Onda contro onda

Riprendiamo questo articolo di Paolo Mossetti che a dieci anni dalla rivolta del 14 dicembre 2010 traccia un' interessante genealogia della fase politica che attraversiamo, caratterizzata dall’ascesa prima e dal declino (definitivo?) poi del «momento populista». Quel giorno di dieci anni fa il fuoco della rivolta di un movimento nato e cresciuto nelle università incendiò le strade di Roma e assediò i palazzi del potere dove andava in scena la farsa del voto di fiducia al governo Berlusconi. Fu il culmine (che si trascinò ancora per qualche mese) di un movimento, per composizione studentesco ma dai tratti fortemente ricompositivi, che nei due anni precedenti tra momenti di lotta molto intensi e altri più deboli, occupò con continuità strade e università contro le politiche di impoverimento imposte dall’agenda neoliberale del capitale finanziario. Dentro quelle piazze erano però presenti in maniera smaccata sentimenti e istanze che qualche anno dopo avrebbero alimentato il successo del primo protagonista del «momento populista» in Italia, ovvero il Movimento 5 Stelle, pur non essendo tutti riconducibili a ciò che generalmente oggi viene indicato come «populismo». Giustizialismo, meritocrazia, rivalsa dei competenti erano elementi fortemente presenti dentro l’Onda che il ceto politico di quello che in Italia si autodefiniva «movimento» non seppe maneggiare in alcun modo, preferendo fughe ideologiche verso parole d’ordine dell’ortodossia movimentista. Si commisero degli errori di cui non si è mai veramente discusso, con la conseguenza che quella generazione di militanti si frantumò, tra ritorni nella dimensione privata e comunitaria, tentativi di inserimento nell’industria culturale e accademica, difesa di piccole nicchie politiche, ripiegamento nel volontariato e nel lavoro sociale e brevi comparsate in piazza, perdendo qualsiasi capacità di direzione politica sui processi sociali e politici innescati dalla crisi e dall’impoverimento sempre più feroci. Probabilmente quegli errori furono anche il prodotto di una cultura politica ereditata dal movimento no global che, seppure adattata (parzialmente) alle trasformazioni della composizione del lavoro vivo, non seppe fare i conti con l’esplosione della società civile e il declino del progresso capitalista. In parte ancora oggi scontiamo quegli errori e quella carenza analitica e ancor di più l’incapacità di un' onesta autocritica.
C’è un filo rosso che lega il movimento antagonista di fine anni Novanta in Italia, culminato con l’onda studentesca del 2008–2010, ai gilet gialli sotto l’arco del Trionfo del 2018 e al «tu ci chiudi, tu ci paghi» esploso a ottobre di quest’anno, e per il momento già sopito? Oppure si tratta di due modi di intendere la rivolta anti-sistema non solo diversi ma addirittura incompatibili, al punto che c'è voluta la parziale sconfitta del primo per dare spazio e ossigeno al secondo?
Restringendo il campo alla Penisola, le proteste del decennio 2001-2010 furono antiautoritarie, fisicamente invadenti, a tratti parecchio bellicose, fatte di piazze e occupazioni, poco gerarchizzate e allergiche ai partiti, urbane e cosmopolite. Una sintesi che anticipa anche quali furono i limiti di quel tipo di mobilitazione, dal punto di vista della seduzione dell’opinione pubblica generale, e delle sue differenze rispetto al «momento populista» del decennio che sarebbe venuto dopo.
Quel «momento» si è fondato in Italia su alcuni accadimenti abbastanza precisi, nel biennio 2010-2012: la caduta dell’odiato Berlusconi e la sua sostituzione col partito unico dell’austerità, evento che ha portato molti economisti ad abbracciare la questione nazionale; parallelamente, l’arrivo della Mmt in Italia prima nei circoli più eterodossi e poi via via su nel mainstream, complice un taglio della spesa pubblica che non dava i frutti sperati e una inflazione che non risaliva nonostante le Cassandre; soprattutto, l’ingresso del Movimento cinque stelle — con Grillo che era stato scacciato nel 2008 dagli studenti dell’Onda al grido «no alle primedonne» — nella politica parlamentare, per fare sul serio. E, successivamente e per vie diverse, la svolta nazionale e sovranista culturale della Lega, a partire dal 2015.
Il movimento di Genova-L’Onda, che partiva contro i tagli all’università voluti dal centrodestra per poi ampliarsi in una critica alla gestione della crisi finanziaria-capitalistica da parte delle élite, si è esaurito proprio nel momento in cui stavano per prendere forma contenitori della rabbia contro la globalizzazione e il declassamento della borghesia di tipo nuovo. Non ci vuole un genio per notare come molti degli intellettuali che si animarono dieci anni fa oggi guardino con sospetto a quello che avviene almeno da un lustro a questa parte, per opera delle masse reattive.
Il motivo di questa diffidenza risiede nel divario che si è creato tra i "vecchi" precetti anti-sistema e i nuovi, che costituiscono la base sentimentale del nazional-populismo elettorale e internettiano: non più «cambiare il mondo senza conquistare il potere», bensí entrare in Parliamento per aprirlo come una scatola di tonno, con gli alleati che si trovano per strada e senza puzze sotto il naso; non più un focus "globale" sulla rivoluzione, ma rivoluzione in un solo paese: in quello Stato-nazione che è l’unico locus di democrazia tangibile per i rivoltosi.
Non più elogio dell’orizzontalismo e dell’antifascismo, ma elogio dell’ordine “locale” contro un ordine “sovranazionale”, invitando alla crociata chiunque ci stia a partecipare: cattolici, comunisti, liberali e reazionari. Il cuore di tutto è la liberazione del senso comune: le divergenze sulle policy specifiche verranno dopo.
L’intuizione potentissima della onda che segue l’Onda, del Grillo del 2013-2018 e dei suoi emuli più recenti, del Salvini nazionalista e dei nuovi movimenti sovranisti dal basso sta nell’aspirare sì a un «altro mondo possibile», ma un altro mondo che già è esistito, ed è per questo più tangibile: l’Italia pre-euro, pre-multikulti, delle adorabili Teche Rai e dei suoi rituali natalizi, della Milano da bere, degli Alfredino Rampi nel pozzo e dei Pertini e degli stipendi che «bastavano per un’intera famiglia». Un mondo ben radicato nella memoria e nei desideri di chi non ha mai fatto politica, al contrario di quello a tratti vago, distante o impraticabile disegnato dagli «studenti con l’anello al naso» che «bruciano cassonetti». Vi pare poco?
Rispetto un orizzonte nel quale si intravede l’«Eat the rich», fantomatici espropri a multinazionali, confini aperti e la progressiva abolizione di carceri e polizia, con una spolverata di rieducazione linguistica per venire incontro al cambiamento, l’intuizione populista, di destra come di sinistra, con sfumature lepeniste oppure fanfaniane, oppone presupposti del tutto diversi: l’accettazione del «paese reale» così come è, con le sue ricchezze duramente sudate, le sue ipocrisie e le sue mille botteghe. E poi la messa al centro dell’uomo della strada contro il narcisista, e la sospensione più generale del giudizio contro chi sembra appartenere alla propria storia, al proprio modo di intendere la vita.
Una utopia fatta di decoro cittadino, di «così son sempre andate le cose», di dignità familiare e di superiorità ontologica del lavoro rispetto ai desideri dell’individuo atomizzato e del consumatore progressista—è in discussione il consumo degli sradicati, degli individualisti e degli immigrati, ovviamente; quello del «paese reale» è visto come legittimo. Una utopia fatta, anche, dalla salvaguardia dei rapporti di forza preesistenti al declino e di riscatto non di una classe o di una idea partigiana di politica, ma di una comunità nazionale in tutte le sue contraddizioni.
Con alcuni «eureka» copernicani, che si aggiungono alla semplice nostalgia dello Zeitgeist: il superamento di nozioni come destra e sinistra per unire le lotte, la vaporizzazione dell’elettorato abbracciata come una opportunità, nonché teorie economiche che dicono esplicitamente che l’esproprio della ricchezza tramite tasse non è necessario per avere cose belle, poiché ogni governo può isolare il suo paese e semplicemente creare tutto il denaro di cui ha bisogno. Tenendo le fabbriche e i ristoranti aperti, persino, durante eventuali epidemie (tanto si potranno decuplicare i letti negli ospedali). Rendendo, con queste premesse, entusiaste per la rivoluzione che verrà anche intere sezioni della classe dirigente e dello status quo.
Ecco perché molti degli ex-studenti dell'Onda, dei militanti no-global della passata generazione, anarchici poco pragmatici e intimamente socialisti liberali, sembrano oggi sparare a salve. Costretti a una posizione meditabonda, sospettosa o di katechon frenante rispetto alle forza anti-sistema che vanno per la maggiore — siano contro il lockdown oppure contro i vincoli esterni economici: perché la promessa di riscatto collettivo dei primi sembra non avere il combustibile capace di incendiare platee eterogenee quanto basta per vincere, per cambiarlo davvero il corso delle cose. E quando trova questo combustibile, il viaggio che preannuncia sembra poco attraente per chi ha scelto di unire al rifiuto della globalizzazione la conservazione e la tradizione.
Un’onda, questa 2.0, che si è in parte infranta contro il Covid e l’inconsistenza della prima generazione di leader che si è scelta (Trump, Salvini, in parte lo stesso Di Maio) e soprattutto contro il suo stesso reagire, che si è mostrato eterogeneo e contraddittorio durante una crisi epocale. Ma che resterà potente, ancora per molto tempo, e tirerà con sé molti degli studenti rimasti a casa quest’anno.