Avanguardie

Il testo, denso e articolato, prova a ricostruire il concetto di avanguardia nei campi di studio teorico e politico che ne hanno costruito le fondamenta. Chi scrive tuttavia prova sempre a tenere insieme il piano formativo con quello di rilancio in avanti: la riflessione è infatti ricca di domande e ipotesi, introducendo al tema e lasciandolo aperto ai dubbi del presente.
La definizione più chiara e semplice di avanguardia è di derivazione militare e si riferisce al reparto che precede il grosso della truppa in movimento al fine di cogliere le possibilità d’azione oppure i pericoli insiti in un territorio non ancora esplorato, forse ostile. L’avanguardia si pone un passo avanti rispetto al grosso della truppa, procede con più impegno e decisione degli altri, assumendosi anche funzioni di guida. Indica un gruppo, un movimento che sostiene idee rivoluzionarie e che assume perciò il ruolo di precursore di “esploratore” di un mondo altro possibile, essere all’avanguardia appunto, da cui deriva l’uso che se ne fa nell’ambito storico, politico, sociale e culturale per indicare movimenti politici, artistici, letterari d’avanguardia, compreso l’essere avanguardia nel campo produttivo, industriale, commerciale, dei servizi, del progresso tecnico-scientifico.
Dal lessico militare il termine è ripreso nel linguaggio politico e artistico presumibilmente nella prima metà dell’Ottocento. Nell’ambito artistico, a partire dalla fine del XIX secolo, la nozione di avanguardia è utilizzata per caratterizzare i movimenti letterari ed artistici che volevano essere “più avanti" rispetto ai contemporanei. In quello politico è usato in riferimento al compito assegnato agli intellettuali liberali e progressisti, socialmente e politicamente impegnati, che assumono il ruolo di guida morale e ideale nelle battaglie politiche del liberalismo. Nella seconda metà del secolo in Francia il termine rimanda alle correnti della sinistra rivoluzionaria. Successivamente è stato usato anche da movimenti di destra.
Una definizione di avanguardia deve tener conto dei vari livelli in cui l’antagonismo si manifesta: politico, psicologico, culturale; comune a tutti è la propensione al ribaltamento della tradizione, delle norme e dei ruoli codificati. Nel suo intento di uscire dagli ordinamenti consolidati, l'avanguardia tende a costituirsi in istituzione alternativa, riunendosi in gruppi, collettivi, organizzazioni, partiti e sindacati, per valorizzare la carica di innovazione e di ricerca, tratto questo simile allo sperimentalismo, tipico delle avanguardie artistiche.
Le avanguardie si caratterizzano per l’attivismo, l’entusiastico senso dell'avventura, il piacere pieno dell’essere antagonisticamente opposti, la scarsa propensione ad accettare compromessi. L’opposizione alla cultura dominante può esprimersi in due modi: appartandosi o partecipando rumorosamente al dibattito pubblico. La funzione dell'avanguardia sociale o politica che sia, non è quella di separarsi dalla massa, ma di sviluppare la sua coscienza, elevare il livello della sua azione, conquistarne in prospettiva la direzione.
Minoranze attive
Le avanguardie sono definite da Serge Moscovici “minoranze attive” che si formano in condizioni di antagonismo e non hanno come fine la collaborazione con la maggioranza anzi, operano allo scopo di eroderne l’influenza. Devono pertanto sostenere posizioni chiare e alternative rispetto a quelle del gruppo dominante, rimanervi fedeli, non cedere alle pressioni della maggioranza, dotarsi di concezioni del mondo e comportamenti coerenti, condivisi e praticati. Fondamentali sono le capacità di incidere sull’insieme delle persone che subiscono l’oppressione del potere più di quanto non lo condividano. L'influenza minoritaria è un processo sociale che si verifica quando una minoranza è in grado di incidere sulla comunità di appartenenza mettendone in discussione alcune regole, credenze, opinioni.
Quando una minoranza diventa “massa critica” allora si scatena un processo di crescita di influenza. In fisica il concetto di “massa critica” indica la quantità di materiale fissile (uranio, plutonio), necessaria ad innescare una reazione a catena. Per analogia viene utilizzato per indicare un processo di cambiamento sociale indotto da una minoranza attiva quando raggiunge un certo numero che per quantità o intensità sia capace di innescare una reazione a catena. All’inizio un nuovo modo di pensare e di comportarsi si diffonde lentamente, ma ad un certo momento, quando il numero di chi adotta una nuova abitudine raggiunge una certa soglia critica, essa si diffonde con un ritmo molto più veloce. Si forma così una “massa critica” che scatena nella comunità una trasformazione sostenuta da una reazione a catena.
La maggioranza risponde al formarsi di minoranze attive e masse critiche in vari modi: col rifiuto contrastivo, il discredito e la repressione; col silenzio informativo, l’indifferenza oppure la derisione e lo sbeffeggiamento della minoranza; con la riduzione del fenomeno a spiegazioni psicologiche e patologico-caratteriali riconducibili a ragioni “naturali” che possono sfociare in determinazioni biologiche dei comportamenti per sesso, razza, etnia.
Avanguardie in formazione e fusione
L’avanguardia che adotta un comportamento di rifiuto delle “regole del gioco di una comunità politica, non riconoscendosi nelle finalità, nei valori e nelle istituzioni preposte alla vita pubblica, agisce per modificarle radicalmente” [Belligni, 358]. Sono atteggiamenti riconoscibili in specifici momenti storici che danno luogo a un’esperienza conoscitiva collettiva che spesso parte dal sentire “emozionale straordinario, sconvolgente, entusiasmante e appassionante, [è] un sovvertimento, una svolta, un nuovo modo di guardare il mondo e se stessi”; che si arricchisce fino a diventare dottrina, ideologia, mentre prima, all’inizio era soltanto l’intuizione sconvolgente che il mondo poteva essere modificato” [Alberoni, 17]. Sono quei momenti di effervescenza sociale che uniscono le coscienze individuali, le fondono e producono energia psichica che induce gli attori sociali “ad avvicinarsi più intimamente”; sono i momenti della storia “in cui le riunioni e le assemblee sono più frequentate, gli scambi di idee più attivi. […] In tali momenti, questa vita superiore è vissuta con un’intensità tale e in una maniera talmente esclusiva da occupare quasi completamente le preoccupazioni egoistiche e volgari. L’ideale tende allora ad essere tutt’uno col reale; ecco perché gli uomini hanno l’impressione dell’approssimarsi dei tempi in cui esso diventerà la realtà stessa” [Durkeim, 206-207]. Infatti, col concetto di “gruppi in fusione”, Sartre, ha voluto rappresentare quanto avviene dentro un movimento sociale di protesta, nel quale si costituiscono rapporti fra soggetti che acquisiscono coscienza di sé sulla base di esperienze di lotta e di vita vissute intensamente. Sono gruppi prodotti dalle circostanze, che imparano a “pensare se stessi”, a autorappresentarsi, senza mediazione istituzionale.
Il problema dell’avanguardia
Il problema dell’avanguardia si pone nel momento in cui non si ha mai una piena consapevolezza o coscienza del soggetto rispetto al mondo esterno con cui è in rapporto, quindi non totale consapevolezza della propria identità sociale e di ruolo nella struttura di un sistema socioeconomico. Negli interstizi fra questi due poli si colloca oggettivamente lo spazio per il formarsi e l’agire delle avanguardie, da non intendersi come i demiurghi del processo di cambiamento; esse si inseriscono nel concatenarsi del processo storico-sociale, esprimono lo stato d’animo dei movimenti di massa, ne orientano la spinta verso obiettivi praticabili, elaborano strategia e tattica. L’avanguardia dà senso e rinforza sentimenti diffusi e già esistenti, incanala il desiderio di cambiamento quando si manifesta, interpreta una situazione data. L’incontro tra intellettuali, ovvero tra pensiero critico e rivoluzionario, con la massa, cioè la pratica d’azione rivoluzionaria, avviene con l’intermediazione dell’avanguardia, parte più cosciente interna al movimento di massa, formata da elementi di provata esperienza, capaci di critica consapevole, dotati di spirito d’iniziativa, organizzati a formare l’infrastruttura umana del movimento antagonista.
Molto utilizzato dai movimenti sociali e politici degli anni Sessanta e Settanta, il termine avanguardia aveva due riferimenti storici e teorici: quello della tradizione politica leninista (il partito avanguardia del proletariato) e quello più legato a forme di autorganizzazione “spontanee” di particolari settori di classe in lotta contro il sistema.
Nel primo caso la nozione di avanguardia assume particolare rilievo con la formulazione da parte di Karl Kautsky, ripresa da Vladimir Lenin, della teoria secondo la quale il partito esplica il suo ruolo di guida e direzione introducendo dall’esterno la coscienza rivoluzionaria delle masse altrimenti incapaci di andare oltre una concezione ‘tradeunionistica’ o sindacale. La coscienza socialista, sosteneva Kautsky, è un elemento importato dal di fuori, non nasce spontaneamente dalla lotta di classe. Il partito è costituito da militanti di elevato livello politico, alcuni dei quali dediti alla politica a tempo pieno ("rivoluzionari di professione") ma, contemporaneamente, deve essere strettamente legato al movimento operaio, intervenendo coscientemente nel sindacato e nei vari conflitti di classe. Opposta la concezione passata alla storia col nome di sindacalismo rivoluzionario, elaborata dal francese Georges Sorel, che ebbe larga diffusione in altri Paesi, compresa l’Italia e negli Stati Uniti. Qui il sindacato è posto come agente principale e promotore del superamento del sistema capitalistico. Esso si sostituisce al ruolo del partito e lo critica esaltando l’azione diretta e spontanea delle masse. Al sindacato si assegna una duplice funzione: essere il più efficace strumento di educazione, agitazione e lotta, attraverso l’uso sistematico dello sciopero e altre forme di lotta, e insieme il nucleo principale della nuova economia dei lavoratori produttori e di un nuovo assetto del potere, basato sugli organismi di autogoverno operaio.
La riformulazione del problema
Nella seconda metà del Novecento questa “prassi” si arricchì col contributo della sociologia (inchiesta operaia, conricerca) e si legò a un procedimento che scopriva e costruiva assieme ad alcuni soggetti sociali o gruppi di individui ruoli attivi nel conflitto. L’utilizzo del termine avanguardia si diffonde in molteplici varianti: avanguardia operaia, sindacale, studentesca, interna ai movimenti di massa, di lotta, di fabbrica, movimento d’avanguardia, avanguardia di massa, secondo Maurizio Calvesi da intendersi come processo di appropriazione e riuso dei linguaggi delle avanguardie storiche da parte dei gruppi legati alle proteste giovanili e studentesche emerse a ridosso del '77.
Il ciclo di lotte operaie e studentesche inaugurò una nuova fase conflittuale e ridefinì la modalità dell’avanguardia poiché quel movimento sfuggiva in parte al controllo delle direzioni burocratiche delle organizzazioni operaie tradizionali, e produceva un soggetto sociale e politico nuovo capace di autoprodurre un’avanguardia larga, interna ai movimenti di massa nel tentativo di passare dalla fase della rivolta a quella della rivoluzione. Nello spazio esistente tra lo Stato e la società civile si costituirono gruppi extraparlamentari e partiti della cosiddetta nuova sinistra, mentre nelle fabbriche la rivolta operaia riproponeva istanze di rappresentanza operaia diretta con i consigli, i comitati di base, le assemblee autonome. Parve allora che la spontanea lotta operaia, studentesca e di altre minoranze oppresse non fosse più chiusa nello scontro corporativo sui singoli problemi ma, al contrario, esprimesse una coscienza politica complessiva.
Schematicamente, in polemica con Lenin, si poteva ritenere che la coscienza non fosse più fuori dalle masse perché cresceva come conoscenza nelle lotte in corso. Se così era, allora il discorso si ribaltava, non più partito da costruire come avanguardia esterna ma gruppi di minoranze attive, per dirla con la sociologia, volti a stimolare l’organizzazione rivoluzionaria, quindi al servizio dello sviluppo di forme di coscienza, di lotta e di organizzazione di massa. Un esempio era dato dalla pratica politica intrapresa dalle giovani donne in rivolta negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Diedero vita a gruppi “effimeri”, fragili, organizzativamente poveri e vacillanti, scarsamente strutturati. Non superarono mai la fase dei gruppi in fusione, anzi riprodussero quell’esperienza; sfuggirono così alla serializzazione, al processo di istituzionalizzazione che accompagna la storia degli sviluppi successivi agli impeti rivoluzionari. Due gli strumenti usati per darsi coscienza e autorappresentazione da parte delle donne in movimento: l’autocoscienza e il piccolo gruppo.
Juliet Mitchel definiva l’autocoscienza come “politica dell’esperienza” e rimandava ai metodi del sindacalismo anarchico, del situazionismo, del separatismo dei Black Power. I gruppi di autocoscienza furono utilizzati come strutture minime, semplici, elementari per prendere coscienza della loro specifica condizione di oppressione e di sfruttamento, per passare, “dal momento personale a quello politico e contemporaneamente porre i due momenti in relazione” [Mitchel, 66].
Vivere da avanguardie
Le avanguardie sono persone che scelgono di “donare corpo, intelligenza, emozioni alla politica” [Milanesi, 17], in una sorta di dissipazione delle proprie energie intellettuali e di se stessi, che mettono “interamente in gioco la propria vita” [Roggero], svolgono il ruolo di attori politici di parte, senza temere il sacrificio e la disciplina, ma condividendoli con la gioia derivante dalla consapevolezza di chi ha piena coscienza di sé e del ruolo propulsivo che può svolgere. Sono emozioni e motivazioni imparagonabili con le forme attuali della partecipazione politica, che ride sdentata di quel passato. Quello dell’avanguardia non è un impegno temporaneo o separato dal proprio essere sociale, ma è totalità di vita, lavoro quotidiano che occupa ogni angolo della vita dell’individuo, dà un senso all’indignazione e alla ribellione trasformandole in progetto rivoluzionario che consente a chi lo pratica di appropriarsi del controllo e del governo delle cose, recuperando una coscienza di appartenenza collettiva: la classe, il gruppo, il partito, la condivisione del divenire.
L’avanguardia agisce in funzione della trasformazione del sistema, non del suo miglior funzionamento, opera per concatenare l’esplosione delle contraddizioni. Vive nella quotidianità percorrendo dal basso verso l’alto e viceversa, la scala tra pratica e teoria, è quell’elemento intermedio che fa del conflitto sociale antagonismo politico. Ha vissuto il suo momento di gloria nella seconda metà del secolo scorso quando, in Italia, è riuscita a sostanziarsi teoricamente e politicamente con segmenti di classe di per sé in fase di separazione con la rappresentanza politica istituzionalizzata del Partito comunista, liberandosi anche dalla gabbia del conflitto economico racchiuso nelle maglie della contrattazione sindacale, cercando con l’azione collettiva di individuare le faglie del sistema per fuoriuscirne.
Poi la borghesia ha organizzato il ritorno all’ordine e ha sostituito l’avanguardia con la transavanguardia, per riprendere il filo della critica artistica, col ritorno alla tradizione attraverso il recupero di motivi e forme del passato mediante un procedimento di decostruzione e ibridazione postmoderno. Ritorno alla politica come pratica amministrativa e non trasformativa, revisione del passato, liquidazione e condanna del modo antagonistico di far politica, riassorbimento di aspetti dell’agire delle avanguardie nel sistema capitalistico mercificandoli e mettendoli a valore, disattivandone la valenza politica contestativa.
Movimenti senza politica
Fra le “vittorie” riportate dalle politiche neoliberiste nei decenni trascorsi occorre annoverare anche i successi ottenuti a livello culturale e politico nei confronti delle forme organizzative, dei movimenti antagonisti, - compreso il “vecchio” movimento operaio- e delle loro auto rappresentazioni in termini di lotta di classe. Scomponendo e destrutturando i soggetti, la visibilità del conflitto si fa opaca e il “colore vivo” dell’avanguardia sfuma verso un grigio triste.
Le lotte dei movimenti si trasformano in conflitti settoriali, marginali, “corporativi”. La realtà che prima era composta e organizzata, ora si frammenta, si scompone a tutti i livelli: dal sociale al politico, dal culturale a quello delle forme organizzate. Nella nuova narrazione del mondo il conflitto di classe lascia il posto a una conflittualità diffusa e multiforme, di tante entità sociali, prive però di quell’agire per il divenire e per il futuro che era stato tipico dei soggetti mossi dall’antagonismo di classe. La radicalizzazione è scomposta, frammentata, ibrida, evidenzia difficoltà a coordinarsi. I movimenti di protesta, critici verso la politica intesa come organizzazione strategica del cambiamento, pongono domande, segnalano sofferenze e ribellioni, quasi mai però sanno organizzare le risposte, le aspettano dai governi, dalla classe dominante, da un ceto politico che, sperano, sia finalmente nuovo e rinnovato. La protesta non diventa altro da sé, non si trasforma in critica dell’economia politica perché ha perso la capacità d’individuare il luogo delle contraddizioni che sono i rapporti sociali di produzione tipici di una formazione economico sociale capitalistica.
Sottovalutano, con tratti di ingenuità frettolosa, il progetto politico e la loro proposta alternativa di organizzazione sociale rimane debole, settoriale, sovente autoreferenziale. Così ad esempio accade per movimenti di lotta su specifiche questioni, ad esempio crisi aziendali, precarizzazione del lavoro, riforme di settore oppure su temi più generali e politici, come la difesa dell’ambiente, le tematiche antirazziste, la questione femminile e le recentissime “sardine”. Queste forme di movimento possono prodursi più o meno spontaneamente, intercettano una parte di settori popolari sulla base di una protesta/indignazione che riguarda un tema specifico.
Oggi l’agire da movimento ha un significato diverso e con esso quello di avanguardia, rimodellati entrambi dall’invasione di un pensiero diffuso di luoghi ormai diventi comuni: economia sociale, mutualismo, cooperazione fuori mercato, autoimprenditorialità diffusa, centralità dei bisogni primari, organizzazione in enclave autogestite alla ricerca di un’emancipazione intesa come piacere condiviso in piccoli gruppi che si “chiamano” fuori dal sistema.
Oggi, inchiesta e conricerca rivelano frammenti di spezzoni sociali, l’emergere di nuovi conflitti, di nuovi soggetti senza che alcuni di loro assumano funzione egemone, trainante, unificante. La presunta autosufficienza dei movimenti sociali ha dimostrato tutti i suoi limiti e la politica, che hanno voluto cacciare dalla finestra, è rientrata prepotentemente dalla porta e ha concesso loro la possibilità di essere gruppi di pressione all’interno di figure politiche già disponibili, cioè i partiti di governo e di opposizione che hanno buon gioco a inserirsi dando, nell’assenza di altre, le loro risposte.
Riemerge, irrisolto, il tema della riduzione a unità del diviso, frammentato e molteplice. Il movimento non può essere trasparente a se stesso, fare a meno della politica, ignorare il problema dell’organizzazione. Frammentato l’agire dei movimenti, settorializzati i conflitti (ognuno per sé, nessuno per tutti), venuto meno il polo sociale di attrazione magnetica, le avanguardie, sparute e disperse, traversano un periodo di indiscutibile smarrimento, “vanno avanti alla cieca, e ogni tanto si accusano tra loro di prendere il davanti per il didietro, lo Zenit per il Nadir”, sono “bussole impazzite”, riprendendo il titolo di un articolo di Amadeo Bordiga pubblicato sul n. 20 del 1951 di Battaglia Comunista.
Da questa spiacevole consapevolezza è necessario ripartire ribadendo che l’agire efficace dell’avanguardia comporta l’essere dentro le contraddizioni del reale, stare non con chi è oppresso ma con chi lotta contro l’oppressione per costruire controsoggettività, così la chiamava Romano Alquati, da contrapporre alla soggettività “spacciata” dal capitalismo, intrinseca al rapporto sociale di produzione e di sfruttamento. Controsoggettività non solo contro il capitale, ma anche contro il capitale che ci portiamo dentro. Ricomporre un soggetto smarrito e diviso, ritrovare la classe che non è data solo dagli indici di status e dalla collocazione all’interno dei rapporti di produzione - per quanto ovviamente questi determinino la base materiale su cui la questione classe si fonda - ma dalla lotta di classe.
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Alberoni Francesco, Genesi, Garzanti, Milano, 1989
Avanguardia e Sindacalismo rivoluzionario a questo link
Belligni Silvano, Estremismo, in Dizionario di politica, TEA-UTET, Torino, 1992
Calvesi Maurizio, Le due avanguardie, Roma-Bari, Laterza, 2008
Durkheim Emile, Giudizi di valore e giudizi di realtà, in Sociologia e filosofia, Comunità, Milano, 1963
Milanesi Franco, Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, Punto Rosso, Milano, 2010
Mitchell Juliet, La condizione della donna, Einaudi, Torino, 1972
Moscovici Serge, Psicologia delle minoranze attive, Torino, Bollati Boringhieri, 1981
Roggero Gigi, Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe, Derive Approdi, 2016
Sartre Jean-Paul, Il rischio della spontaneità, la logica dell’istituzione, «il manifesto», n. 4, settembre 1969. Al tema Jean-Paul Sartre ha dedicato molte pagine del suo Critica alla ragion dialettica, Il Saggiatore, Milano, 1963