I fuochi della rivolta e il ballo in maschera dei suprematisti

I fuochi della rivolta e il ballo in maschera dei suprematisti

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"Borne" risponde alla riflessione di Commonware sull'assalto a Capitol Hill

Le lotte e i sommovimenti statunitensi arrivano da questa parte dell’atlantico sempre attraverso la mediazione di una lente spettacolarizzante: se da una parte the land of the free resta peculiare per la sua interpretazione radicale di tutti le contraddizioni sollevate dalla pandemia, dall’altra si pone come modello di una parte essenziale della politica occidentale, cioè il piano della rappresentazione democratica.

Sentiamo dire da più parti che il sistema americano è messo in tensione dalla polarizzazione politica che lo attraversa, ma questa affermazione va approfondita e messa in dubbio, se non altro perché il grande ciclo di espansione apertosi negli anni ‘70, ha avuto uno dei suoi meccanismi di stabilità proprio nella capacità di mantenere polarizzazioni politiche che alimentassero la dialettica democratica interna: se la democrazia funziona e ricompone le fratture imposte dalle lotte antirazziste americane, è proprio grazie a un’inclusione conflittuale dentro la sfera democratica; alcune marginalità acquistano una rappresentazione poiché la loro conflittualità è rappresentabile dialetticamente. Quello che sembra essere in discussione oggi in USA è proprio la persistenza di questa polarizzazione, che viene strappata ai suoi bordi, scossa da forze che mettono in discussione le categorie della rappresentazione, e quindi la capacità di soggettivare la popolazione secondo schemi funzionali all’ordine.

Per parlare di questa situazione bisogna cominciare dalle proteste seguite all’omicidio di George Floyd. Non ci dilungheremo qui nello spiegare l’incredibile capacità dimostrata da questa insurrezione diffusa di sovrastare tatticamente le forze contrapposte, né approfondiremo i punti deboli e le falle sfruttate dal sistema poliziesco per ristabilire una forma d’ordine, su questo esiste e si sta sviluppando una serie di testimonianze dirette che ci sentiamo di rilanciare, ad esempio questa, questa, questa e questa.

Partiamo invece da una constatazione: le rivolte antirazziste e antipoliziesche dell’estate, non si sono inserite nei binari della Sinistra, non c’è stata la coagulazione di una voce rivendicativa da dialettizare nel mercato delle idee, si è invece piuttosto osservata la manifestazione di una forza capace di aprire spazi di agibilità, spazi di immaginario, spazi discorsivi (“abolish the police” era uno slogan impensabile pressoché ovunque prima del 2020). L’avvicinarsi della scadenza elettorale è stato un fattore di indebolimento di questa forza, ed ha ricompattato diversi settori (anche della sinistra vicina a BLM) su posizioni di mediazione, ma non ha prodotto un candidato minimamente capace di rappresentare quanto avvenuto. Il vizio storicista coglie l’analista “di movimento”, e la vittoria di Biden diventa la conquista riformista da rivendicare, oppure il cedimento che “riassorbe” la forza sprigionata, a seconda che l’analista si posizioni nel campo dei riformisti o dei militanti radicali: nessuna di queste due opzioni è quella in atto, perché la forza di questa sequenza non risiede nel campo del visibile, ma precisamente nella diffusione di una pensabilità, nelle relazioni incendiarie, nell’efficacia delle tattiche di strada e nel coraggio che discende dall’evento. La proposta bideniana non risponde, e non si propone di rispondere, a nessuna di queste fratture.

Quello che è guardato come un elemento di debolezza, la mancanza di una rappresentazione ricompositiva, è invece proprio il maggior punto di forza della rivolta americana, capace di tenere aperto un laboratorio di sottrazione alla governamentalità, di aprire spazi di agibilità politica vivente. Anche riguardo alla storia di Black Lives Matter, troppo spesso ci si è concentrati sui suoi gruppi strutturati, i suoi volti: ma se esistono dei collettivi-BLM, esiste anche e soprattutto una sequenza di affettività, gruppi di supporto e ascolto per vittime delle violenze poliziesche, spazi di discussione (e di polemica) sulle pratiche, solidarietà abitudinarie… questo è il nerbo che non può essere facilmente decostruito perché non si colloca in nessun luogo specifico, ma in un’affinità sotterranea.

Dall’altra parte c’è il collasso del progetto trumpiano, incapace di ricomporre un regime simbolico all’altezza delle sue rivendicazioni. L’assalto a Capitol Hill diventa una sorta di festa profana animata dai fan dell’ex-presidente, una festa che squaglia ogni immaginario law and order, anche (e qui sta l’aspetto più interessante) contro le intenzioni degli stessi partecipanti alla festa: persone e gruppi che alimentano ogni giorno la speranza di ripulire il politico, di tornare al piano liscio e razzista del governo, in questo identici ai democratici tutori dell’ordine. Chi parla di innalzamento del livello dello scontro e di tentativo di colpo di stato non sembra cogliere il punto della questione: quanto accaduto testimonia un’eccedenza rispetto all’ordine simbolico dello scontro tra democrazia liberal e destra trumpiana, e sfibra ogni immaginario che possa far “tenere” un progetto razzista o identitario nazionale a stelle e strisce dentro una cornice istituzionale. Cioè proprio il tentativo di Trump. Un’orda di fascistoidi è entrata parlando di ordine e disciplina, e si è ritrovata a una festa in maschera: speriamo che abbiano imparato a divertirsi, contro i loro stessi desideri disciplinari!

La guerra civile fa comodo al potere solo quando è possibile delimitare il proprio fronte, quando chi comanda e minaccia la guerra può porsi come effettivo argine e limite della guerra stessa.

Continuando secondo questa lettura, i progetti di estrema destra istituzionale non sono il nemico dell’estremismo di centro, del capitalismo liberal, sono invece – per questo centrismo-morigerato e programmatore – l’ultima speranza di darsi un senso dentro una dialettica che non metta in crisi l’esistente: Biden ha bisogno di Trump, così come Macron ha bisogno di Marine Le Pen (e infatti cerca continuamente di resuscitarla dalla crisi politica terribile che l’ha colpita), l’UE di Orban e la sinistra culturale occidentale di Bolsonaro.

La profanazione di un feticcio vuoto come il Campidoglio non ci indigna e non segna un salto di livello. Certo, l’estrema destra, la sua organizzazione capillare, è un pericolo concreto e che ha accompagnato tutta la storia statunitense, il suprematismo bianco segna l’idea di polizia e di governo sin dai suoi albori, in particolare negli Stati Uniti. Illuso è chi crede che Trump sia una condizione per la radicalizzazione di questi gruppi, quando ne è l’espressione organizzata. Ma la realtà mai abbastanza raccontata, è che queste forze reazionarie oggi vacillano, sotto le spinte di una guerra civile non dichiarata, non trattenuta, che da Minneapolis a Portland, passando per Atlanta e Kenosha, mette tutto in discussione. E allora la lettura di Capitol Hill come punto alto di una guerra civile tra liberal e fascisti diventa anche un meccanismo di occultamento di processi ben più ampi (allo stesso modo dell’indignazione per i feticci democratici che sono stati dissacrati).

Senza il teatro di una rappresentazione bipolare, senza la classificazione identitaria dell’America liberal contrapposta all’America redneck o alt-right, la forza innescata dall’insurrezione estiva è ancora più pericolosa per i governanti, perché capace di aprire spazi trasversali alla razza, di includere pezzi di popolazione orfani di una rappresentazione identitaria chiara.

Governare è più facile quando c’è un centro da “proteggere” e “tutelare”. La figura del presidente serve soprattutto a garantire questo, e la sceneggiata di una incoronazione di Biden “sotto alta tensione” sarà orientata proprio a questo impegno immaginifico. Ma i buoi sembrano essere scappati, e se il Campidoglio si rivela il vuoto androne adatto a un bivacco, risulta molto più chiaro il potere esercitato in un qualsiasi commissariato del paese, e quindi l’enorme forza diffusa che si sprigiona quando si impara a bruciarlo.


 

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