Per farla finita con la sacralità della vittima e delle differenze

Per farla finita con la sacralità della vittima e delle differenze

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Identity politics, woke left e crisi del ceto medio riflessivo

Destra e sinistra

Su un livello molto generico, ancorché diffuso tra le democrazie liberali occidentali e con declinazioni locali specifiche, il discorso politico istituzionale e progressista tende a ricondurre le polarizzazioni polemiche della società in un'unica quanto contraddittoria dicotomia: da un lato i “complottisti”, dall’altro gli “illuminati”. Dei primi, sulle pagine di Commonware, si è già parzialmente discusso, sui secondi invece, dopo l’elezione di Biden e la stagione dei movimenti che possono essere rubricati, pur con il rischio di un’eccessiva semplificazione, sotto l’etichetta di identity politics, occorre aprire una riflessione.

Questo clivage, che spacca lo spazio politico e che il virus ha contribuito ad approfondire, generalmente viene letto utilizzando il tradizionale schema destra-sinistra, per cui a destra si collocano i “complottisiti” mentre a sinistra si trovano gli “illuminati”. Ne deriva un’interpretazione insufficiente sia dal punto di vista analitico che da quello politico: da un lato perché tra le composizioni sociali che incarnano i due termini ci possono essere, in una certa misura, delle sovrapposizioni, dall’altro perché risulta insufficiente attribuire al primo una connotazione regressiva e al secondo una qualità progressiva.

Pertanto, lo schema dialettico destra-sinistra non ci consente di individuare i potenziali spazi di organizzazione. Semmai occorre registrare che i soggetti afferenti a questi due poli, che si tratti di seguaci di QAnon o di giovani attivisti anti-una-qualche-forma-di-oppressione, dentro la crisi di civiltà si ritengono entrambi capaci di dire una verità sul potere. Sembrerebbero quindi, a questo livello di analisi, due facce della stessa medaglia.

Woke left

Più precisamente, si può identificare il polo degli “illuminati” con la cosiddetta woke left. La sinistra sveglia, illuminata appunto, che ritiene di possedere la Verità; che si auto rappresenta come giusta e meritevole, competente e razionale; la cui missione storica è quella di proteggere l’umanità e l’insieme degli enti sensibili e non – tutti ugualmente vulnerabili – dalle forme di sfruttamento e di oppressione, dall’ignoranza e dalla rozzezza di chi sostiene i “populisti”, dagli istinti animali ed egoistici che guidano le azioni di uomini e donne. È la sinistra delle differenze e dell’intersezionalità e della lotta al privilegio. È la sinistra del “politicamente corretto” che trae nuova linfa dalla cosiddetta cancel culture; quella dei safe spaces per le minoranze oppresse (vedi qui e qui).

In Italia questo tipo di cultura politica è diventata quantitativamente significativa con qualche anno di ritardo rispetto ai paesi anglosassoni dove, invece, è nata e si è sviluppata tra campus universitari e piattaforme web, ormai archeologiche, come Tumblr. Teorie critiche alla moda nate nei circuiti globali dell’accademia (accelerazionismo, xenofemminismo, transumanesimo, per citarne solo alcune), intelligenti operazioni commerciali di case editrici “alternative”, lavoratori cognitivi in cerca di bollini reputazionali, gruppi e pagine Facebook (tra cui, da non sottovalutare, le pagine meme che acquistano un peso sempre più significativo nell’immaginario politico) hanno alimentato il successo della woke left nella penisola. Questo ritratto caricaturale ma non distante dalla realtà è il profilo di un nuovo estremismo liberale e progressista anch’esso sintomo, come il “populismo”, dell’esplosione della società civile e della crisi di un altro segmento del ceto medio.

Da un lato questa sinistra “sveglia”, presentandosi come argine alla deriva fascistoide e populista, è fonte di nuova legittimità per la democrazia liberale, come dimostra il peso che le differenze hanno giocato nell’elezione di Biden, dall’altro è certamente uno spazio di attivazione per una larga fetta di composizione giovanile, per lo più altamente istruita, che, attratta e mobilitata da questo agglomerato di cultura politica, ha prodotto specifiche forme di attivismo, dal virtue signalling alla cancel culture, e di mobilitazione, come le identity politics.

 

Crisi del ceto medio riflessivo

Se è possibile ricondurre, sebbene solo parzialmente, il complottismo alla crisi di mediazione dei segmenti tradizionalmente produttivi del ceto medio (sia chiaro che l’appartenenza a questo ceto va considerata in termini soggettivi e non invece nei termini di una oggettiva collocazione nella stratificazione sociale), si può allo stesso modo spiegare il fenomeno della woke left con la crisi di mediazione del suo segmento riflessivo.

L’impoverimento, il fallimento degli investimenti educativi, il tradimento della promessa delle competenze sono le cause materiali che muovono le aspirazioni politiche di questa galassia di lavoro cognitivo (accademici, studenti di facoltà per lo più umanistiche e licei, influencers, aspiranti giornalisti e contributor di riviste culturali, artisti, neoartigiani, programmatori, cultori di “theory” critica ­il fenomeno è cresciuto moltissimo anche tra i lavoratori di ONG). Ridotta al nocciolo, la “rivoluzione” che gli “illuminati” pensano è quella delle competenze (non solo quelle del saper-fare ma soprattutto quelle del saper-essere): distribuite nei gangli del sistema consentirebbero un destino collettivo migliore di quello che può garantire un potere incarnato da uomini bianchi, occidentali e anziani o che possono consegnarci gli ignoranti e gli analfabeti funzionali mossi dai propri primordiali istinti.

Dietro questo ordine del discorso, non troppo dissimile da quello fondato sulla meritocrazia che ha accompagnato in Italia la prima fase ascendente del Movimento 5 Stelle e che era presente nel movimento dell’Onda, è possibile intravedere, più prosaicamente, la necessità da parte di questa fetta di composizione di trovare, a discapito di altre figure del lavoro, una migliore collocazione nelle gerarchie del mercato del lavoro; di vendere meglio di altri le proprie merci “speciali” e la propria forza-lavoro, ritenute migliori perché arricchite di cultura e sofisticate competenze. In fondo quella degli “illuminati” non è altro che un’aspirazione, dai tratti corporativi, a una nuova mediazione, se non in termini strutturali di distribuzione della ricchezza quantomeno in termini sovrastrutturali (non meno materiali dei primi) di riconoscimento sociale o di salario psicologico.

L’emergenza virale, con la minaccia alle stesse condizioni biologiche della vita, ha esasperato questo discorso sulle competenze e la polarizzazione tra “illuminati” e “complottisti”, fino a condurre i primi su posizioni scientiste e tecnocratiche, di oggettivo sostegno alla razionalità tecno-scientifica del sistema. Nella crisi sanitaria, con buona pace delle teorie critiche vendute nel mercato della conoscenza, questo segmento di composizione istruito e meritevole si è di fatto asserragliato sulla difesa dello status quo.

 

Identity politics

Tra gli elementi che danno sostanza alla sinistra illuminata bisogna certamente annoverare le mobilitazioni indicate con l’etichetta di identity politics (per un approfondimento parzialmente in linea con questa riflessione si veda qui e qui), ovvero quei movimenti che costruiscono la propria identità politica attorno a una differenza prodotta da una specifica forma di oppressione e che, pur producendo livelli di conflittualità molto elevati, restano impigliati dentro la dialettica del riconoscimento. L’identità vittimaria agitata nelle piazze diventa velocemente, e forse sempre più velocemente, una merce da spendere nella competizione per la conquista di posizioni migliori lungo la gerarchia capitalistica, secondo una dinamica simile a quella che interessa il mercato delle competenze.

È a questa dinamica competitiva, cioè alla necessità di produrre una merce reputazionale sempre nuova, che bisogna attribuire la proliferazione nello spazio pubblico di “differenze”, in genere validate dall’invenzione di uno specifico settore disciplinare nel mercato globale delle accademie. Se il razzismo è lo strumento che pezzi di composizione usano per scalare le gerarchie capitalistiche a discapito dei soggetti razzializzati, la politica dell’identità ne è il rovescio. L’episodio della docente di storia dell’Africa e della diaspora africana alla George Washington University, Jessica Krug, che ha finto per anni origini afroamericane per favorire la propria carriera universitaria, illustra perfettamente come dentro specifici ambiti produttivi e circuiti del mercato del lavoro l’identità oppressa, che viene presentata come un saper-essere, diventi una merce preziosa. La stessa nomina di Kamala Harris alla vicepresidenza degli Stati Uniti può essere interpretata come il tentativo da parte dei democratici di trovare una nuova legittimità sfruttando la merce-differenza-vittimità e una nuova base di consenso tentando di rappresentare chi si riconosce in una qualche minoranza oppressa.

È certamente vero che le lotte possono avere come unico risultato lo sviluppo sistemico, tuttavia non è sufficiente constatarlo acriticamente. Né è sufficiente attribuire il loro recupero semplicemente alla controparte capitalistica. Serve uno sforzo di analisi e dove necessario anche una critica dei movimenti ritenuti più vicini.

Le lotte non sono tutte uguali, alcune hanno più probabilità di altre di rompere con il recupero capitalistico. Sebbene anche la lotta di classe possa sempre essere recuperata, a certi livelli di intensità e in specifiche congiunture può rompere i meccanismi strutturali del dominio capitalistico proprio perché la classe è una dimensione strutturale. Non c’è infatti capitalismo senza divisione di classe. Questa capacità di rottura non vale però necessariamente per le “differenze”. Certamente, in congiunture storiche particolari quest’ultime possono trovarsi in tensione o addirittura in conflitto con il capitale, che le usa per ordinare gerarchie dello sfruttamento. Tuttavia, anche quando non sono già prodotte come merci ma sono l’espressione di un processo di soggettivazione, possono evitare di incagliarsi nella logica corporativa del riconoscimento solo nella misura in cui, paradossalmente, diventano qualcosa di diverso da quello che sono, rompono cioè con la loro identità che è sempre quella attribuita dal capitale.

Meglio ancora, le “differenze” diventano forti nella possibilità di rottura nel momento in cui diventano classe, quando cioè riescono a rompere con la gerarchia imposta dal capitale e ad aprire un processo di ricomposizione antagonista. La classe infatti non è una “differenza” che si associa alle altre, non è un’identità di gruppo che si sceglie e non è nemmeno, in termini sociologici, un’entità economica. È un concetto politico e polemico: è un soggetto che si produce nella lotta al rapporto di capitale. Anche e soprattutto la lotta di classe, pur insistendo su una dimensione strutturale del capitalismo, può rompere i meccanismi di dominio nel momento in cui agisce contro sé stessa e rompe con la propria identità strutturalmente forgiata dal nemico, pena il rischio di esaurirsi anch’essa nella dialettica del riconoscimento.

In sintesi, uno dei principali limiti dell’identity politics e del suo corollario, l’intersezionalità, è quello di equiparare la dimensione strutturale, la classe nella sua eterogenea, articolata e gerarchizzata composizione, con qualsiasi identità di gruppo gli individui vogliano darsi; di non vedere che i conflitti nel capitalismo non sono tutti sullo stesso piano perché non hanno tutti le stesse possibilità di rottura, ma sono ordinati gerarchicamente secondo una combinazione di condizioni oggettive e di forza soggettiva.

Accanto a questi limiti teorico-politici, su un livello più basso, persistono un’altra serie di problemi che riguardano le identity politics. Tra questi, la questione della vittimità è sicuramente uno dei più rilevanti. Non solo perché innesca, generalmente a discapito di altre figure, la richiesta di riconoscimento della propria identità costruita attorno all’oppressione e quindi quella di risarcimento per i torti storici subiti ostacolando ab origine qualsiasi processo di ricomposizione, ma perché limita la capacità di lottare in capo ai soggetti. In fondo l’oppresso è troppo vulnerabile per lottare; va protetto costruendo attorno ad esso un safe space dove non ci sono conflitti, dove il linguaggio è ripulito dai segni dell’oppressione e il soggetto è però continuamente infantilizzato. Esso può solo delegare a qualcun altro il compito della propria tutela ed emancipazione, che sia un attivista, un tribunale o un rappresentante del parlamento. La vittimità, infatti, fa sempre il paio con la rappresentanza. Con buona pace di Fanon per cui la violenza dei «dannati della terra» è necessaria non solo per vincere ma per trasformare la soggettività e diventare finalmente liberi.

Infine l’altro grosso limite delle identity politics, che dimostra la loro vicinanza al campo liberale, è l’individualismo di fondo. Razzismo, sessismo e altre forme di oppressione non sono più un fatto sistemico ma diventano difetti individuali morali. Allo stesso modo il privilegio sostituisce il potere riconducendo, di nuovo, il problema dei rapporti di forza ad una dimensione morale ed individuale. Questo radicalismo morale pretende allora, mostrando tutta la sua ipocrisia borghese, di risolvere un problema sistemico intervenendo sul comportamento degli individui: la terapia di gruppo, il diversity training, l’educazione alle differenze e altre forme di espiazione della colpa prendono così il posto della politica e dei rapporti di forza.

Conclusioni

In genere il recupero delle lotte, per un ossequioso rispetto della vittimità, viene ricondotto all’attività della controparte o al tradimento di qualche leader opportunista, mai ai limiti interni alle lotte stesse. Questa è un’interpretazione pericolosa perché rischia di dipingere i soggetti delle lotte come incapaci e impedisce di comprendere dove orientare gli sforzi organizzativi. Per esempio, le lotte dei neri negli Stati Uniti hanno certamente contribuito alla vittoria di Joe Biden e di Kamala Harris. Ricondurre però questo esito al riformismo e all’attività predatoria, che pure esiste, di organizzazioni come Black Lives Matter o al cinismo dei democratici, è consolatorio e troppo semplicistico. Ciò che conta infatti, nello sviluppo delle lotte, sono esclusivamente i rapporti di forza.

E allora più che piangere sull’assenza di un partito rivoluzionario, posto che i movimenti rivoluzionari, se forti, sono sempre stati in grado di sconfiggere il riformismo, dovremmo chiederci per esempio: in che modo il riassorbimento della differenza di razza, che pure non fa sparire il razzismo, riconfigura le possibilità di rottura della linea del colore? Ugualmente non basta consolarsi con l’idea che il recupero delle lotte non è mai completo, che esiste sempre un’eccedenza che sfugge alla presa dell’innovazione capitalistica e istituzionale o ancora alla cattura del riformismo. La domanda che deve guidare l’inchiesta e l’intervento politico è invece: questo “residuo irrisolto” può e in che misura essere organizzato contro lo stesso processo di innovazione, tracciando una linea di forza ricompositiva?

È evidente che le piazze dei neri, per restare all’esempio citato, non possono essere ridotte alla sinistra degli “illuminati” o al sostegno a Kamala Harris: e allora, quali sono le figure che possono rompere la compatibilità democratica? E come organizzarle? E ancora: così come il socialismo dopo la prima guerra mondiale è diventato una forma di governo e di gestione del capitale, il femminismo, che certamente ha alimentato e alimenta delle lotte non secondarie, in che misura è oggi uno strumento di innovazione capitalistica?

È con questo genere di domande che bisogna interrogare tutti quei movimenti che abbiamo indicato con l’etichetta identity politics. Se vogliamo rischiare di contare qualcosa nella determinazione dei processi politici, occorre portare fino in fondo la critica materiale delle lotte e quindi farla finita con la sacralità della vittima e delle differenze.


 

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