevitabilmente politicamente orientata dalle preoccupazioni del governo, non da quelle dei sudditi. Non guardava alla relazione tra le razze ma ai rapporti di potere in campo. Ma noi volevamo tradurre l’esperienza dei soggetti in azione, parlare dei bisogni per superare l'oppressione e l'ingiustizia. E per fare questo si doveva lasciare ai soggetti l’iniziativa senza mediarla attraverso l’alta teoria e l’ortodossia ideologica.

Abbiamo imparato che perché ci sia l'azione deve esserci un rapporto organico tra l'esperienza e il suo significato, tra teoria e pratica. Un rapporto che consideri insieme il generale (stato, società, economia) e il particolare (l'individuo, la comunità), muovendosi tra i due livelli. Questo è particolarmente vero nella lotta contro il razzismo perché combina esistenziale e politico, oppressione e sfruttamento, razza e classe.

La lotta ci ha insegnato a rompere con le ortodossie e con la cultura politica. Abbiamo sfidato l'ortodossia accademica sulla «razza», i fattori di push e pull quali ragione dell'immigrazione dalle colonie e dimostrato che il colonialismo e l'immigrazione erano parte dello stesso continuum – che eravamo coloni e non immigrati, cittadini non stranieri. Il mio aforisma «noi siamo qui perché voi eravate lì» voleva catturare, in una frase comprensibile a tutti, l'idea di questo continuum. Ed è questo che la teoria dovrebbe fare.

Allo stesso modo abbiamo contestato l'ortodossia marxista secondo cui la lotta sul terreno della razza deve essere sussunta dalla lotta di classe, perché vinta la lotta di classe il razzismo scompare. Il razzismo ha una dinamica propria. Tenere insieme bianco e nero è stato un obiettivo della lotta, non la realtà. Lavoratori bianchi e neri devono arrivare all'appuntamento comune con i propri percorsi autonomi. Negli ultimi quaranta anni abbiamo combattuto le versioni ufficiali e accademiche dell’etnicismo (che sostituisce la lotta al razzismo con la lotta per la cultura), i corsi di sensibilizzazione al razzismo (che ne hanno fatto una malattia del bianco), l'identity politics (che ha creato gerarchie di oppressione), il rimedio di Lord Scarman e la discriminazione positiva (che era come romperci le gambe per farci dare delle stampelle), la definizione di Macpherson del razzismo istituzionale (che discenderebbe, insieme al razzismo popolare, dal razzismo di stato), l'idea che il razzismo era un aspetto del fascismo (noi crediamo che sia terreno fertile per il fascismo), l'idea secondo cui l'antirazzismo deve sfondare il «soffitto di cristallo» (ma ci sono due razzismi: uno discrimina e uno uccide e la nostra priorità è rispetto al secondo), non ci interessava migliorare i problemi della classe media nera.

Abbiamo visto razzismo e colonialismo come simbiotici. Le lotte per l'indipendenza del Terzo Mondo, contro l'oppressione razziale e lo sfruttamento di classe del colonialismo hanno avuto denominatori comuni alla lotta nella madre patria. E le lotte comuni (di asiatici, africani e caraibici) degli anni ’60 e ’70 ci hanno definito come popolo: la classe di un popolo che ha fatto del nero il colore della politica, non il colore della pelle.

I principi fondamentali che ancora ci guidano sono che il sapere ha una funzione di liberazione e la scrittura deve essere semplice e diretta: «le persone per cui scrivevamo erano le persone per le quali combattevamo».

Muoversi tra il generale e il particolare, tra l'autorità dell’esperienza e l’interesse della parte lesa queste le componenti chiave del metodo dell’IRR. Come ciò si è tradotto in una pratica?

Il comitato editoriale comprendeva persone coinvolte nelle lotte di liberazione in Palestina, Africa, nelle Americhe (tra cui Edward Said). Altri erano coinvolti nella lotta del radicalismo nero: accademici non tradizionali desiderosi di aiutarci a sviscerare le nostre prospettive.

In un certo senso l'IRR è una piramide rovesciata. La sua forza è nei collegamenti con le lotte reali, cosa che ci permette di avere un quadro di ciò che accade in tutto il paese, porre attenzione su nuovi fatti e muovere, dal particolare al generale e dal generale al particolare, per dargli senso all'interno del sistema nel suo complesso.

La mia riflessione è prevalentemente esito delle discussioni di tutti i giorni con i miei colleghi. L'IRR, dopo il 1972, ha rotto le gerarchie interne e la divisioni del lavoro. Durante una di queste discussione qualche anno fa con Liz Fekete – responsabile per l’Europa – è nato il concetto di xenorazzismo: un modo di concettualizzare la discriminazione nei confronti degli stranieri non codificati per il colore.

Hai detto di essere critico rispetto all’astrazione teorica, al positivismo e al dogmatismo. Come descriveresti il tuo metodo?

Sono ciò che gli accademici aborriscono: empirista ed eclettico. Ma se c'è un metodo nella mia follia è in primo luogo quello di contestualizzare un problema. In secondo luogo, metto costantemente in discussione il mio pensiero a partire dai «fatti». In terzo luogo non ho il desiderio di confronto con un'altra teoria ma voglio rispondere a un problema. Per esempio alcuni anni fa con The Hokum of New Times ho attaccato il New Times Marxism perché l’estremo bilanciamento culturalista che proponeva metteva in pericolo la lotta contro il razzismo e il fascismo. Oggi il problema potrebbe essere: «cosa facciamo con i teorici dell’estremismo cumulativo che vedono il problema non nel fascismo ma in ogni estremismo, compreso quello di sinistra?».

La sfida alle ortodossie è ciò che distingue l’IRR. Il nostro pensiero è flessibile - perché affrontiamo problemi reali. Il razzismo cambia continuamente forma, contorni, impatto, in base ai cambiamenti politici ed economici. Siamo sempre attenti ai nuovi avatar del razzismo. Ma non l’abbiamo mai essenzializzato, mai considerato fuori del contesto più ampio. La lotta per la giustizia razziale ci collega alle altre lotte per la giustizia e conduce alla solidarietà.

Hai il dono – trasmesso ad altri membri dell'Istituto – di catturare lo spirito delle lotte e tradurlo in una conoscenza che può essere reinvestito nelle lotte stesse. Quali esperienze che hanno ispirato la tua pratica teorica.

In primo luogo, l'esperienza della povertà. Mio nonno paterno era mezzadro nel Tamil a nord di Ceylon e su quella terra crescevano solo bambini. Mio padre a 15 anni ha cominciato a lavorare in un ufficio postale – per sostenere fratelli e sorelle – ed è andato di città in città. Ho sempre trascorso le vacanze nel villaggio, quindi sono cresciuto con la doppia coscienza del villaggio e della città, dei contadini e della classe operaia. Dopo l'università ho lavorato nelle zone di produzione del tè, insegnando ai figli dei lavoratori delle piantagioni, schiavi a contratto, e ho compreso l'estrema difficoltà di chi sta in basso. I miei genitori erano indù e mio padre citava testi come le Upanishad e la Bhagavad Gita, Tagore e Gandhi. Era un autodidatta che ha gestito la propria esperienza (cosa che deve avermi trasmesso). È diventato capo delle Poste si è ricordato di lottare per i lavoratori postali. Mia madre era l'anima della semplicità – emozionale e diretta, e forse mi ha trasmesso la passione. Ma la cosa di mio padre che ricordo più chiaramente è il modo in cui mi riprendeva quando facevo qualcosa. Non diceva che era giusto o sbagliato ma che era brutto o bello. Ciò mi ha dato un'estetica morale di cui ho trovato risonanza negli scritti di John Keats: «la santità degli affetti del cuore e la verità dell'immaginazione» e più tardi nella Immaginazione sociologica di C. Wright Mills .

Tuttavia, ho frequentato una scuola pubblica cattolica dove ho imparato il bigottismo – che ho odiato in modo viscerale. Ed è stato poi con gli studi in Economia e Scienza politica all'Università di Ceylon sotto l'influenza di brillanti insegnanti (ispirati da pensatori socialisti alla LSE come Harold Laski e coinvolti nella lotta per l'Indipendenza) che le esperienze personali mi hanno aiutato a interpretare il colonialismo (Ceylon è stata occupata da portoghesi, olandesi e britannici per oltre 400 anni). E poi l’incontro con Marx e il materialismo dialettico, che mi ha dato gli strumenti per interpretare la realtà. Ho trovato un modo per analizzare la società, per comprendere le mie contraddizioni sociali, per capire come il conflitto in sé sia il motore della propria vita e la forza rigenerante della società. È stato come un miracolo, con le parole di Dylan Thomas: «l’'istante d'un miracolo sia un lampo senza fine».

Ti rifai spesso ai poeti. Perché?

Perché i poeti spiegano l’esperienza in modo vivido e succinto. Ad esempio, la mia riflessione sull’esperienza deriva da T. S Eliot, dalla sua preoccupazione: «Dov'è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov'è la sapienza che abbiamo perduto nell'informazione?». Anche scrittori e romanzieri mi hanno molto influenzato: Fanon con la sua ricerca dell'universale della condizione umana; Amilcar Cabral e la cultura non come una cosa in sé ma come forza di combustione della rivoluzione; Nyerere sul restituire la mia formazione alle persone che me l’hanno data; Richard Wright sulla violenza dei poveri in Paura; Camus sulla distinzione tra il personale e il politico quando il suo ex amico tedesco di sinistra si unì ai nazisti: «voglio distruggere il tuo potere senza mutilare la tua anima». E così le Upanishad e l'esistenzialismo: colui che vede se stesso negli altri e gli altri in se stesso non è più solo.

Un ultimo commento su ciò che hai chiamato «lotta al pensiero»…

La lotta antirazzista per come l’abbiamo conosciuta è finita. Oggi, nel quadro più ampio della lotta contro un crescente autoritarismo di stato e il fascismo che l’accompagna, dobbiamo combattere xenorazzismo e razzismo antislamico: i nuovi razzismi vomitati dalla globalizzazione e dalla guerra al terrorismo. Dobbiamo combattere l'idea che esiste un «capitalismo buono», che stato e mercato ci daranno una società buona. Finché non combattiamo la cultura politica del neoliberismo e cambiamo i termini del dibattito, non potremmo intraprendere una vera lotta da portare avanti insieme

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L’Institute of Race Relation di Londra è oggi un ricco osservatorio critico e militante sul razzismo in Europa. Ma al momento della sua fondazione, nel 1958, la situazione era decisamente differente. Nel pieno del processo di decolonizzazione e della guerra fredda, il tema dei rapporti razziali poneva il Regno Unito davanti al duplice obiettivo di stabilire la trama delle relazioni (economiche e geopolitiche) con le ex colonie – esortate a divenire «membri di una più grande famiglia in cui il colore non fa alcuna differenza» – e al contempo costruire un baluardo all’avanzata del comunismo: «la garanzia che il problema della razza non si saldasse con quello della classe». Queste almeno erano le intenzioni espresse nel documento di presentazione dell’Istituto: un’unità di ricerca indipendente ma interna al Royal Institute of International Affairs. Non a caso il suo primo direttore, Philip Mason, era stato membro dell’Indian Civil Service, l’apparato amministrativo dell’impero britannico in India, e il consiglio di amministrazione comprendeva anche imprenditori che avevano fatto affari con le colonie ed ex amministratori coloniali.

L’impostazione dell’Istituto era perfettamente in linea con il clima generale del tempo: reinterpretare il razzismo smantellando l’apparato ideologico-biologista che aveva legittimato l’infamia nazifascista e sostenuto la colonizzazione. I conflitti razziali – si veda il cosiddetto «paradigma antirazzista dell’UNESCO» – venivano ricondotti a nozioni scientificamente false (l’esistenza delle razze) e il razzismo diventava un sistema di pensiero irrazionale che ostacolava la convivenza democratica. Ne veniva cioè negata la dimensione materiale, il suo essere dispositivo di subordinazione e sfruttamento intrinseco al progetto capitalista.

Qui, in questa negazione, va colta la radice della profonda opposizione interna che all’inizio degli anni Settanta contrappose all’establishment dell’Istituto una nuova generazione di pensatori militanti come Ambalavaner Sivanandan, che ne avrebbe da quel momento assunto la direzione. Viste dal di dentro, le lotte anticoloniali, la diaspora dalle ex colonie e le tensioni razziali nei quartieri neri di Londra o negli Stati Uniti, esprimevano un’innegabile radice materialista: il legame indissolubile tra razza e classe che l’Istituto avrebbe da lì in avanti posto al centro della sua riflessione e del suo impegno militante antirazzista.

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