A Scuola di Classe. Intervista ad un insegnante in un Istituto Professionale

«Laurea per i ricchi e apprendistato per i poveri. La disuguaglianza nell’istruzione», così titola «Il Sole 24 ore», 8 agosto 2019, presentando i dati di Almalaurea, i quali mostrano che nel mondo dell’istruzione chi parte in condizioni d’inferiorità rimane tale. In Italia si hanno bassissimi tassi di giovani laureati nelle fasce sociali meno abbienti. «Nell’anno scolastico in corso (2019) il 55% dei ragazzi frequenta il primo anno di un liceo, il 30% un istituto tecnico e il 15% un istituto professionale […] già questa prima scelta produce un divario di classe importante: solo un iscritto a un liceo classico o scientifico su 10 è figlio di operai o impiegati, il 17% dei diplomati professionali sceglie di andare all’università, e solo uno su tre di coloro che prima del diploma intendeva iscriversi all’università, l’ha effettivamente fatto».
Esiste, ed è sempre più chiaro, un circolo vizioso tra bassa istruzione e povertà. I dati Istat, «Povertà Italia » (2019), fanno vedere che la diffusione della povertà diminuisce al crescere del titolo di studi. Come riportato in Openpolis: «Se la persona di riferimento ha il diploma o la laurea, la famiglia è povera in meno del 4% dei casi. Con la licenza media, la quota sale al 9,8%; con quella elementare all'11%». Si consolida il rapporto tra povertà e istruzione e «la conseguenza è che nelle famiglie senza diploma la povertà assoluta è quasi 3 volte più frequente di quelle dove la persona di riferimento è diplomata o laureata. Questa tendenza è aggravata da una specificità italiana, la scarsa mobilità sociale. Nel nostro paese i figli di chi non è diplomato, tendono a loro volta a non diplomarsi».
Chi si iscrive tradizionalmente all’Istruzione professionale appartiene a fasce di popolazione socialmente debole che nella maggioranza dei casi si porta dietro un’esperienza scolastica altrettanto debole e spesso marchiata da certificazioni di “bisogni educativi speciali” (Bes), segnata da disagio socioeconomico in generale. Nel maggio 2019 il MIUR ha pubblicato una relazione sugli studenti con disabilità nella scuola italiana da cui si può apprendere che negli istituti professionali i disabili sono cinque volte quelli dei licei. Come riportato nella relazione: «in termini di composizione percentuale per tipo scuola, il 23,8% del totale degli alunni con disabilità frequenta un liceo, il 27,3% un istituto tecnico e il 48,9% un istituto professionale».
Una pre-selezione degli studenti degli istituti professionali sembra avvenire già a livello di scuola media attraverso l’uso dei Bes. Questi famigerati Bes non rappresentano altro che una schedatura, una ratifica di situazioni di svantaggio o marginalità di studenti e studentesse. Qui l’etichetta sanitaria, la definizione medica al comportamento d’apprendimento dell’alunno nasconde l’abbandono di politiche per l’inclusione sociale. Nei Bes si affianca ambiguamente alla certificazione di gravi problemi di salute la certificazione di difficoltà di adattamento per ragioni economiche, sociali, linguistiche, psicologiche. Sembra che l’attestazione di queste difficoltà e l’iscrizione alle scuole professionali siano un fatto scontato e naturale.
In Italia ancora oggi le scuole sembrano classificate alla maniera gentiliana, così come si faceva quasi un secolo fa: quelle di serie A per i benestanti e di serie B e C per tutti gli altri. Recentemente sono state approvate le linee guida per gli Istituti Professionali (attuazione del D.Lgs 61/2017 previsto dalla Legge 107/15 -Buona Scuola). Le istituzioni scolastiche dell’Istruzione professionale sono teoricamente definite come «scuole territoriali dell’innovazione, aperte e concepite come laboratori di ricerca, sperimentazione ed innovazione». Come appaiono nella realtà i contenuti di queste linee di riforma sia per i docenti che per gli studenti, mentre diventa sempre più centrale l’Istruzione o formazione professionale offerta dalle regioni che possono erogare qualifiche triennali o diplomi quadriennali?
Alla prima parte della tua domanda rispondo: assolutamente sì, la scuola, non è più quella della Costituzione, l’istruzione non è più percepita come un bene comune e primario per cittadini liberi e uguali. La scuola ha subito un forte processo di aziendalizzazione, adattandola principalmente all’esigenza chiave di creare “capitale umano” flessibile e adattivo alle esigenze di mercato e della crescita economica. Le scuole sono state messe in competizione tra loro per offrire i migliori “servizi”, creando scuole di serie A e B, mentre gli Istituti professionali sono rimasti serie C. Ora si smantellano anche questi ultimi. L’istruzione non è più garantita a tutti in forma egualitaria, non è più la risposta al bisogno di tutti di partecipare su una base di parità alla vita pubblica e ai processi democratici, e l’introduzione del sistema duale dopo il diploma di terza media è l’elemento più evidente di questo processo. Un processo che vede la scuola tornare indietro: verso il vecchio modello scolastico dell’Avviamento al lavoro, discriminando su base censitaria l’accesso all’istruzione. La scuola torna indietro al punto che sono attuali le contestazioni di Antonio Gramsci che scriveva:
la scuola professionale non deve divenire una incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma […] oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola disinteressata (non immediatamente interessata) e formativa o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola elite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale.
Ora con la riforma dell’Istruzione Professionale si sta ulteriormente aggravando questa condizione di marginalizzazione ed esclusione degli studenti che la frequentano.
Con il decreto legge conosciuto come la «Buona scuola» (Legge n. 107 del 13 luglio 2015) si è normata una revisione dei percorsi dell'Istruzione professionale e il “raccordo” di questi con i percorsi della formazione professionale a cui è seguito un rafforzamento ( decreto legislativo numero 61 del 13 aprile 2017 ) che ha stravolto radicalmente l'impianto dell'Istruzione professionale italiana, tentando sostanzialmente di sottrarlo all'istruzione vera e propria partendo da un presupposto di «una accertata crisi degli istituti professionali di Stato». La riforma ha preso avvio con le prime classi nell'anno scolastico 2018/2019 e si concluderà nell'anno scolastico 2022-2023 con la definitiva abrogazione del decreto DPR 15 marzo 2010 numero 87, che attualmente disciplina gli istituti professionali di Stato. Innanzitutto l'idea base del decreto è quello di consentire a chi esce dalla terza media di poter assolvere in egual modo l'obbligo scolastico in un istituto professionale o nelle formazioni professionali regionali, quest’ultime, spesso private, spesso confessionali, sono di fatto sganciate da un curricolo di istruzione valido sul piano della cultura generale. In questo modo si toglie ancora di più un’istruzione degna di questo nome a chi ne ha meno, gli studenti che tradizionalmente accedono all’Istruzione Professionale sono, infatti, in grande maggioranza, per diversi motivi, ma principalmente di tipo socioeconomico, studenti fragili nella loro preparazione pregressa. Nel comma 1 dell'articolo 2 del sopracitato decreto, si prescrive che gli studenti al termine del primo ciclo di istruzione possono scegliere tra i percorsi dell'Istruzione professionale realizzate dalle istituzioni scolastiche statali e i percorsi di istruzione e formazione professionale realizzate dalle istituzioni formative accreditate dalle Regioni.
Le riforma dell’Istruzione professionale secondo te in che misura ha indebolito l’istruzione universale di qualità e promosso una scuola censitaria?
Attualmente si garantisce al diplomato quinquennale di un Istituto professionale l'accesso all'università e all'istruzione di alta formazione artistica musicale e coreutica e agli istituti tecnici superiori, ma una possibile riforma dell'Esame di Stato al termine del quinquennio per l’Istruzione professionale, congrua alla riforma dei programmi in sperimentazione, basati sul progressivo impoverimento delle discipline e dei contenuti e orientato sulle competenze in uscita, farebbe deragliare definitivamente l’Istruzione professionale dai binari della Scuola Pubblica. Dopo aver svuotato i programmi, verrebbe depotenziato anche l’esame in uscita, nei fatti, indipendentemente dal valore legale, il diploma non concederebbe facilmente l’accesso a studi universitari o comunque superiori, perché le pretese competenze acquisite non costituirebbero prerequisiti sufficienti. Il diplomato in uscita, invece, potrà essere manovalanza flessibile, poco consapevole dei propri diritti e a buon mercato.
Altro passaggio estremamente grave è la possibilità di indirizzare gli studenti attraverso un apprendistato formativo di primo livello. L'apprendistato duale di primo livello è una tipologia di contratto che consente ai giovani di frequentare un percorso di formazione professionale o istruzione per conseguire un titolo di studio, ma contemporaneamente essere assunti come apprendisti anticipando l'ingresso nel mondo del lavoro e questo confligge con lo sfruttamento del lavoro minorile e erode il monte ore annuale di scuola a cui si ha diritto! In questo modo, con evidenza, la scuola italiana non garantisce più un’istruzione universale e di qualità, ma promuove la scuola censitaria e fa degli Istituti Professionali scuole ghetto dove a una popolazione scolastica debole, con anche il più alto numero percentuale di ragazzi con handicap, non si propone un rinforzo e un aumento di istruzione di base, ma addirittura, delittuosamente, la si sottrae, la si riduce fino a quasi farla scomparire tra le maglie di una pretestuosa programmazione per assi culturali, con UDA trasversali (Unità Di Apprendimento) che sono decise dalla materia professionalizzante (per esempio negli indirizzi commerciali) e a cui tutte le materie devono trovare forzosi collegamenti, cedendo molte ore del proprio curricolo disciplinare di insegnamento. A due anni dall’introduzione di questa riforma, la mia esperienza personale di insegnante di Italiano e Storia in un Istituto professionale è che gli esiti sono catastrofici: gli alunni denunciano difficoltà sempre più gravi nel leggere e comprendere un testo, peggio nel redigerne uno.
L’Italia si è adeguata passivamente ad un modello fortemente voluto a livello globale ed europeo che prescrive di smetterla con la cultura, la letteratura, l’arte, mentre adotta un modello che prevede la promozione di “competenze” piuttosto generiche quasi un insieme di prestazioni, pratiche, individuali e sociali, tutte orientate al lavoro e alla creazione di un individuo flessibile, disponibile, intercambiabile?
Anche a questa domanda la risposta è sì e le scelte che riguardano la scuola in senso europeo nascono all’interno dell’Ert ( European Round Table of Industrialists -Tavola Rotonda degli Industriali Europei), che riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei. L’Italia si è conformata supinamente ad uno schema, fortemente voluto a livello globale ed europeo, che stabilisce di abbandonare la cultura generale, cioè le discipline volte a creare un sapere critico, a consegnare strumenti di libero pensiero.
Uno schema che determina l’introduzione di un modello didattico basato su generiche “competenze”, in luogo delle conoscenze, come la competenza di “imparare ad imparare”, così che le conoscenze utili al mercato di volta in volta fatte acquisire acriticamente possano, e velocemente, essere sostituite da altre competenze intese come abilità, prestazioni tutte orientate al lavoro e all’occupabilità. Attraverso il modello didattico delle “competenze” si tende a fare degli studenti futuri individui facilmente cedibili al mercato, manovrabili, condiscendenti, privi di quegli strumenti, che tradizionalmente dovrebbe fornire la scuola, per l’esercizio consapevole della propria cittadinanza attiva.
La Dad è stata superficialmente esaltata come occasione di progresso, sviluppo di innovazione e di competenze per la scuola italiana. In realtà abbiamo visto che ha favorito ampi fenomeni di abbandono scolastico oggi eufemisticamente definito “dispersione scolastica” e messo in evidenza il divario digitale che colpisce molti studenti e studentesse. Come hanno vissuto i tuoi studenti tutto questo?
La Dad in generale non ha fatto che evidenziare, se ce ne fosse stato bisogno, le disuguaglianze nella scuola. Si tratta di una tipologia di didattica emergenziale, che resta incompleta, che non permette sicuramente di gestire in maniera giusta l'aspetto relazionale, così importante per soggetti fragili, si tratta di educare in un contesto spersonalizzante.
Una indagine che ha fatto Save the children rileva che in alcune aree si raggiunge il 20% di carenza di dispositivi per l’accesso alla Dad, ma l'aspetto dei dispositivi è uno degli aspetti meno rilevanti, le scuole hanno anche fatto molto in questo senso per dare comunque dei dispositivi in comodato d'uso o in varie altre forme. Il problema è che accanto al dispositivo ci vuole la connessione e la connessione è una connessione molto variegata nel territorio, per esempio i piccoli paesi da cui per lo più provengono studenti iscritti all‘Istruzione professionale. Oltre alla connessione ci vuole anche una condizione abitativa disposta in qualche maniera a favorire il concentrarsi, ci vuole quindi un contesto anche familiare di spazi di disponibilità di tranquillità che può far variare molto il modo in cui si può vivere questa didattica a distanza. L’indagine di Save the Children si dice che circa un terzo degli studenti ha avuto difficoltà, parliamo soprattutto nella fascia di età tra i 14 e 18, ha avuto difficoltà a seguire e questo ha aumentato anche l'abbandono scolastico, sempre la stessa indagine parla di un abbandono scolastico che si dovrebbe aggirare intorno ai 38 mila a livello nazionale in più di quello che c'è già di dispersione scolastica nel nostro paese. La ricaduta è che la pandemia, così come è successo nei trasporti e per le condizioni di lavoro, installata in un corpo fortemente malato come quello di un'istruzione, molto molto depotenziata, ha prodotto risposte molto eterogenee e così i danni che ne possono derivare. Con le poche risorse a disposizione le scuole hanno cercato veramente e anche noi lavoratori e lavoratrici abbiamo cercato di dare il massimo. Non si poteva fare diversamente però l'impatto che tutto questo sta avendo, non pensavamo che potesse durare un anno, è un impatto abbastanza devastante soprattutto in alcune aree soprattutto in alcuni contesti.