«Se chiudete le discoteche io non vado a scuola». Frammenti di lettura sulla composizione giovanile

La scorsa estate, Gaia Bianchi, sedicenne star di Tik Tok (più di un milione di follower), è passata agli onori della cronaca per delle controverse dichiarazioni rilasciate sulla piattaforma social. «Se chiudete le discoteche io non vado a scuola» era il messaggio della giovane che aveva fatto scoppiare la polemica; parole idealmente mirate al governo Conte che, all’epoca, aveva deciso di richiudere i locali notturni, ma in realtà volte a catturare un sentimento diffuso tra i coetanei di Gaia. Ma in cosa consiste questo sentimento? Si tratta solo del capriccio di una ragazzina che non comprende la portata di un’emergenza sanitaria senza precedenti o c’è di più?
Come tutti sappiamo, l’autunno 2020 ha portato con sé una seconda ondata di contagi, a cui è seguita la lotteria delle regioni colorate, con l’immancabile chiusura dei luoghi di intrattenimento e aggregazione sociale. Tutto il resto (più o meno) è rimasto aperto, nel nome del fatturato. Ecco, vi sarà forse capitato di sentire in quel periodo qualche amico o collega che si lamentava di dover continuare a lavorare – con l’aggiunta del costante rischio di contagio – e non potersi nemmeno concedere una serata al bar a fine turno o un weekend fuori porta.
Pensiamoci bene, è poi così diverso questo ragionamento da quello di Gaia? Del resto, i pesi posti sul piatto della bilancia sono gli stessi: obbligo da una parte, svago dall’altra. «Se chiudete le discoteche non vado a scuola» allora non appare poi così lontano da «se mi tocca lavorare in queste condizioni sarebbe bello almeno guardarsi la partita in compagnia». La logica comune a questi due giudizi, tuttavia, non si limita a equilibrare due grandezze, ma va a rovesciare completamente il ricatto con cui il capitale ha cercato di tenere in riga la forza-lavoro nei mesi di sfaldamento generale causato dalla pandemia. I padroni non hanno mai mancato di ricordarci che, se si vuole sopravvivere, bisogna mandare avanti l’economia e, quindi, continuare a lavorare, anche col virus. Si tratta di un ricatto implicito in ogni relazione di sfruttamento instaurata dal sistema capitalistico, ma che l’attuale situazione emergenziale ha reso ancora più evidente e insopportabile. I mezzi tipici con cui si usa reagire in simili circostanze sono lo sciopero e il boicottaggio; in due parole, «se le condizioni imposte sono inaccettabili, noi smettiamo di lavorare». Chiediamoci allora: un lavoratore che giunge a questa conclusione e decide di passare all’organizzazione vivrà il suo lavoro in modo così diverso da come una ragazza come Gaia Bianchi vive la scuola?
E arriviamo dunque al cuore della questione; come inserire le forme inedite di dissenso giovanile nel più ampio quadro della risposta politica e sociale ai provvedimenti governativi e alla gestione capitalistica della pandemia? La prassi, come al solito, mette a dura prova qualsiasi tentativo di inquadramento teorico; negli ultimi mesi, infatti, abbiamo assistito a pratiche molto diverse fra loro, quando non del tutto contraddittorie. L’occupazione del liceo Kant a Roma, con le richieste di un rientro in piena sicurezza e gli scontri con le autorità da un lato, gli appelli pacifici per un passaggio completo alla Dad, dall’altro. Ci sono poi le piazze dello scorso ottobre che i giovani non hanno dominato, ma che hanno sicuramente contribuito ad avviare (fra l’altro a un livello di conflittualità molto alto, quasi sempre in prima linea), prima che subentrassero commercianti, ristoratori, fascisti e movimentisti vari. Ancora più a monte troviamo il movimento dei Fridays For Future, che di sicuro ha avuto il merito di spalancare le porte della politica a molti giovani che altrimenti non sarebbero mai scesi in piazza, ma che con il Covid-19 sembra essersi esaurito del tutto. Le motivazioni – ci auguriamo – non sono state solo pratiche e logistiche; la pandemia ha portato una crisi di civiltà senza precedenti nella vita dei giovani, costringendoli a una condizione di pseudo-reclusione domiciliare pesante nei migliori dei casi, pesantissima per chi si è trovato a vivere nelle periferie o in provincia. Un movimento complessivamente compatibilista e spesso folkloristico come Fff non ha potuto, né potrebbe, dare espressione alla frustrazione e alla rabbia collettiva che sorgono spontaneamente da una situazione eccezionale come questa. Ragioni non molto diverse hanno, del resto, portato questa particolare composizione a diffidare delle realtà di sinistra radicale, anche nelle sue articolazioni “di movimento”, incapaci di colmare l’imperante senso di spaesamento politico, di soddisfare la crescente richiesta di rivalsa e di fornire nuovi modelli di riferimento.
Eppure, gli esempi portati sopra ci dicono che una volontà vagamente politica c’è, per quanto manchevole di un’espressione completa, dispiegata e matura. L’intervista di Commonware a Marco Rizzo, pubblicata qualche settimana fa, ci ha ricordato per l’ennesima volta che il sentimento prevalente è il bisogno di contare e di essere ascoltati, e che chi associa i giovani a nichilismo e rassegnazione – non è una rarità nella galassia della sinistra – non fa altro che tradire la propria incapacità di dare voce alle loro esigenze.
Davanti a un caso come quello di Gaia Bianchi, molti si sono lasciati andare a litanie sull’individualismo godereccio neoliberista che plagia i giovani, invece di ricercare i frammenti di un discorso che tende al rifiuto e alla rottura. A noi spetta il compito di rifuggire da ogni moralismo, di mettere insieme i pezzi e portare organizzazione là dove prima c’erano isolamento e atomizzazione. Per arrivare a questo è innanzitutto necessario mantenere un approccio classista; non ci interessano infatti “i giovani” in generale, come soggetto puramente demografico o generazionale a sé stante, ma quella parte della composizione di classe che in un momento temporale specifico incontra e si scontra con le forme della produzione e riproduzione sociale (scuola superiore e lavoro) oltre che con le varie forme di marginalità e separazione proprie dell'organizzazione dello spazio capitalista. E una lettura di classe non può non essere attraversata dal concetto di forza-lavoro.
Cosa accomuna, infatti, tutti i percorsi formativi di questa particolare composizione? L’accumulazione di conoscenze, competenze e abilità spendibili o nel mondo del lavoro o in quello della ricerca, due ambiti che negli ultimi anni sono diventati sempre più assimilabili l’uno con l’altro. Lo si capisce anche dalle paure di questi giovani, che possono percorrere le strade più diverse, ma che grossomodo condividono tutti lo stesso timore di trovare alla fine del tunnel non una generica condizione di instabilità economica, ma la peculiare forma di precarietà tipica dell’attuale panorama economico-sociale, frammentato, discontinuo e iperflessibile.
Le differenze comunque rimangono e non solo a livello dell’espressione del dissenso; per istituti tecnici e professionali, la dispersione scolastica è in notevole aumento, l’impatto col mondo del lavoro sempre più prematuro e drastico, quasi sempre nel segno di uno sfruttamento selvaggio. Liceali e universitari, invece – e ci verrebbe da dire non a caso – considerano come un privilegio il fatto di potersi permettere di studiare a lungo, ma nutrono molto spesso dei dubbi riguardo alle effettive possibilità di impiego fornite dai loro percorsi (cosa che vale soprattutto fra i membri del ceto medio, che pure possono affermare di non aver mai avuto problemi economici in passato). Non è difficile intravedere in questa dialettica le linee di una potenziale concorrenza all’interno della composizione di classe: da una parte, una massa di forza-lavoro giovane e poco qualificata, disposta ad accettare le peggiori condizioni pur di integrarsi nel mercato e guadagnare l’indipendenza economica; dall’altra, una minoranza di giovani costretti a fare il loro ingresso nel mondo del lavoro tardi, senza alcuna esperienza, e con un bagaglio di specializzazioni difficile da piazzare in una realtà dominata da servizi e piccola-media impresa.
Gli interessi e i punti di vista sono contrastanti, non c’è dubbio, ma il centro di gravità è lo stesso: se la scuola e l’università sono l’anticamera del mondo del lavoro, il precariato giovanile ne è la periferia. Il sistema capitalista forma forza-lavoro nelle scuole, negli istituti e nei licei, senza poi garantire un inserimento nei processi produttivi.
È proprio a questo livello però che si può intervenire per ricomporre la differenza; la continuità fra le occupazioni nei licei e le vetrine di Gucci spaccate sta nel disagio che deriva dal trovarsi ai margini dei processi di valorizzazione. Una condizione evidentemente diversa da quella che caratterizza le lotte nel resto del mondo del lavoro: gli operai della logistica, nodo fondamentale delle catene globali del valore, o i metalmeccanici, protagonisti del contratto di collaborazione più importante a livello nazionale, si muoveranno in un orizzonte strategico diverso, potranno fare affidamento su organi di rappresentanza più o meno consolidati e disporranno di mezzi di lotta già collaudati (picchetti, scioperi, vertenze…).
Ma non dobbiamo dimenticarci che una catena è forte quanto il suo anello più debole. La dispersione scolastica, per le ragioni spiegate sopra, può portare a nuove frontiere dell’ipersfruttamento che le parti padronali non esiteranno a generalizzare a tutto il mercato del lavoro; i membri della cosiddetta “classe disagiata”, dal canto loro, andando irrimediabilmente a gonfiare la statistica sulla disoccupazione giovanile, finiranno con l’esercitare una pressione al ribasso anche sugli altri settori, come è solito fare ogni “esercito di riserva”.
Riscoprire la figura dello studente come forza-lavoro in formazione può non solo gettare le basi per una traducibilità di linguaggi tra lotte operaie e dissenso giovanile, ma può anche conferire a quest’ultimo maggiore struttura e disciplina, evitando derive velleitarie e sottoculturali del passato. Insomma, se la scuola è una fabbrica che produce forza-lavoro, allora al suo interno è legittimo utilizzare i mezzi dello sciopero, del picchetto e del boicottaggio.
Lo stretto legame tra scuola e fabbrica, del resto, è stato messo brutalmente a nudo proprio dalla pandemia. In molti, ai tempi del primo lockdown, hanno creduto alla retorica sulla scuola come spazio sicuro dal contagio, probabilmente per via dei nobili scopi che verrebbero perseguiti al suo interno. Il problema stava altrove, nelle fabbriche appunto. Tuttavia, i rientri dello scorso autunno hanno causato contagi e problemi sanitari quanto ogni altro luogo di aggregazione, e il tira e molla tra chiusure integrali e parziali che si protrae ancora oggi non fa che dimostrare quanto delicata sia la gestione dell’emergenza anche in queste strutture che si vorrebbero “a statuto speciale”. La riconversione digitale delle attività è stata pensata e gestita come in qualsiasi altra azienda privata, lo testimonia il fatto che i due principali problemi denunciati da studenti e lavoratori riguardo alla Dad e allo smartworking sono gli stessi: dilatazione degli orari e aumento del carico di lavoro.
Chi scrive è troppo vecchio per aver sofferto la Dad e troppo giovane per aver vissuto il movimento dell’Onda; ma forse proprio chi si è formato in questa parentesi di (apparente) vuoto storico può svolgere la funzione fondamentale di cinghia di trasmissione. Già dieci anni fa, mentre si andava esaurendo il momento “antiberlusconiano”, aveva preso piede nelle scuole questa idea che l’inserimento all’interno del sistema educativo si basasse su di un contratto non scritto. Venendo a mancare, da parte dello Stato, l’investimento minimo nella scuola pubblica, la parte studentesca poteva revocare la propria partecipazione al contratto per mezzo dello sciopero. Nel 2011, ad esempio, ci eravamo resi conto che scendere in piazza per difendere la scuola significava allo stesso tempo criticare la scuola come strumento disciplinare e di comando. I professori che cercavano di convincerci che non potevamo scioperare perché non eravamo lavoratori e le note di classe che ci aspettavano al rientro in aula ce ne davano di continuo la prova. Ci mancava solo il cartellino da timbrare. Questo il retaggio che le ultime occupazioni dell’era Gelmini avevano lasciato alle nuove leve; per molti era una fine, ma per altri (miei coetanei) era l’inizio di un percorso di formazione politica, percorso che si sarebbe svolto nel segno della parabola discendente che ha portato al disfacimento odierno.
Riscoprire questo bagaglio di acquisizioni teoriche è necessario per estendere il fronte della resistenza alla gestione capitalistica della pandemia andando ad includervi anche la composizione giovanile. L’idea non è affatto nuova, ce ne rendiamo conto. È come se l’incontro fra movimento studentesco e movimento operaio fosse una specie di eterno ritorno, un qualcosa di latente che si impone con urgenza in tempi di crisi, ma che stenta a nascere dalle macerie dei fallimenti di ieri. Una volta individuata la tendenza, però, modelli e pratiche di applicazione vanno completamente cambiati e reinventati, per il semplice fatto che le esperienze del passato sono indissolubilmente legate alla contingenza storica che le ha partorite.
Un punto di partenza potrebbe essere, quindi, portare la lotta di classe nelle scuole e ai margini del mondo del lavoro, ossia laddove la classe ancora stenta a costituirsi. Diciamo questo perché siamo convinti che sia la lotta a dare nascita alla classe, e non viceversa. E quindi non facciamoci troppi problemi a rivendicarci le dichiarazioni di Gaia Bianchi: se ci togliete quelle poche cose che rendono sopportabile una vita già di per sé incerta e frustrante, col cazzo che sgobbiamo per voi. Perché un sistema che pur di macinare profitti ci manderebbe tutti al macello può comprendere solo il linguaggio del ricatto, della minaccia e della violenza organizzate in forza collettiva.