Tirare a Campari. Mobilitazioni nell'industria della ristorazione

Siamo ormai a un anno esatto dall’inizio della crisi pandemica: nonostante i deboli tentavi istituzionali di rassicurare la popolazione su una possibile «luce alla fine del tunnel», la fine delle chiusure a singhiozzo sembra essere ancora molto lontana. Tra i settori più colpiti dalla gestione della pandemia, quello della ristorazione è stato sicuramente uno di quelli anche più interessati da agitazioni di piazza, più o meno conflittuali e più o meno continuative. Un settore, però, tutt’altro che monolitico: dai piccoli bar a conduzione familiare agli innovativi locali che fanno del mangiar bene e del bere bene un vero e proprio cuneo di innovazione capitalista, nel mondo del c.d. «Food&Beverage» si intravede la contraddizione di una crisi che colpisce diversamente apparati produttivi simili. Partendo da una lettura delle recenti piazze genovesi (l’ultima il 22 febbraio 2021), Alex Hammond dà una prima, preziosa analisi delle trasformazioni in atto nell’industria dello svago e della ristorazione.
A più di un anno dall’inizio della crisi pandemica non sembrano esserci particolari segnali ad indicarne una possibile fine. Salvo un’effimera parentesi felice in estate, durante la quale l’appiattimento della curva di contagio aveva permesso l’allentamento delle misure di contenimento, i restanti periodi dell’anno sono stati caratterizzati da lockdown e chiusure a singhiozzo.
La situazione economico-sociale ha raggiunto ormai punti di non ritorno, ma non sembra, almeno apparentemente, aver colpito ogni settore allo stesso modo. La forte digitalizzazione dell’economia ha dimostrato infatti la sua capacità di mettere un argine all’impossibilità di spostamento fisico mentre l’ormai immenso apparato di e-commerce ha aumentato notevolmente la propria capacità di penetrazione nelle maglie dell’economia mondiale, aumentando, in alcuni casi anche visibilmente, il proprio fatturato. Questo non significa per forza un reale aumento della ricchezza, ma non siamo qua a cercare il pelo nell’uovo.
Altra grande protagonista di questa epoca pandemica è, senza ombra di dubbio, la digitalizzazione del lavoro: diminuzione del costo aziendale, performatività sul piano temporale e iperconnettività sono solamente alcune delle caratteristiche che rendono il telelavoro (anche se sarebbe più puntuale parlare di smart working inteso come lavoro “agile” capace di adattarsi a diverse situazioni) non un semplice sintomo di un periodo emergenziale – di smart working si parlava infatti già prima dello scoppio della pandemia, per ovvie ragioni – ma come la possibilità di rifondare lo spazio produttivo su una temporalità ancora più relativa (basti pensare a come salti, in queste condizioni determinate, qualunque rapporto tra lavoro e orario di lavoro).
In tempi di pandemia, senza ombra di dubbio, sono i grandi aggregati ad aumentare le curve di contagio: senza aggregati umani, diventa difficile anche la diffusione virale. Questa è stata la grande lezione della globalità: più veloce viaggia un vettore umano, più velocemente viaggiano con lui merci, informazioni e virus. Ma la digitalizzazione dell’impianto logistico può creare una rottura su questo piano, facendo viaggiare informazioni senza bisogno di far circolare, con esse, vettori umani.
Tuttavia i sogni un po’ perversi di un’umanità computazionale, intesa come capitale umano in-formazione, si scontrano con rigidità economiche reali che attraversano tutta la globalità economica. Telelavoro e smart working potranno anche essere il sogno dell’economia numerica dei vari Elon Musk, ma il ciclo produttivo non vive di soli numeri (e nemmeno Elon Musk, ma con ogni probabilità anche lui ne è perfettamente consapevole [1]): ha bisogno che quei numeri si fondino su un qualche presupposto – già sempre “posto”, per chi volesse malauguratamente sputare su Hegel rendendosi poi conto che se si sputa in aria si hanno buone probabilità che non finisca in modo simpatico.
Queste rigidità economiche vivono di aggregati umani, non virtualizzati, ma ancorati saldamente a un piano reale di formazione sociale. Possiamo gestire l’ordine di trecentomila chili di pomodori italiani da inviare in Germania tramite grossi treni merci guidati da un singolo uomo o da un algoritmo, ma avremo comunque bisogno di decine di lavoratori disposti a raccogliere quei pomodori, decine di lavoratori per caricare e scaricare il camion, e altre decine di lavoratori pronti a inserire quei pomodori nei banco-frutta dei supermercati.
Questo, a ben vedere, ha creato una forma di clusterizzazione dei sistemi sociali di lavoro. Ogni luogo in cui si rende necessaria un’aggregazione umana è, in tempi pandemici, già da subito un potenziale cluster di contagio. Potrebbe esserci una naturale tendenza alla virtualizzazione massiccia del lavoro, spesso riproduttivo, per poter ridurre al minimo la clusterizzazione del lavoro produttivo?
Il toyotismo si presta, nella sua organizzazione logistica (cioè senza tenere conto di tutto quel lato creativo che vedremo in seguito), alla formazione di gruppi di lavoro limitati e a stretto contatto gli uni con gli altri, così da limitare la circolazione di informazioni, idee e condizioni di produzione di un certo prodotto. Certo il toyotismo pareva essere, nelle sue iniziali forme di sviluppo, un sistema di organizzazione del lavoro più adatto ai settori riproduttivi che produttivi (questa distinzione, per quanto labile, ha forse ancora senso di esistere). Ma se ad oggi la maggior parte dei settori riproduttivi subisce un processo di digitalizzazione, un’organizzazione del lavoro che si caratterizza per il contenimento di persone e idee può tranquillamente essere adattata a sistemi produttivi: la massificazione della cassa integrazione nelle grandi fabbriche per ragioni di tipo economico è diventata ad oggi mezzo fondamentale per ridurre i vettori di contagio – meno lavoratori, meno aggregato, meno spesa, meno circolazione del virus (almeno nelle fabbriche occidentali, ma noi qua stiamo e qua guardiamo).
Ma se la parcellizzazione dell’organizzazione sociale sta dimostrando una capacità adattiva fuori dal comune, pure su un terreno scivoloso come quello della contrazione del mercato del lavoro, dell’aumento delle sacche di disoccupazione e della caduta della domanda, esistono settori che non possono adattarsi a questi meccanismi di ristrutturazione. I settori a cui facciamo riferimento, protagonisti nei giorni scorsi di una serie di “agitazioni” e manifestazioni sul territorio nazionale, sono quelli dello spettacolo, della ristorazione e del turismo: tutti quei settori, cioè, che vivono dell’aggregazione come presupposto essenziale.
Anche in questo caso parliamo di settori profondamente ambigui: segmenti che si confrontano sia su un piano riproduttivo – il consumo di tempo libero inserito in specifici binari funzionali ad un certo tipo di socialità (blablabla) – sia su un piano più propriamente produttivo: esiste un fatturato ed esiste un peso specifico sul PIL nazionale che, in alcuni casi, non può passare inosservato.
La pandemia ha avuto un impatto catastrofico su questi settori condannandoli a una vera e propria produzione a singhiozzo che è andata a pesare, e questo non lo possiamo ignorare, anche sui grandi colossi internazionali che su quel settore stavano facendo un investimento di alto livello. Interessante sarebbe indagare sulle perdite di guadagno relative di una azienda come Campari che, per chi non lo sapesse, è leader nel settore a livello mondiale.
E qui bisogna compiere un primo passo epistemologico per l’analisi delle realtà del Food&Beverage: non si può più immaginare solo la vecchia bottega novecentesca che compra piccoli lotti di prodotto per una clientela da dopolavoro o una clientela di quartiere. Bisogna riuscire a immaginare un lungo filo conduttore che lega l’azienda produttrice alla singola realtà territoriale nel circuito riproduttivo, se così possiamo dire – marketing, prezzi, merchandising, guest, ecc… – dopodiché si deve pensare a un secondo piano, produttivo (?) di distribuzione del prodotto tramite i grandi distributori o altre forme di intermediazione [2]. Si può immaginare, quindi, come un sistema del genere rimetta costantemente in discussione le forme di organizzazione produttive e riproduttive.
Inciso: il rapporto tra produzione-riproduzione in una realtà complessa e stratificata come quella del Food&Beverage non può in alcun modo essere sciolta facilmente, tuttavia è vitale tentare di problematizzare, in qualche modo, quello che sembrerebbe essere il nodo centrale delle nuove forme di ristrutturazione capitalistiche sul piano sociale.
In questo nuovo sistema produttivo il barista, e anche il cameriere stesso in qualche modo, ha subìto una modificazione semantica molto difficile da immaginare: non è più un “riempibicchiere” o un “porta-comande”, ma è diventata una figura professionale profondamente complessa, molto formata e altamente specializzata. La capacità di riuscire a preparare un numero non identificato di comande mentre si spiega al cliente (x) le caratteristiche specifiche di un prodotto richiede una discreta professionalizzazione.
Formazione costante, brainstormig, creatività, inventiva: queste sono tutte parole profondamente ricorrenti nel mondo della Industry. Ci suonano familiari? Penso proprio di sì.
Questo, però, non vuol dire che nel mondo della ristorazione non esistano e non abbiano un enorme peso anche realtà che potremmo definire “di bottega”, con clientela limitata, meno formate sul piano del prodotto, con meno forza di contrattazione sul prezzo di vendita all’ingrosso, spesso realtà che comprano da grandi magazzini quali Metro, SogeGross. Queste sono realtà spesso profondamente legate a un territorio che a volte è identificabile con una via, un quartiere, una piazza, che vivono di rapporti clientelari e familiaristi, poco inclini a misurarsi su uno spazio di comunicazione mediatica. [3]
Il nodo di connessione però è lo stesso medesimo: annullando le forme di aggregazione si annulla la possibilità di riproduzione dei presupposti – sempre posti, non dimentichiamolo – di sopravvivenza tanto delle caratteristiche di bottega che di quelle della Industry. Sia i primi che i secondi hanno subìto immensi crolli di fatturato e molti sono andati verso la chiusura definitiva dell’attività.
Questo perché nelle realtà del “consumo massificato” la parolina magica che tutto muove è proprio quest’ultima. Il sogno sci-fi della massificazione del delivery rimane una perversione, ad oggi impossibile, di un gruppo di nerd computazionali; questo sia perché realtà come Just Eat chiedono una commissione del 20-25%, sia perché, per ora, la massificazione non è riuscita a sfondare il piano della virtualità territoriale. Quella capacità di connessione logistica che fa di Amazon uno dei più grandi colossi dell’economia è ad oggi impossibile per un segmento, come quello della ristorazione, che abbisogna di una modalità di “consumo immediato” (nonostante Amazon e le grandi aziende di delivery si basino su un meccanismo similare: diversificazione e moltiplicazione infinita di micro-offerte).
Quando il mondo berrà e mangerà in pillole o liofilizzato allora le aziende di delivery riusciranno davvero a massificare la loro catena di distribuzione, ma, hic et nunc, non ci interessa una prospettiva fantascientifica e, quando sarà, ci immaginiamo già a guidare una blindocisterna su distese infinite di terra brulla inseguiti da branchi di fanatici steampunk.
Con questa specifica situazione di sfondo ha preso forma la protesta del comparto della ristorazione. Un primo flebile tentativo di “disobbedienza” era stato praticato negli scorsi mesi non trovando però terreno abbastanza fertile per riprodursi: i ristoranti che avevano tenuto le serrande alzate, nonostante i divieti, erano pochi, poco organizzati e sono così andati incontro a salate sanzioni in più di una occasione. A ben vedere, tuttavia, non siamo di fronte ai primi movimenti di protesta di questo specifico settore, potremmo anzi dire che forme più o meno forti e più o meno riuscite di agitazione hanno accompagnato la quasi totalità dell’anno pandemico. Proprio a marzo e aprile dello scorso anno prendeva forma un movimento, durato molto poco a onor del vero, chiamato “movimento delle saracinesche”, un agglomerato informe di ristoratori, commercianti e imprenditori turistici aveva stilato un programma che li avrebbe dovuti fondare come “organizzazione politica”. Le principali proposte del MOSA erano: stop alle locazioni commerciali (che verrebbero prese in carico dallo Stato), cancellazione delle tasse per il periodo di inattività, proroga delle cassa integrazione per i dipendenti, eliminazione degli oneri contributivi dei dipendenti per tutto il periodo di chiusura, annullamento delle commissioni alle banche per l’utilizzo del Pos, blocco delle nuove licenze per evitare concorrenza eccessiva, “helicopter money” (ovvero erogazione di liquidità immediata per far ripartire l’economia).
Chiaramente posizioni profondamente situate in una specifica prospettiva. Si narra che lo spirito del buon vecchio Milton passasse spesso a prendere il caffè, ma questa è solo una leggenda metropolitana.
La grande differenza tra questi primi, flebili, movimenti di opinione e le piazze degli ultimi giorni sta nella composizione specifica. Se nelle prime battute di quel movimento si potevano intravedere i germi di un piagnisteo di categoria, timoroso di perdere i propri privilegi e i propri guadagni in un’epoca nella quale la mediatizzazione del mangiar bene e del bere bene stava trasformando un bene di lusso in un bene necessario (l’ambivalenza dei beni posizionali in una società a complessità variabile è comunque un nodo interessante in ottica riproduttiva), le agitazioni degli ultimi tempi lasciano intravedere un magma meno composito, figlio di una reale sofferenza che sta, forse, anche dimostrando l’esistenza di abissi intercategoriali, ovvero l’impossibilità dell’identificazione, anche solo forzata e faziosa, tra una specifica categoria e una classe determinata; anzi, proprio la modificazione (strutturale?) e fluidificazione delle strutture monolitiche di categoria sta dimostrando una sempre maggiore caratterizzazione interclassista delle stesse.
Inciso II: non siamo qua a dire che le piazze in questione abbiano un’immediata istanza di classe: diciamo proprio il contrario, sembrano cioè aver perso la loro connotazione specificatamente di classe (per non lasciare spazio a dubbi: non era un’istanza di classe a noi affine).
Ristoratori e lavoratori del comparto della ristorazione, gestori di palestre e loro dipendenti, lavoratori dello spettacolo e liberi professionisti: la piazza riusciva a tenere insieme, anche se ovviamente con una colla scadente, diverse istanze stando attenta a convogliarle su rivendicazioni che siano comuni – riaperture, casse integrazioni puntuali e con somme realmente similari al netto in busta paga, richiesta di poter montare i dehor anche in zone arancioni dando specifiche regole alle quali attenersi. Possiamo avere un’opzione anti-padronale quanto vogliamo, ma se i locali in cui lavoriamo restano chiusi la realtà dei fatti è che moriamo di fame.
A differenza delle prime rivendicazioni portate avanti da esperienze come il Mosa (Movimento delle Saracinesche), che, come abbiamo già notato, si inserivano in un preciso contesto, qui possiamo notare un cambio di postura e atteggiamento, sia nel senso di un tentativo di ampliamento della “base sociale” attraverso una più ambigua richiesta di riapertura e un disperato grido di aiuto, sia nella dismissione di quello che era un trincerarsi nella strenua difesa di un privilegio riconducibile a una classe specifica. Questo non significa che quel punto di vista si sia esaurito, quanto piuttosto che si sia assopito e accomodato su una prospettiva più vaga, facilmente rivendicabile e capace di polarizzare un maggiore consenso civile ma che, parimenti, sia stato depotenziato da una piazza che sembra rappresentare, in modo solamente potenziale, istanze disparate di quell’abisso intercategoriale di cui abbiamo delineato sommariamente alcune caratteristiche ma il cui approfondimento sul piano della materialità dei processi parrebbe essere vitale ai fine della comprensione del fenomeno.
Allo stesso tempo, tuttavia, nonostante la complessità rivendicativa rispetto alla difesa del privilegio caratterizzante i primi “movimenti”, si aveva la percezione che non tutto il comparto del “tempo libero” venisse rappresentato nella totalità di quelle istanze.
Si potrebbe dire, infatti, che quella piazza rimandi a un segmento produttivo che non riesce a imporre un passo sostenibile nei meccanismi di riproduzione sociale. In altre parole: come si può interpretare il fatto che le piazze di questi giorni siano caratterizzate, pur nella loro complessità, principalmente da segmenti produttivi legati a forme di riproduzione sociale “da bottega”? Come possiamo interpretare la totale mancanza di quei segmenti della Industry che potremmo definire smart, creativi o altro? Ci basta semplicemente dire che esistono porzioni sociali assolutamente non disponibili alle rotture su un piano tradizionale, o meglio, che sembrano non praticare forme di rottura in alcun senso, almeno apparentemente?
Eppure sul piano mediale della comunicazione anche questi segmenti non hanno lesinato di sollevare problematiche, dimostrando di essere coscientemente ancorati alla barca che affonda senza alcun salvagente disponibile. Tuttavia hanno fatto fronte a determinate problematiche con forme di organizzazione differenti, sia sul lato della formazione online, dell’intrattenimento e della produzione di materiale marketing, della condivisione di eventi per aumentare la risonanza mediatica delle iniziative di e-commerce. Potremmo dire che, a fronte di una problematica reale dal punto di vista produttivo, si è optato per il potenziamento a dismisura del comparto riproduttivo, così da assicurarsi la possibilità di una ripartenza forte, a tratti cannibale, nei confronti di quelle realtà ancora incagliate nel magma del declino del paradigma produttivista.
Non dimentichiamoci un concetto centrale: Tesla produce 1/16 rispetto a volkswagen ma riproduce il doppio di più. [4]
Avviandoci alla conclusione si vorrebbe provare a mettere un ennesimo nodo, ovviamente non risolto, sulla tipologia di composizione specifica: si potrebbe dire infatti che le due tipologie di sviluppo nell’industria dell’intrattenimento e dello svago siano polarizzazione forzate di una crisi strutturale del ceto medio, il grande protagonista e grande rimosso del nostro amato nuovo secolo, ma se quello che scende in piazza, riproponendo vecchie forme di agitazione, sembrerebbe essere un segmento sociale a tratti in grande difficoltà, sia produttiva che riproduttiva, come abbiamo visto, a contendergli il piano di realtà parrebbe esserci una fetta di quel ceto medio riflessivo che pur toccando forme di autosfruttamento, sta dimostrando una grande capacità di autoalimentarsi, attraverso tutte quelle opzioni di marketing, social managing, formazione sui prodotti e capacità di creazione di contenuti su un piano mediale dell’esperienza sensoriale del “gusto”, per potersi giocare un posto sul economico della produzione reale.
Inciso III: per chi non lo sapesse, per poter mettere un prodotto nella drink list di un Bar che potrebbe giocarsi l’ingresso nei fifty-best, ovvero l’annuale selezione dei migliori Bar del mondo per prodotti, competenze e servizio ai Bar Award, bisogna pagare denaro sonante. Pure se sei Campari.
Smettere di giudicare aprioristicamente e “da fuori” determinate esperienze significa innanzitutto prendere coscienza della posta in palio. Il magma che abbiamo polarizzato con una prova di forza teorica rimane ancora meno definito di quanto si crede e attraversato da forme di ambiguità che continuano a moltiplicarsi ed autoalimentarsi. Capire come le forme della riproduzione sociale andranno ad influire su un mondo produttivo che non può reggersi ancora per molto su questi presupposti, ma che ha già posto le condizioni per quelli nuovi, è una sfida che non può esaurirsi nel breve periodo.
[1] Va fatta una specifica di merito in questo caso: la Tesla è un’azienda con vendite annuali che sono un decimo rispetto a quelle della Volkswagen, ma il suo valore sul mercato azionario è incredibilmente più alto. Questo per dire che figure come Musk hanno da sempre fatto più attenzione alla creazione di denaro su circuiti finanziari piuttosto che sull’economia reale.
[2] Se un singolo bar concorda un prezzo specifico con la grande azienda, il distributore non può rincarare su quel prezzo, ma deve essere in grado di farsi vendere il prodotto dall’azienda a un prezzo che ne permetta guadagno.
[3] Esistono ovviamente, nella società odierna, forme anfibie tra le due realtà: come un baretto anni ’80 gestito da due signori anziani che è finito per diventare luogo di culto per la gioventù hipster e alternativa, ma a noi interessa comunque vederle estremizzate per provare a cogliere la postura sul piano della realtà pandemica.
[4] Si perdoni la forzatura teorica ma ci serve per adattare un punto di vista a una realtà procedurale.