Tra dispersione scolastica e scelta per l'autonomia

Dell’intervista che presentiamo ci sembra importante evidenziare due elementi che caratterizzano un pezzo consistente della composizione studentesca e che continuiamo a riscontrare nelle nostre esplorazioni nel mondo giovanile. Da un lato la scuola perde sempre più di senso per una crescente porzione di studenti e studentesse. L'ipotesi è che i processi che l'hanno resa sempre più simile al mondo del lavoro, che possiamo indicare con il termine di «lavorizzazione », abbiano avuto un impatto espulsivo su una quota di popolazione studentesca; di spersonalizzazione (senza alcun giudizio di valore) sulle relazioni tra docenti e discenti e non da ultimo che l'abbiano privata di una finalità significativa agli occhi dei e delle giovani. Perché impegnarsi in un'attività di apprendimento sempre più meccanica che non garantisce la conquista di alcuna forma di autonomia? Dall'altro lato quindi sembra che una parte degli studenti e delle studentesse insieme al rifiuto per la scuola tradizionale scelga i percorsi formativi che promettono una più veloce indipendenza economica dalla famiglia. Pertanto optano per la formazione professionale che consente o dovrebbe consentire un più rapido accesso al mercato del lavoro. Senza nascondere la rilevanza dei processi, tra cui la già menzionata lavorizzazione della formazione, che sottostanno alla produzione della dispersione scolastica abbiamo la necessità di evidenziare le istanze soggettive in quanto sono politicamente più rilevanti. Un altro dato significativo, anche questo ridondante rispetto ad altre nostre inchieste esplorative, che emerge da questa intervista riguarda il profilo di chi lavora presso questi enti. Si tratta perlopiù di soggetti che scelgono questo mestiere anche o soprattutto per l' «impegno sociale » che ne caratterizza la sua mission (per usare un termine aziendale). Come accade nel cosiddetto mondo del sociale o del terzo settore il salario psicologico (misurato in termini di relazioni, di coinvolgimento, di senso, di riconoscimento) a cui il lavoro nella formazione professionale consente di accedere compensa i magri e precari salari monetari.
Quando usiamo il termine formazione ci riferiamo solitamente al mondo della scuola; negli ultimi anni però sono diventati molteplici gli attori coinvolti in questo ambito. Tu per esempio…
Io sono laureata in magistrale in sociologia e servizio sociale e poi ho iniziato a inserirmi all'interno del mondo della formazione, nello specifico in quella che viene definita formazione professionale. Lavoro o meglio lavoravo, per un ente regionale che si occupa appunto di formazione professionale in tutta l’Emilia-Romagna. In particolare io sono una “collaboratrice” quindi diciamo che non ho una mansione specifica e ho collaborato anche con altri enti. Ci sono infatti vari gruppi, strutture ed enti che si occupano della formazione professionale, questa si basa in generale sull'imparare facendo ma vi sono progetti e tipologie di corso diverse con diversi obiettivi e quindi diversi utenti. Sulla base di questo l’ente attiva delle collaborazioni differenziate: con altri enti, scuole, uffici di collocamento…In tutti i casi però si tratta di una formazione che tende ad avviare un percorso di inserimento nel mercato del lavoro. A distanza di tre, sei mesi si valuta anche quali corsi hanno funzionato, ossia se vi è stato un effettivo inserimento dei soggetti coinvolti oppure no.
Parlando dei corsi, sono a pagamento? Di che tipo di progetti si tratta?
No, anzi sono tutti gratuiti. Possono essere corsi per minorenni di re-inserimento scolastico; per maggiorenni senza titolo di studio; categorie protette; soggetti in stato di fragilità. Per quanto riguarda la formazione professionale poi si può spaziare in più direzioni. Sono corsi che hanno l’obiettivo di professionalizzare: per diventare parrucchieri, estetisti o elettricisti. Ci sono dei corsi specifici per persone maggiorenni che non hanno mai conseguito un titolo di studio, che quindi rilasciano una qualifica per uno specifico mestiere. Alcuni di questi corsi sono partecipati per il 99% da una componente migrante, ma le tipologie sono diverse. Ho visto persone adulte che a cinquant’anni magari non hanno mai avuto il lavoro o che in seguito a un grave incidente hanno un handicap e si devono ri-professionalizzare perché non possono più fare il lavoro che facevano prima. Altri corsi sono avviati per categorie protette o per soggetti in stato di fragilità. Ci sono poi per esempio i corsi per la sicurezza che sono obbligatori per accedere ad altri corsi, a percorsi di tirocinio, corsi per acquisire competenze trasversali. Si tratta appunto di percorsi di inserimento nel mercato del lavoro che ti fanno fare le tappe necessarie anche se sono più di una. Ogni corso ha un target e in base a questo l’ente si deve organizzare. L’ente è poi solo l’attuatore del corso, e si occupa di trovare i collaboratori, i tutor, i docenti necessari attraverso una rete di rapporti che si è creata. Praticamente l’ente si appoggia ad altri attori, sia privati che hanno a disposizione docenti, oppure anche scuole o aziende. Dipende anche dalla dimensione e capacità dell’ente, dagli spazi che ha a disposizione, dal personale specifico. Il mondo del sociale crea delle reti da cui attingere: ci sono collaboratori che vengono assunti per progetti specifici che possono anche lavorare già per altre cooperative, molti vengono assunti dopo aver svolto il servizio civile. I progetti poi vengono assegnati anche in base alla capacità reale di un ente di attivare un progetto oppure no. Le collaborazioni che si vengono a creare sono sporadiche, servono a coprire le necessità sulla base dei vari percorsi. Questi ultimi non sono fissi: gli enti presentano un’offerta costante che permette loro l’esistenza e poi chiaramente per fortificarsi attivano altri progetti perché appunto più cose fai più avrai possibilità di farne altre.
Tu sei stata assunta come collaboratrice sia per corsi per adulti che per minorenni...
Quando si tratta di corsi per minorenni si va a pescare in quel bacino di dispersione scolastica che si crea nella scuola tradizionale. I corsi vanno quindi a supplire quel vuoto che si viene a creare nelle scuole; in Italia la distinzione è tra licei, istituti tecnici o istituti professionali. Gli istituti professionali anche dopo i tre anni rilasciano una qualifica professionale, dopo i cinque anni se fai un esame di maturità ti viene consegnato un diploma. C’è l’obbligo d’istruzione fino ai sedici anni (finalizzato al conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il 18° anno di età), mentre quello formativo (diritto/dovere dei giovani che hanno assolto all’obbligo scolastico, di frequentare attività formative) è fino all’età di 18 anni. Molti ragazzi che prendono parte ai corsi offerti dagli enti sono soggetti segnalati dalle scuole perché non frequentano o per ragioni che riguardano la condotta o ragazzi che dopo la seconda bocciatura non possono iscriversi nella stessa scuola. Magari fanno la seconda superiore vengono bocciati per le assenze o per delle carenze a livello di valutazione e non possono ripetere l’anno nella stessa scuola e devono cambiare per non perdere definitivamente i titoli acquisiti fino a quel momento. Star dietro a queste persone richiede anche un investimento in termini di servizi sociali, di assistenza, di collaborazione, di creazione di legami diretti. Le scuole sono tenute a segnalare uno studente che per un certo periodo non va a scuola. Se la scuola è una scuola che sta dietro a queste cose e magari «rompe i coglioni», si attiva in merito. Molto spesso questa cosa non produce l’effetto sperato. Il problema della scuola è che gli studenti non vedono o non riescono a leggere un'utilità in quello che fanno. Nel mio percorso mi sono trovata ad avere a che fare con dei ragazzi che ti dicono «io sono passata alla formazione professionale perché appena compio 18 anni voglio andare a lavorare, perché voglio dei soldi in tasca». La formazione professionale ha un rapporto molto stretto con il mercato del lavoro. Già il fatto che quasi tutti i corsi hanno come obiettivo un tirocinio significa che tu studente sai che il 35/50% della tua attività è fatta da un'attività lavorativa. Starai veramente in un'azienda e non si tratta di un tirocinio fatto a caso, nel senso che se tu fai il tirocinio di estetista lo farai sicuramente da un'estetista o all’interno di negozi che si occupano di prodotti estetici. Se tu fai il corso da elettricista, commessi idem. Un ragazzo a sedici anni può scrivere sul curriculum «ho fatto tre mesi nel negozio X in centro nella mia città ». In alcuni casi il rapporto si viene a creare direttamente con il titolare del negozio.
All’interno degli enti chi svolge questo ruolo di supporto nei confronti dei ragazzi?
Spesso il personale che opera nella formazione professionale ha una preparazione di tipo psicologico o da assistente sociale; in genere si tratta di persone che non hanno una preparazione specifica sulle materie, per quello ci sono appunto i docenti delle varie materie tecniche. Chi opera all'interno di questo contesto viene spesso dal mondo delle cooperative o dall’associazionismo: l'intervento che si fa è a tutti gli effetti un intervento sociale. Bisogna cioè creare un contatto con gli studenti di persona e stabilire una relazione.
Come ha influito il lockdown sul tuo lavoro? Sono continuati i corsi?
Io ho perso praticamente quasi tutto il mio lavoro visto che mi occupavo di un tirocinio che non si è più potuto svolgere. L'unica mansione che mi era rimasta era in relazione a dei corsi per ragazzi delle scuole medie in dispersione. Il problema è stato che se già venivano poco a scuola in una situazione normale, molti si sono definitivamente persi nonostante si sia provato a «stargli dietro». Questa è anche la differenza con la scuola tradizionale: in una scuola di 800 ragazzi a Bologna il/la preside della scuola non sa nemmeno chi sei. Quando hai meno studenti, puoi conoscere la storia di ognuno, conosci i genitori, il nome e il cognome e anche loro si sentono molto più seguiti. Una volta mi è capitato di vedere un ragazzo appena arrivato, il primo giorno è uscito fuori e ha iniziato a fare una canna, al che l’ho guardato e gli ho detto «cosa stai facendo tu?». Loro sono abituati al fatto che nessuno sa chi sono. Qua mi è anche capitato che ti chiamano al cellulare o ti dicono «ti mando un WhatsApp ». Alla stessa maniera gli scrivi tu se non si presentano a scuola, questo li fa sentire molto di più in contatto rispetto alla scuola in cui al massimo ti arriva una notifica sul registro elettronico. In generale comunque anche dai colleghi so che la partecipazione ai corsi durante il lockdown è diminuita.
Se dovessi quindi delineare il profilo dei ragazzi e delle famiglie che prendono parte ai corsi…
Ci sono casi diversi, nel senso che ti può capitare il ragazzo migrante che magari è in Italia da due anni e che non spiccica ancora una parola di italiano, a scuola magari ti viene quella volta ogni tanto e alla sufficienza in italiano o in letteratura non ci arriverà; quello che è stato bocciato perché a scuola ci viene una volta ogni morte di papa, magari non ha mai fatto né un compito in classe né un’interrogazione; ci sono ragazzi che semplicemente non hanno interesse nella scuola così come altri certificati come DSA per esempio. Le famiglie sono presenti in alcuni casi e in altri no, varia molto. Un elemento importante è anche riconoscere che nella scuola normale ci sono i programmi: tu docente devi arrivare alla fine dell'anno che hai finito il tuo programma. Nella formazione professionale ci sono dei livelli e delle competenze a cui tu devi portare i ragazzi e l’obiettivo dei corsi è in quell’anno (o nei due anni) portare tutti a fare quelle cose; alcuni te li tirerai dietro, per altri sarà più o meno facile, ma alla fine l’obiettivo lo completeranno tutti. La differenza è che mentre nella scuola tradizionale è bocciato chi non ce la fa e rimane a terra perché la classe deve andare avanti, nei corsi di formazione professionale l'obiettivo è portarli tutti alla fine. Il primo anno di superiori, sia che tu sia stato bocciato o che tu sia stato promosso, ti viene riconosciuto quando tu passi alla formazione professionale e quindi inizi direttamente il secondo.
La scelta di prendere parte a questi corsi ti sembra sia dello studente o invece imposta dalle famiglie?
Ci sono quelli che ci inciampano, che magari dicono «la scuola non la posso fare o non la voglio fare più, io a scuola non ci voglio più andare», però devono continuare ad andarci per forza e quindi scoprono per necessità l’esistenza della formazione professionale, talvolta anche indirizzati dalle scuole stesse. Altre volte sono le famiglie a spingere per la formazione professionale nel caso in cui i ragazzi abbiano già smesso di frequentare la scuola e quindi presentano l’opzione di andare a lavorare come l’unica. Alcuni addirittura scelgono già l’anno prima (intorno a gennaio) di passare al professionale anche perché i posti sono limitati. Nel mio caso poi quello che ho visto è che molto spesso sono i ragazzi stessi a scegliere, preferiscono fare qualcosa che gli dia la sensazione di imparare davvero e sapere che poi un domani potranno guadagnare. Non è tanto il fatto che la scuola non insegna tanto, ma quanto che loro a diciotto anni vogliono avere dei soldi in tasca, vogliono essere autonomi dalla famiglia. Vedono nel percorso della scuola di 5 anni più un’ eventuale università (che spesso non è minimamente considerata) una cosa che non finisce mai. Mentre con i due anni di formazione professionale poi tu sai che quando finisci hai una certificazione che attesta che sei elettricista o parrucchiere.
Per quanto riguarda una possibile bocciatura?
Non esiste la possibilità, l'unica cosa che ho visto è stata la non ammissione all'esame però in rari casi di assenza totale.
Pensi ci siano delle differenze quindi anche per quanto riguarda i docenti?
Sì, presso gli enti è presente anche un discorso di impegno sociale, c'è un altro tipo di rapporto, più stretto, eccetera. Ho conosciuto ragazzi che non sapevano neanche il nome del loro docente della scuola «normale». Influisce penso anche il percorso di come uno diventa docente. Nel senso che in Italia abbiamo i concorsi, le graduatorie, le messe a disposizione. Si tratta poi di aspettare la telefonata, l'assegnazione ad una scuola, magari per qualche mese, poi un'altra e via di questo passo. Quando entri nella formazione professionale fai una scelta di un certo tipo, nel senso che sei consapevole che fai un lavoro in cui ti interfacci con dei soggetti spesso di un certo tipo. Sono quelli che sono stati quasi buttati fuori dalla scuola, che la scuola non è riuscita a tenere dentro. Penso che di questa cosa se ne sappia veramente poco. Io ho scoperto tutto questo mondo totalmente per caso, ma mi ha fatto aprire gli occhi sull’insufficienza della scuola tradizionale. Non voglio generalizzare sui docenti, però è ovvio che un docente che deve per forza finire quel programma, che ha un tot di ragazzi in ogni classe, non conoscerà mai ogni persona con cui ha a che fare e non potrà mai prestare attenzione alle difficoltà del singolo studente. Con il lockdown per esempio, abbiamo comunque mantenuto un contatto con i ragazzi tramite i cellulari e ti possono anche scrivere alle tre o alle quattro del mattino. Nella scuola tradizionale c'è proprio un muro: io docente entro, faccio lezione, spiego quello che devo spiegare, so di dover arrivare a mettere almeno tre voti ad ognuno.
Cambiano quindi i requisiti e le materie?
Sì, ci sono molte poche materie, le discipline di base sono: italiano, matematica, storia, inglese. Per il resto sono le materie specifiche della professione per la quale fai il corso. Si crea un rapporto molto stretto tra i ragazzi e delle figure che, come ti dicevo, non sono presenti per insegnarti la materia ma si occupano proprio di sapere che tu venga a scuola, di stare dietro al fatto che il corso sia fatto in un certo modo, e che anche i docenti facciano quello che devono fare. Nelle scuole talvolta invece il tutor di una classe può anche essere un docente e non è detto che abbia quell’accortezza, quella sensibilità, quella predisposizione all'ascolto ma anche l’ empatia, necessaria. Capacità essenziali specialmente con i minorenni perché sei tu che devi capire se c'è un problema e ci riesci aiutato dal fatto che lo vedi tutti i giorni, lo conosci e ti accorgi subito se qualcosa non va. Pretendere da un docente che fa non so quante ore in una classe e poi nell’altra, che non so quanti programmi abbia, che sia anche capace di tenere il punto della situazione in merito a ogni studente, mi sembra eccessivo. O c’è un personale specifico adatto o non si può riuscire.
Tu lavorerai ancora lì a settembre? Come ti sembra stia impattando la crisi Covid-19?
Io non lo so ancora, i corsi si stanno organizzando ma nell’incertezza. Penso che questa situazione abbia dato una bella batosta al mondo della formazione professionale. Da una parte non si sono potuti e forse non si potranno attivare dei tirocini, qualcuno è riuscito a fare delle cose tramite delle piattaforme multimediali, magari le esercitazioni per i colloqui, o si organizzavano attività alternative. Però capisci bene che se tu un ragazzo lo hai agganciato perché gli hai detto che avrebbe fatto 600 ore in cui sarebbe stato anche in laboratorio ad imparare ad attaccare delle lampadine, o a fare l'estetista, a fare i colori con delle persone che fanno quello di lavoro nella vita con la scuola online diventa tutto più difficile. Diventano delle lezioni frontali e è più difficile tenere i ragazzi agganciati, io ti posso pure fare vedere il video di come si fa una cosa, però ha un altro senso portarti in un laboratorio, portarti in un punto vendita a piegare magliette. Ho sentito colleghi che raccontavano che hanno fatto molta fatica a tenere concentrati i ragazzi perché viene a mancare la forza della formazione professionale che è appunto la parte pratica. L’altra difficoltà che ci sarà, vedendo dall’esperienza passata, sarà in relazione proprio ai mezzi. Non tutti hanno i cellulari che reggono “Zoom”, non tutte le famiglie hanno un figlio unico o un computer per ogni figlio. Ho visto anche ragazzi chiedere alla professoressa come fare perché avevano finito i giga sul telefono.
Per quanto riguarda le tue prospettive future invece quali opzioni hai?
Io ero assunta come ti dicevo con contratto di collaborazione, sono contratti totalmente legati ai corsi, hanno un inizio e una fine determinati di cui ero ovviamente al corrente. Ci sono corsi diversi appunto, da tre mesi, trecento ore o quindici. Tu puoi svolgere mansioni diverse a seconda del corso e vieni inserita come tutor o coordinatrice o sostegno. Quando il corso finisce, termina anche il tuo contratto. Sapendo che funziona in questo modo capita spesso di avere più di un contratto contemporaneamente. Mi è capitato di svolgere ruoli differenti per lo stesso ente, chiaramente poi ogni corso in base al numero di ore e al ruolo che svolgi ha una retribuzione differente. Con il coronavirus purtroppo come ti dicevo prima c'è un grande punto interrogativo, non si sa se aprirà la scuola normale figurati se si è disposti ad investire dei soldi per la formazione professionale. Detto questo se i corsi partono c'è della speranza.
Di trovar lavoro?
Di trovar lavoro sì. In Emilia Romagna sono tantissimi i progetti su cui investe la regione, ci sono anche enti con più sedi. Per quanto riguarda chi ci lavora si crea un meccanismo per cui sono le stesse persone a lavorare per enti e progetti diversi, una specie di ricircolo di collaboratori, e allo stesso tempo il contenitore da cui attingere tramite il servizio civile, i vari tirocini legati all’università e altri progetti, è un circuito è molto vasto. Sono/siamo anche gli stessi che riempiono le cooperative che comunque lavorano anche nel mondo della formazione tramite collaborazioni specifiche con le scuole, alla fine rientriamo tutti nel mondo del sociale.