L’università tra cambiamenti strutturali e contingenze

Sono passati vent’anni dal Bologna Process e dalla riforma Zecchino-Berlinguer, i bilanci sono a più riprese stati fatti. Oggi cosa è rimasto dei principali obiettivi dell'introduzione del 3+2 e di quella riforma, in positivo e in negativo? A grandi linee quali sono le principali differenze tra le università di adesso e quelle di allora?
Vorrei fare una premessa, è interessante il fatto che ci sia questo ventennale, anche se in realtà era l'anno scorso perché il Bologna Process partì nel 1999, ma già nel 1998 ci furono gli accordi della Sorbona tra quattro paesi, Italia, Gran Bretagna, Germania e Francia, e nel ’99 ci fu la formalizzazione. Il vero anniversario è quindi stato nel 2019 mentre il 2020 è l'anniversario di quelle che sono le leggi, i regolamenti e i decreti che regolano i due cicli, l'istituzione dei due cicli è il decreto 509 che è del ’99. La cosa curiosa è che negli anni il Bologna Process come grande processo che apre a questa dimensione europea dell'istruzione superiore è sostanzialmente sparito dal dibattito, prova ne sia che non c'è stata la celebrazione a nessun livello istituzionale per quanto ne sappia io. Questo perché, probabilmente, gli Stati sono stati chiamati non soltanto a implementare quel processo ma, soprattutto, a occuparsi di cose molto più casalinghe che europee, senza contare il fatto che in alcuni casi una significativa parte del ceto accademico non soltanto in Italia ma dappertutto non fece i salti di gioia. Inoltre, a partire dal 2008-2010, l’attenzione del dibattito a livello europeo sull’istruzione superiore si è spostata sui sistemi, sulle agenzie, sui meccanismi e sulle attività di valutazione delle istituzioni dell’istruzione superiore e sui famosi (o famigerati) ranking internazionali delle università.
Che cosa è stato fatto e che cosa rimane? Sicuramente quello che rimane è l’impostazione, ossia il bachelor master o doppio livello, il «3 + 2» è tutta una definizione italiana semplificatoria. E rimane il fatto che comunque esiste un’area europea dell’istruzione superiore, al di là degli Erasmus, che facilita molto gli scambi non solo di studenti ma anche di docenti, che facilita molto le collaborazioni per la ricerca e i doppi titoli per chi li vuole istituire; per quanto riguarda questo aspetto quindi c'è ancora tanto di positivo e di valido. Ciascun paese ha poi declinato a propria maniera il bachelor master e il dottorato, se vogliamo usare la formuletta diventa quindi «3 + 2 + 3», perché anche il dottorato è dentro a questo schema di armonizzazione. Tutto questo è stato un po’ implementato in maniera da adattarsi a ciascun sistema, e noi non abbiamo fatto eccezione: rispetto alla strategia, ma prima di tutto all’idea che si era sviluppata a partire da Berlinguer nel gruppo che si doveva occupare di questi cambiamenti, le cose sono anche cambiate. Nel mio libro, La costruzione della riforma universitaria e dell’autonomia didattica (Led 2011), faccio notare come Berlinguer avesse un approccio di un certo tipo e certe idee, con Zecchino questo approccio ha cominciato a essere molto edulcorato e a rendersi molto più istituzionale e tradizionale, il che si è riflettuto nei decreti delle classi di laurea.
Lo schema, chiamiamolo per brevità del 3+2, comunque è rimasto, ma non sono funzionate tante altre cose. Innanzitutto, il modo in cui è stato implementato, è stato un po’ “tradito” già nella fase della messa a punto dei decreti delle classi di laurea, ma è stato tradito soprattutto nella fase di implementazione. Il 3+2 è stato notevolmente piegato dalle logiche accademiche. Da un lato i conservatori non avevano abbastanza forza per poter far saltare la riforma, dall’altra parte gli innovatori non avevano abbastanza forza per imporre quello schema di riforma. C’è così stato un incontro a metà strada che scontenta tutti. Scontenta i conservatori perché non possono ripristinare il vecchio modello e scontenta i più innovatori che non possono realizzare quello nuovo. Si è trattato di una soluzione di compromesso, manifestatosi soprattutto in questo «tradimento» che si traduce nel pensare in molti casi il “3” non come un percorso che, come era nell'idea originaria, portasse gli studenti a concludere il percorso universitario prima e inserirsi sul mercato del lavoro in giovane età, ma come la base per poi fare gli altri due anni, cioè la specialistica poi diventata magistrale. Si è dato quindi addirittura un allungamento dei tempi, in alcuni casi hanno giocato un ruolo importante anche le associazioni professionali che sostenevano che i tre anni non fossero sufficienti, dando vita a un registro junior di ingegneri, architetti ecc., che diventa una spinta a continuare gli studi perché si vuole essere ingegneri o architetti a tutti gli effetti.
Un altro elemento critico, in questo caso solo italiano, riguarda il fatto che dopo la riforma Berlinguer-Zecchino siamo andati incontro a ben altre due riforme, più o meno profonde, dell’impostazione della formazione universitaria. C’è stata una prima riforma che è quella della Moratti del 2005, e mentre gli atenei stavano recependo la riforma ne è partita un’altra che è quella Gelmini. Non che quest’ultima scardinasse l’impianto generale, però ha creato problemi perché certi corsi di laurea potevano essere aperti solo con un minimo di iscrizioni e un certo numero di docenti di ruolo; alcuni sono quindi stati chiusi, il che si è tradotto in una notevole complicazione dal punto di vista organizzativo. Le università avevano appena finito di fare la revisione Moratti e si sono trovate di nuovo una nuova riforma. C’è una riflessione spinta anche da tutte le norme ministeriali sugli accreditamenti, sulle valutazioni della didattica e sui corsi di studi. Quest’ultimo è un aspetto positivo, mentre quello negativo è che è cresciuta infinitamente la burocrazia per cui si passa molto tempo a compilare documenti, il che è abbastanza paradossale, soprattutto perché la riforma Gelmini voleva essere di stampo «neoliberista» e ci si aspettava il proclamato “più mercato meno Stato”, invece l’influenza dello Stato è aumentata. La cosa ancora più negativa, che era già inserita purtroppo nei decreti delle classi di laurea di Zecchino, è che tutta quella autonomia pensata da Berlinguer, cioè la libertà degli atenei di dare un’offerta didattica propria, è sostanzialmente evaporata. Ormai siamo di nuovo tornati al modello tabellare pre-riforma e i corsi di laurea devono avere determinati crediti in materie specifiche, la scelta da parte dello studente delle materie per costruire il proprio curriculum è molto limitata o quasi nulla, i dipartimenti non sono liberi di innovare la propria offerta didattica a causa sia della logica tabellare e centralistica che ingabbia l’innovazione didattica, sia dei vincoli normativi che limitano tantissimo questo tipo di innovazione.
Inizialmente, nell’idea di Berlinguer, le facoltà dovevano addirittura sparire, ma i dipartimenti che si occupano oltre che di didattica anche di ricerca funzionano come delle facoltà, quindi il perno centrale continua a essere la facoltà e non l’offerta didattica di ateneo. Se così fosse stato, secondo me avrebbe significato mettere a sistema le risorse umane presenti in ateneo (e non nelle singole facoltà/dipartimenti) per costruire dei corsi sensati e interessanti. Se prima lo facevano le facoltà oggi lo fanno i dipartimenti, c’è poco e nulla di diverso, esistono i corsi interdipartimentali ma hanno una logica comunque che si incardina sulle logiche di facoltà. Sarebbe stato interessante e innovativo abolire le facoltà, ma allora era direi quasi utopistico.
Non le sembra che, al di là delle valutazioni sui singoli ministeri, tutti siano stati accomunati da una sostanziale assenza di progetto complessivo, oltre che da un definanziamento ormai diventato strutturale?
L’assenza di progetto è dovuta secondo me al fatto che in primo luogo, all’inizio dell’implementazione della Berlinguer-Zecchino, c’erano dei contrasti dentro l’accademia e quindi la progettazione innovativa era difficile da percorrere. Certamente c’è stato un problema molto grosso che è quello del finanziamento. Berlinguer, finché è stato al ministero (dal 1996 fino al 1998/99), aveva previsto un po’ di risorse aggiuntive. Al di là della riforma didattica si trattava di un disegno complessivo, una riforma fatta da «tessere» ma complessiva e organica non nel senso tradizionale del termine. C’era la tessera del dottorato, per cui sono aumentate le borse di studio per i dottorandi; c’era quello del reclutamento, per cui sono aumentate le risorse all’università per reclutare, dopo anni di stagnazione, nuove persone e favorire un ricambio. C’è stato dunque un impulso e un aiuto al finanziamento. Dal 2001 in avanti ciò cambia irrimediabilmente. Tra il 2001 e il 2005/6 non sono state inserite altre risorse, il finanziamento è rimasto nominalmente quello che era, in termini reali è diminuito. Dal 2006 c’è stata la parentesi del biennio del centro-sinistra, qualcosina è stato messo ma non abbastanza, nel 2008 è arrivata la scure, grazie anche alla complicità di molti rettori. C’era addirittura chi era favorevole, cosa che io ho trovato molto sconfortante: è infatti chiaro che il definanziamento continua a creare grossi problemi, sia sul reclutamento sia sull’offerta formativa, e le due cose vanno di pari passo perché meno docenti ci sono e meno corsi di studio si possono avviare. Il combinato disposto (l’effetto di due o più norme) rende difficile la progettualità, servirebbero molte più risorse, servirebbe anche una maggior visione da parte dei docenti su aspetti un po’ più progettuali e innovativi dell’offerta didattica. Il che non vuol dire seguire il mercato, lo dico chiaramente. Secondo me l’università non deve rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, ovvero le esigenze espresse dagli imprenditori; l’università non può assolutamente assecondarle perché sono esigenze che sono su un livello talmente basso o di profili talmente precisi che non ha molto senso che l’università faccia quel profilo lì, che oggi funziona ma domani magari non serve più. Serve un’impostazione diversa della formazione.
Un altro aspetto da evidenziare rispetto ai problemi della riforma Berlinguer-Zecchino è che forse non è riuscita ad aggredire totalmente il problema del numero dei laureati e soprattutto il numero dei laureati in corso. È molto migliorata la situazione rispetto agli anni precedenti, però vediamo ancora oggi che molti studenti allungano il loro percorso anche nel triennio, quindi c’è ancora qualcosa che non va sul lato dell’offerta formativa e sul modus operandi della didattica, ma il problema sta anche nella preparazione che hanno questi studenti che arrivano dalla scuola: la maggior parte dei ragazzi del primo anno hanno difficoltà a scrivere un pensiero logico, hanno difficoltà a scrivere in italiano, hanno difficoltà a relazionarsi a uno studio di materiali più complessi e a comprenderne i contenuti in modo efficace. Quindi ci sono dei problemi che bisognerebbe pensare in una maniera strategica di progetto, come ad esempio un maggior raccordo tra università e scuola su che tipo di formazione scolastica dobbiamo dare affinché le persone possano avvicinarsi all’università in maniera tale da essere sufficientemente pronte. Le riforme scolastiche e universitarie sono due mondi completamente diversi, c’è poca comunicazione tra di loro e ciò è assurdo. Per quanto il numero di iscritti sia inferiore alla media europea, i nostri diplomati sono un numero consistente, non irrisorio, quindi bisognerebbe migliorare il modo di accedere all’università.
Il sistema universitario italiano era basato su un compromesso tra potere statale, che designava un percorso formativo comune, e un corpo docente che avrebbe dovuto gestire la propria accademia. Com’è cambiato il sistema di governance delle università e chi governa oggi l’istituzione universitaria?
Sicuramente la governance è diventata molto più strategica, il che non vuol dire che sia sempre positivo. Strategica vuol dire che si ha una visione e si cerca di sviluppare questa visione in una maniera progettuale, ma a volte queste visioni strategiche possono cozzare in maniera più o meno significativa contro certi assetti «tradizionali» che non sono da buttare via in toto, è il solito discorso non si può buttare via insieme all'acqua sporca anche il bambino.
Da un certo punto di vista, allorquando la leadership è una leadership illuminata, la governance rettorale e degli organi di vertice dell’università riesce effettivamente a portare avanti uno sviluppo strategico di progetti, di idee. Naturalmente però c’è un problema di burocratizzazione, ovvero non dico tutte, ma molte delle iniziative strategiche degli atenei rispondono a quelli che sono dei dettami che arrivano da normative di vario genere a livello centrale. Quando dico centrale non penso tanto da parte del ministero, che a livello nazionale non conta più niente o quasi, a contare è l’Anvur; il ministero dice poche cose, il vero centro di policy è l’Agenzia nazionale della valutazione del sistema universitario e della ricerca. Ciò, oltre a creare una burocratizzazione del lavoro, determina una sorta di organismo dirigistico, mascherato, edulcorato in certi aspetti, ma è un dirigismo a cui i rettori e le governance di ateneo volenti o nolenti tendono ad attenersi. Ci sollecitano a «fare terza missione», che è una cosa intelligente e sono anche abbastanza d’accordo, però è un errore farla diventare quasi un obbligo nei confronti dei docenti, anche se non riescono a portarla a termine per svariati motivi. Si tratta di quel paradosso delle riforme di ispirazione diciamo così neoliberista: anziché meno Stato producono molto più Stato, o meglio molta più centralizzazione in organi parastatali come Anvur; se ad esempio osserviamo l’Inghilterra la Hefce sostanzialmente è il centro di governo del sistema esattamente come Anvur, con la differenza che Hefce non è di nomina governativa.
La governance poi ovviamente è cambiata anche a livello dipartimentale: la logica è «a cascata», l’ateneo incorpora ciò che dice Anvur e dice al dipartimento cosa fare, e questo dice ai suoi docenti cosa e come fare. In questo senso non è una governance dell’autonomia bensì della centralizzazione, e questo è l’aspetto veramente negativo.
Oggi il titolo di laurea è ancora una variabile importante nell’acquisizione di posizioni migliori nel mercato del lavoro (banalmente chi si laurea ha accesso a stipendi mediamente più alti, anche se c’è una forte differenziazione sulla base del tipo di formazione universitaria e i livelli di precarizzazione diventano sempre più trasversali). Tuttavia, il rendimento dell’investimento in formazione universitaria sembra sempre più decrescente. Quali sono state secondo lei le cause di questa crescente perdita di valore del titolo di studio? E cosa stanno pensando e programmando le istituzioni per far fronte a questa possibile crisi?
La decrescita del prestigio, o meglio dell’utilità del titolo di studio è stato il cavallo di battaglia dei governi di centro-destra dal 2001 in avanti, ovviamente spalleggiati dal mondo imprenditoriale, che è sempre stato molto chiaro nel dire che non servono laureati ma serve gente che sappia fare le cose La struttura di impresa italiana che non aiuta la collocazione efficace ed efficiente dei nostri laureati in generale è molto piccola, molto tradizionale e molto familiare. Questo è il problema emerso anche in diverse interviste che avevo fatto fare in relazione a progetti tesi a far emergere chiaramente la figura ricercata dall’imprenditore: non vuole qualcuno che gli dica come fare il lavoro perché ritiene di saperlo fare benissimo, non cerca l’ingegnere che costa caro e a cui non può offrire sviluppo di carriera.
Un altro aspetto ha riguardato il livello di retorica politica che ha sostenuto che l’università, fondamentalmente, non serve, c’è stata un’enorme guerra di delegittimazione verso l’istituzione universitaria e quindi necessariamente anche verso i titoli di studio universitari e verso la formazione universitaria. Per me è stata davvero una «battaglia» e le università non sono state in grado di rispondere a questa narrazione delegittimante con una contro-narrazione efficace che facesse muro a questa retorica, comunque gli strumenti e i contenuti non sono stati abbastanza efficaci per ridare importanza all’istituzione universitaria. Per cui è vero che la laurea, viste le iscrizioni ogni anno, è comunque ancora ricercata, ma il problema è che non trova una adeguata domanda nel mercato del lavoro a causa della struttura di impresa italiana. Lo si vede non soltanto nel discorso relativo alla formazione ma anche nel discorso relativo alla ricerca: le imprese italiane sono poco interessate a sviluppare ricerche in partnership con l’università per fare innovazione. C’è quindi tutto un insieme di aspetti cultural-politici che hanno delegittimato l’istituzione e tutto ciò che l’istituzione fa, ivi compresa la formazione e i titoli di studio.
Faccio una piccola parentesi ancora sui titoli di studio: c’è un dibattito decennale, ventennale, quarantennale sul valore legale del titolo di studio, per cui sembra che se aboliamo il valore legale del titolo di studio tutto torna in squadra, mentre in realtà alle imprese private del valore legale del titolo di studio non interessa nulla, serve solo nei concorsi pubblici. Allora, a mio modo di vedere, una piccola riforma semplice sarebbe questa: il valore legale del titolo di studio è il biglietto di ingresso per poter entrare in un concorso pubblico, dopodiché il voto di laurea conta 0, non dà punteggio, te la giochi col concorso, se sei bravo lo passi a prescindere che hai preso 90 o 110 e lode. Il valore legale del titolo di studio è utile solo in quel contesto, toglierlo per le imprese non fa nessuna differenza perché già adesso non viene considerato; guardano in cosa sei laureato, possono guardare in quale ateneo e valutare se è un ateneo buono o meno buono, ma del titolo legale non interessa, se verrà tolto non cambierà nulla. Potrebbe servire come biglietto d’ingresso per l’amministrazione pubblica o in università.
L’anno accademico è appena iniziato, mentre la crisi pandemica non è ancora finita. Il lockdown sanitario ha costretto le università italiane a convertire la didattica tradizionale in didattica a distanza (Dad). Tenuto conto delle differenze dovute all’autonomia di ogni ateneo e anche alle differenze sul piano regionale, dal tuo punto di vista quali cambiamenti avverranno negli atenei italiani?
Cominciamo da un discorso di quadro più generale: dopo il lockdown e durante l’estate si è cominciato a pensare a come rispondere alla pandemia, il timore era di perdere iscrizioni dappertutto, non soltanto in un dato ateneo o in una data regione, come poteva essere la Lombardia, particolarmente colpita. Stando ai primi e provvisori dati ministeriali della scorsa settimana – non ancora definitivi – non è successo granché, le iscrizioni negli atenei tradizionali sono rimaste e quindi non c’è stata quella esplosione delle immatricolazioni verso Pegaso o Nettuno. C’è stata una piccola e lieve differenza nella stanzialità, nel senso che c’è stato una un incremento ma molto marginale, si parla del 5%. Alcuni studenti hanno cioè scelto di iscriversi nelle proprie città o regioni. Non stiamo neanche parlando di un tracollo della mobilità studentesca, è rimasta quella che era fondamentalmente. Quello che gli atenei temevano, ossia il rischio di perdere iscritti, si è manifestato in alcuni contesti, in particolare c’è stata una tendenza delle governance dei vari atenei lombardi a cercare di fare tutte le lezioni in presenza, o almeno il più possibile. Premetto che io sono molto a favore della didattica in presenza, però dipende dalle condizioni del contesto, della situazione in cui ancora ci troviamo.
Ci sono state effettivamente delle differenze nell’autonomia organizzativa e didattica degli atenei. Per fare qualche esempio, Pavia ha optato – con grande sforzo organizzativo e molte complicazioni – per riportare gli studenti in aula con modalità cosiddetta «mista», che significa che una parte di studenti segue a casa la lezione e un’altra parte in presenza, altri atenei come ad esempio Genova hanno optato per fare a distanza questo semestre e Ferrara lo stesso, mi è sembrata una scelta abbastanza ragionevole. Cosa ha influito sulle scelte degli atenei e in particolar modo di quelli lombardi? La competizione che c’è tra di loro: la Lombardia è sicuramente una regione densamente «popolata» di atenei, è l’esempio di come la competizione certe volte non sia così virtuosa, anzi spesso è proprio il contrario, e porta anche a fare delle scelte che non dico siano discutibili ma che lasciano un po’ perplessi. Adesso quello che io temo, ma spero di sbagliarmi, è che tra un mese, a fine a ottobre, chiuderemo e saremo di nuovo da capo, faremo di nuovo didattica a distanza. Stante anche il fatto che la Lombardia continua a essere una regione a grande “rischio di contagio”, anche se a volte il Veneto sale nei contagi giornalieri e il numero di positivi della Liguria sul totale della popolazione è altrettanto alto – infatti Genova ha scelto di erogare didattica solo a distanza. Secondo me si dovrebbe fare una comunicazione in una maniera diversa, forse con un po’ più di coraggio e intelligenza, con contenuti rassicuranti per gli studenti sul fatto che la didattica, anche se fosse fatta a distanza, sarebbe di qualità.
Quello che è successo durante il lockdown permette di capire una cosa fondamentale: l’università non è quella torre d’avorio arroccata, isolata e addirittura menefreghista verso il mondo, perché la capacità e la rapidità di reazione del mondo universitario è stata spaventosa, in due settimane c’è stata una reazione incredibile. Questo fa capire quanto l’università e la scuola siano state le istituzioni con la maggior capacità di reagire alla situazione di lockdown: non hanno lasciato gli studenti da soli, isolati e senza sapere cosa fare, il secondo semestre è partito regolarmente. La comunicazione del lockdown e della chiusura è arrivata a ridosso dell’inizio del secondo semestre e a Pavia perlomeno, in una settimana, con fatica, abbiamo messo in piedi un sistema di didattica a distanza molto variegato: c’è chi ha fatto i video, chi ha fatto podcast, alcuni hanno fatto delle cose molto aberranti come fare lezione a distanza in maniera identica a una lezione in presenza, però lì abbiamo avuto comunque la prova che c'è stata la volontà e la capacità di dare una risposta alla situazione ed è stata molto efficace, gli studenti tutto sommato sono stati soddisfatti, quantomeno quelli che ho sentito io, relativamente ai miei due corsi e anche attraverso dei sondaggi in altri atenei. Trovo abbastanza assurdo che, dopo che le cose hanno funzionato, non si sia costruito un punto di vista strategico in grado di prendere quel patrimonio di conoscenze di best practices, per una didattica efficace a distanza e soddisfacente per gli studenti e implementarla. Invece abbiamo fatto tabula rasa, facendo questa cosa mista nonostante, ad esempio, l’assenza materiale di computer. Le lezioni stanno iniziando e abbiamo un sacco di problemi, dubbi, perplessità proprio dal punto di vista tecnico; la formazione che abbiamo ricevuto per far funzionare tutto l’apparato dell’infrastruttura tecnologica, per fare lezioni in presenza e registrandole, cosa che sembra facile, è in realtà un delirio. Avevamo un corpo di conoscenze pratiche sviluppato nei mesi del lockdown e non lo abbiamo minimamente preso in considerazione, ora partiamo da zero o quasi.
Dal suo punto di vista, quindi, quanto questo evento del lockdown ha accelerato processi già in atto o si sta invece creando qualcosa di nuovo, cioè una nuova forma di didattica in cui la presenza non è più la dimensione strutturante? In sintesi: stiamo assistendo a cambiamenti contingenti oppure strutturali e duraturi?
Come avevo accennato io sono fautore di una didattica in presenza, ma non perché sono un tradizionalista, assolutamente no, ma perché la formazione universitaria non è solo didattica, cioè andare ad ascoltare la lezione: è confrontarsi tra studenti e tra gli stessi e i docenti, è avere interazioni, è sviluppare capitale sociale. La cosa paradossale è che durante dei piccoli focus group con i miei studenti durante il lockdown, a una mia domanda precisa «avete un WhatsApp, non potete interagire lì?», la risposta è stata: «no professore, non è la stessa cosa, WhatsApp serve per lo svacco». Serve cioè per altre cose, non per l’interazione, magari anche loro evolveranno in quella direzione però effettivamente poter interagire face-to-face è richiesto dagli stessi studenti. Ci sono cose che hanno funzionato meno, però nel complesso la didattica ha funzionato; quello che manca è l’interazione con i miei compagni e con i professori. Detto questo, io ritengo che la didattica universitaria debba continuare a essere una didattica in presenza perché appunto è un’esperienza culturale, sociale delle persone e per i docenti stessi. La didattica totalmente a distanza, come qualcuno aveva incominciato anche in ambito politico e ministeriale a ventilare, non può funzionare, si tratta di un’amputazione enorme. Ciò non vuol dire che fornire elementi di didattica attraverso piattaforme digitali sia da disprezzare, e mi riferisco in particolar modo alla situazione di molti studenti-lavoratori che potrebbero così frequentare la lezione senza dover essere presenti, e permetterebbe anche di eliminare quella pratica del programma differenziato che a volte per i non frequentanti è addirittura penalizzante. Quello che cerco di fare il meno possibile è la differenziazione tra programmi, perché i vantaggi e gli svantaggi di entrambe le parti si annullano in quanto chi frequenta «perde» del tempo a stare lì e ha meno tempo per poter studiare a casa, chi non frequenta è vero che ha più tempo di dedicare allo studio a casa, però non sente tutta una serie di cose che lo studente in presenza sente e quindi è facilitato per la preparazione dell’esame; perciò non differenzio i programmi. Questo tipo di didattica, cioè andare in aula in presenza, registrare la lezione e renderla disponibile, è secondo me un’innovazione che possiamo anche strutturare; non deve essere però intesa come una modalità alternativa ma integrativa, ciò deve essere reso chiaro in primo luogo agli studenti, cioè loro hanno la possibilità anche di risentirsi la lezione, chi non può frequentare perché è malato o perché lavora può assistere alla lezione in differita o in streaming – per questo non lo vedo come uno strumento diabolico, anzi lo trovo utile, però assolutamente non sostitutivo. La didattica in presenza deve rimanere, come ho detto prima, l’università non è solo un luogo di formazione didattica in senso stretto, è un luogo di formazione sociale e culturale, e tale deve rimanere.
Aggiungo che moltissimi studenti, intorno all’80% di quelli con cui ho fatto i focus group, circa cinquanta persone di due corsi diversi, del problema legato alla distanza e al lockdown lamentavano che si perde il ritmo accademico, perché la lezione la puoi anche sentire dopo ma loro stessi hanno esperito sulla loro pelle come quel ritmo accademico serva a organizzare il modo con cui si apprende. Un grosso problema durante il lockdown era legato alla disponibilità materiale di un computer, nonché dall’ambiente in cui si seguiva la lezione e dalle infrastrutture presenti. In più c’è un’altra cosa interessante emersa sul lato scuola ma estendibile all’università: i soloni che parlano dei millennials e dei nativi digitali non si rendono conto che in realtà questi sono ignoranti, sanno usare la tecnologia per svago sul telefonino ma allorquando si trovano di fronte a una piattaforma didattica online si perdono, «scusi professore ma come faccio ad accedere?». In un piccolo scritto sulla scuola, realizzato insieme a un collega, ho detto che questo del nativo digitale è un mito: non è che sono tecnologicamente più avanzati di noi, anche perché le tecnologie a cui loro sono abituati sono tecnologie user-friendly, facili; è invece vero che le tecnologie più complesse le abbiamo messe in piedi noi vecchiacci e quindi riflettono ancora un modus di pensare un po’ tradizionale, però con un minimo di complicazioni tecnologiche e tecniche in più i giovani non sono capaci ad utilizzare queste piattaforme perché sono abituati ad aprire WhatsApp o Instagram e lo sanno usare benissimo, ma non sanno niente dal punto di vista tecnico e tecnologico di altro perché appunto sono abituati allo user-friendly che permette un uso facile, non ragionato.
Abbiamo già accennato al fatto che non c’è stato un crollo delle iscrizioni, come sostenuto dalle previsioni catastrofiste. Il mercato della formazione italiano non è certamente quello degli Stati Uniti, però nel corso degli ultimi due decenni si è indubbiamente ampliato e articolato. Quanto questa situazione creerà una maggiore differenziazione degli atenei? Dobbiamo pensare che ci sarà un mercato più stratificato, con in cima atenei di eccellenza, in mezzo istituzioni fortemente diversificate sul piano territoriale e in basso università online, come ad esempio Pegaso?
Partiamo dal concetto di stratificazione. La stratificazione delle istituzioni è sempre esistita, non è una novità che scopriamo oggi, bisogna vedere che tipo di stratificazione vogliamo avere, è questo il punto. Certamente fare atenei di serie A e di serie B sulla base di una qualche strategia politica lo trovo assurdo, non lo trovo assolutamente utile, efficace, produttivo. Ci sono poi atenei che riescono a performare, come si dice in linguaggio manageriale, meglio di altri ed è giusto così, la cosa non mi spaventa. Tempo fa scrissi un discorso proprio sull’eccellenza dopo aver fatto delle ricerche sull’eccellenza in università e quindi sulla conseguente stratificazione. Io sono per un modello che cerca di promuovere l’eccellenza ovunque, non faccio una politica selettiva che autoriproduce ciò che è già eccellente. È l’effetto San Matteo: do a te che sei già bravo risorse, opportunità, possibilità di fare delle cose che ti fanno diventare ancora più bravo. Questo è il rischio della stratificazione molto accentuata ma perversa. Cercare di diffondere l’eccellenza non vuol dire sfavorire quelli più bravi, vuol dire però non puntare esclusivamente su questi. Le università inglesi e americane come Cambridge, Harvard, Oxford o Princeton sono per tradizione dei poli di eccellenza, ciononostante non bisogna pensare che esistano solo loro e dobbiamo continuare a incentivarli, ma bisogna anche aiutare chi potrebbe avere le potenzialità, a fronte di una progettazione e alle potenzialità di migliorare, questo è il quadro. In secondo luogo, ritorna il discorso dei titoli di studio: si stanno piano piano affermando, anche se non sono veri titoli di studio e non sono neppure delle certificazioni, corsi di sei mesi offerti da Microsoft o Google, che loro chiamano universitari, che non danno nessun titolo universitario, danno un attestato che afferma che hai frequentato questo corso molto specifico su una certa tematica. Ciò è visto con un po’ di timore da buona parte del ceto accademico, non soltanto italiano, perché effettivamente in base a quella retorica per cui l’università non serve e non forma, questi titoli potrebbero diventare molto competitivi rispetto al titolo universitario e quindi sottrarre iscrizioni all’università. Tuttavia, la cosa molto curiosa è che quei titoli formano dei profili molto specifici in un determinato momento in cui ho bisogno di un certo tipo di professionista, ma domani? Ci han sempre detto che sarà impossibile fare lo stesso lavoro per tutto l’arco della vita, come era nel tempo del fordismo, ora c’è la flessibilità, cambierete tre, quattro, cinque o dieci volte lavoro e imprese, quindi dovete scordarvi che una volta che vi siete specializzati su un ramo conoscitivo possiate lavorare sempre in quell’area di interesse: e allora, come funziona questa cosa?
Abbiamo, nello scenario odierno, una certa quantità di forza lavoro molto professionalizzata, utile oggi ma poi domani si vedrà, perché cambia proprio il mondo del lavoro, evolve alla velocità della luce. Perché è meno dispendioso da parte dell’impresa licenziare uno che non ha più le competenze richieste e prenderne uno nuovo, anziché aggiornare quello che si ha in casa ma con competenze ormai vetuste. Quindi avremo secondo me un momento di euforia da parte delle imprese e anche degli studenti, che magari non andranno a fare l’università; ci sarà poi un redde rationem e non ci vorrà molto a capire che non conviene. Io faccio sempre questo esempio molto semplice: anni fa ho letto un articolo sugli ingegneri della Silicon Valley, a proposito di dove mandano i propri figli a studiare a scuola; ci si aspetterebbe che i figli di ingegneri informatici frequentino scuole dove c’è l’apparato informatico più evoluto e più avanzato, e invece no, frequentano scuole cosiddette blackboard & chalk, cioè lavagna e gessetto come nella scuola tradizionale, sono loro i primi a sapere che questo nuovo modello di istruzione non funziona, è una formazione ridotta. Oggi paradossalmente, e questo si ricollega al discorso iniziale della riforma Berlinguer, l’università è chiamata non tanto a formare profili fortemente professionalizzati quanto a formare dei generalisti, che non vuol dire dei tuttologi, vuol dire delle persone dotate di metodo per poter affrontare situazioni eterogenee con efficacia, con una visione il più possibile aperta e non chiusa, che si rendano conto di quello che capita là fuori e abbiano capacità di adattamento.
Dal suo osservatorio, come docente e al contempo studioso dei processi di trasformazione, come i vari attori del sistema universitario si collocano dentro questa fase che stiamo vivendo? Come sono cioè cambiate le diverse figure dell’università (dai docenti, ai precari, agli studenti, fino ad arrivare ai lavoratori dell’amministrazione)?
Sul lato docenti abbiamo fatto recentemente una ricerca che è stata anche pubblicizzata su «La Repubblica», su come i docenti hanno vissuto la didattica a distanza in lockdown. Effettivamente emerge uno spaccato in cui la gran parte dei docenti è stata in grado di attrezzarsi, di rispondere, ha apprezzato anche alcuni elementi di questa situazione. Sarebbe stato bello estenderla anche agli studenti, io l’ho suggerito però non è stato fatto. Poi chiaramente ci sono stati vari problemi legati ad esempio alle connessioni, però in linea di massima non c’è una preclusione del docente universitario ad avvalersi di strumenti che magari sapeva che c’erano ma non li aveva mai usati ed è stata l’occasione di usarli. È chiaro che i docenti che si sono completamente formati nella cosiddetta vecchia università ormai stanno andando in pensione, ci sono quelli più giovani che si sono formati come studenti nella vecchia università come nel mio caso, ma vivono e operano in un’università che è diversa. Quindi, probabilmente tutte queste innovazioni andranno nel tempo a «regime culturale», cioè entreranno a far parte della nostra quotidianità. Sul lato degli studenti più o meno ho già detto, per cui penso che questa sia la fotografia a oggi che probabilmente perdurerà.
Per quello che riguarda gli amministrativi, ecco lì ho visto un po’ più di fatica, nonostante lo sforzo. Ad esempio Pavia e molti altri atenei hanno la proporzione di un amministrativo ogni docente, per implementare e mettere a regime certe cose come stiamo facendo ora, una didattica che è in presenza ma con un apparato che ti permette anche di fare lezioni a distanza, per chi ha deciso di non partecipare, si trovano di fronte al grosso problema della mancanza di personale e diventa difficile lavorare.
In alcuni casi ci sono i professori che fanno le lezioni online come se fossero in presenza, ci sono quelli che continuano a fare l’orario di ufficio dentro l’emergenza ed è una mentalità che purtroppo ancora in alcuni soggetti permane. Nell’insieme, dal punto di vista organizzativo, io credo che l’università abbia dato prova di essere capace non solo di fronteggiare il lockdown, ma è stata capace anche di provare a reinventarsi e innovarsi, dove innovazione non vuol dire riforma, cioè cambiare forma, bensì significa mettere qualcosa di nuovo che prima non c’era, fare qualcosa di nuovo che prima non si faceva. Secondo me paradossalmente la pandemia è stata utile per dare avvio a questa fase, che sarà una fase di processi innovativi e di progettazione, che durerà e ci occuperà ancora per qualche anno per fare delle cose in maniera diversa. Bisognerà vedere se tutto funzionerà, bisognerà ovviamente sempre vigilare, essere attenti sugli eventuali effetti perversi che si possono annidare anche nella pratica più banale.