Evidenza/Esigenza. Un caso limite sul complotto

Evidenza/Esigenza. Un caso limite sul complotto

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Vultlarp chiede: quale verità esigono coloro che si trovano indosso o adottano la maschera del complotto?

Naturalmente non bisogna pensare che non sia più necessario un disegno dell’uomo: accettare questa idea significa accettare il disegno del mondo per il quale non esistono progetti del mondo. L’ideologia della non ideologia.  (Franco Fortini)

Non intendo certo ripercorrere in queste poche righe la centralità che le «teorie» (o dovrei forse dire «fantasie» o «ipotesi»?) del complotto hanno riguadagnato in senso politico ed esistenziale nella seconda metà degli anni ’10 – fra l’iperstizione trumpista e l’esplodere della pandemia di Covid-19, per intenderci. Anche perché le «conspiracy theory» sono in realtà fenomeni saldamente radicati nella cultura americana moderna, che i mass e poi i social media hanno solo (per dir così) democratizzato. Così come si potrebbe dire che lo «stile paranoico» è un’autentica scorciatoia, capace di illuminare 250 anni di politica post-rivoluzionaria oltreoceano.

Una storia di queste teorie già si fa; a ben vedere, «si è» sempre fatta. Ma anche la spiegazione più chiara in circolazione resta solo una spiegazione: vediamo tutto, ma non lo possiamo toccare. Più che una storia, è una storiografia dei «complotti» quella che parrebbe tutta da fare: capire cioè in che modo il «come» illumini – e in parte sia – la «cosa» di cui si parla. Chissà che questa storiografia ci possa non solo spiegare, ma anche permettere di farci qualcosa con questi discorsi.

Cosa cerchiamo nelle «teorie» del complotto? Con quale voce parlano a quale voce dentro di noi? Il problema può porsi, credo, in termini di esigenza e di evidenza: e le prossime pagine, a quell’immaginaria storiografia, vogliono essere un piccolo contributo.

Parliamo qui di un caso limite: ci allontaneremo quindi in tutto o in parte da quanto proposto nei più recenti contributi «pop». Sia cioè dai limiti interni del discorso complottista, sia dall’analisi dell’opposizione esternatra ideologie filo- e anti-complottiste. Per dirla quasi con Lolli: oggi cerchiamo di sfasciare quell’«unica imbarazzante famiglia» entro cui sono stipate le credenze devianti, cercando piuttosto di assumere un esempio assolutamente inattuale e definire i contorni che lo accomunano all’arte del governo. Quanto qui oltre si afferma non vuol essere originale: né sarebbe stato formulato senza gli scritti e la recente conversazione di amici.

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Carrellata di domande preliminare

Come si può esprimere qualcosa che «non si può dire» nella logica-grammatica nella quale ragioniamo? Quale verità esigono coloro che si trovano indosso o adottano la maschera del complotto? Quale verità vogliono? E quale non vogliono, ma noi vogliamo da loro? Balbettano già – o potranno mai balbettare – un linguaggio liberatore tramite questo linguaggio complice? Ma anche: di che sostanza è fatta la nostra attualità? A quale ricatto cediamo quando accettiamo un argomento quale vincolo del discorso, della pronuncia, della comunicazione umana? Possiamo pensare un discorso sui complottismi fuori dalla logica dell’attualità, a sua volta cospiratore?

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1. Un giorno qualunque del 2019. In un paesino della bassa padovana si tiene una conferenza sul tema degli intraterrestri. Gli intraterrestri, ovvero la civiltà abitante l’interno del globo di migliaia di anni più progredita di noi, più o meno fornita di un piccolo sole interno, più o meno annidata in grotte e spelonche o sola al centro di un grande vuoto. 



L’uomo che parla seduto in cattedra all’interno della sala ricevimenti del piccolo hotel-ristorante dal nome campestre è vestito bene, ma come dimesso. Porta l’abito della domenica. Dà del tu alla sua platea. Parla verosimilmente col presentatore: l’effetto è quello di una chiacchierata a due con i presenti. Il suo ebook è «acquistabile su amazon». Ha fatto delle ricerche e degli studi. Dice: «L’importante non è che la Terra sia fatta in un modo o in un altro ma i fatti che emergono se questa teoria fosse vera. Nel senso che questo spiegherebbe tutta una serie di cose».

 

2. 1692. Un membro della Royal Society pubblica il resoconto di alcune misurazioni effettuate tra il 1580 e il 1688 tramite bussola magnetica ai quattro punti cardinali, mostrando come i gradi rilevati presso gli stessi luoghi differissero significativamente tra loro anche a distanza di pochi anni. «Tutto ciò che possiamo sperare di fare è di lasciare ai posteri osservazioni affidabili, e di proporre ipotesi che in futuro possano essere esaminate, modificate o rifiutate»: un appello all’integrità scientificità che suona contemporaneo, rivolto a tutti i «Masters of ships» and «Lovers of nature». 



Di seguito, e senza apparenti contraddizioni, l’accademico tenta di spiegare queste variazioni sostenendo l’esistenza di due poli magnetici fissi, piazzati lungo la superficie della Terra, e due poli magnetici mobili, situati entro una sfera interna con un proprio moto di rivoluzione. Ma c’è di più, perché questo nucleo mobile sarebbe solo una delle molte sfere interne della Terra – e come la terra dotate di luce e di vita.

 

3. XIX-XX secolo. I saggi di un occultista francese e le testimonianze di un esploratore col pallino dell’anticomunismo danno il via alla carrellata di pubblicazioni, resoconti e credenze esoteriche su Agartha, regno sotterraneo fonte di ogni saggezza e ricchezza «accessibile a tutta l’umanità, quando il cristianesimo sarà all’altezza dei comandamenti». 



La storia fa presa, e circa un secolo fa alcuni convintoni, certi della loro nobile e antichissima ascendenza, si fanno persuasi che i loro antenati siano proprio gli abitanti di Agartha. Nel 1942 tenteranno addirittura una spedizione per trovarne l’accesso: non prima però di aver fondato un partito politico, preso il potere in Germania e intrapreso lo sterminio sistematico di una parte della popolazione umana.

 

4. Nessuno, in sala, sospetterebbe che le parole che escono dalla bocca di quel dimesso signore siano in realtà un trito di antiche teorie scientifiche e di delirio mistico nazista. Ancor meno che il membro della Royal Academy e primo sostenitore di queste teorie, Edmond Halley, avesse la tendenza ad azzeccarci, con le ipotesi – se è vero che la cometa che porta (postumamente) il suo nome passa sopra le nostre teste ogni 75 anni. In ogni caso, la teoria su cui si postula l’esistenza degli intraterrestri è effettivamente quella della Terra cava: qui, qui, qui, qui e qui trovate alcune fonti al riguardo, per cominciare.



Ma non è tanto la teoria in sé o la sua storia che ci interessa ora, quanto piuttosto il rapporto che possiamo averci: un rapporto che tra il XVII secolo e oggi è mutato profondamente.

 

5. In un articolo recentemente apparso sull’«Indiscreto», si dice che i complottismi testimonino su larga scala della permanenza contemporanea dello gnosticismo. Ne riassumo ulteriormente gli assunti:

«Il mondo che conosciamo è in realtà falso […]; oltre a questo mondo ne esiste un altro, […] accessibile attraverso un’informazione-chiave, la gnosis; questa informazione viene tramandata a una cerchia ristretta di eletti, iniziati di un culto esoterico che conoscono la verità che si nasconde dietro l’illusione». 



Quando Halley propone la teoria sulla terra cava, sta cercando di spiegare alcuni risultati anomali ottenuti con la bussola; quando Hitler (secondo una versione dei fatti) parte alla ricerca di Agartha con i più avanzati mezzi di trasporto aerei e subacquei, esperto di raggi infrarossi al seguito, lo fa credendo plausibile la sua esistenza in quanto corollario logico dell’esistenza di una razza superiore. Quando il relatore in cattedra nella sala ricevimenti del piccolo hotel-ristorante ne parla, sappiamo invece che si sta riferendo a un sistema più ampio e integrabile di credenze e teorie che definiamo del complotto. Ma tra il polo-Halley e il polo-Nazimisticismo, dove si situa il suo atteggiamento?

A un primo sguardo, si direbbe questo: che Halley agisce in termini scientifici e la mistica nazista no. Da una parte c’è un linguaggio geologico-fisico problematico, e il tentativo di decrittarlo in un linguaggio umano; dall’altra, il tentativo di avallare storicamente la verità di un assioma. Ma in entrambi i casi, è a partire dagli strumenti e dalle conoscenze a disposizione che questo obiettivo viene perseguito.

Così come per i nazisti non c’è contraddizione tra progresso tecnico-industriale e verità ontologica, così Halley stesso non esita a servirsi di una pluralità di riferimenti desunti dalla letteratura per proporre la sua teoria. Rispondendo retoricamente ad alcune possibili obiezioni, il problema dell’illuminazione delle sfere interne trova la sua soluzione nientemento che nei riferimenti infernali che popolano l’Eneide e il De raptu Proserpinae:

«Sono sicuro che Virgilio e Claudiano hanno avuto prima di me questo pensiero illuminando i loro campi elisi con sole e stelle propri a quelle regioni infere – o meglio interne. […] E anche se questo potrà non essere considerato un valido argomento, ritengo tuttavia di potermi prendere una libertà che tanti si concedono: quella di citare i poeti quando servono al mio scopo».

Così dovremmo anche ricordare che fu proprio il ricorso a fonti letterarie e storiografiche a permettergli di supporre la ciclicità del passaggio della cometa – desunta dalle testimonianze di Apiano e Keplero. Tutto ciò non è nuovo. Discorso scientifico e discorso artistico cominciano ad avere un’autonomia e due ambiti di discorso separati a partire dall’implosione della teologia come pretesa integrale della verità.

Che è come dire che metodo sperimentale delle scienze naturali e metodo di indagine storica sono due sentieri tendenzialmente divergenti; ma si contraddicono forse in eterno? (vedi, al riguardo, il punto 2f delle tesi di Lolli).



Il divulgatore della teoria intraterrestre, in questo senso, attinge da entrambi i mondi in termini deteriori: non esita a fare suoi i riferimenti più disparati per propagandare la sua verità, assiomatica ma criptata; e lo fa nonostante anzi osteggiando gli strumenti e le conoscenze a disposizione. Niente di più deviante, si direbbe davvero. Eppure qualcos’altro avvicina questi esempi, fino a renderli quasi tangenti.

 

6. Costruire un modello di comprensione del mondo secondo un criterio scientifico può modificarne la conoscenza e l’esperienza. Tuttavia, a prescindere dall’amore puro e incondizionato per la disciplina, un preciso progetto per l’uomo e per il mondo soggiace a ogni ricerca. La carriera di Halley – accademico, esploratore, astronomo – descrive un preciso momento di convergenza tra lo stato degli studi geologico-astronomici e gli interessi della corona inglese: il «perfezionamento dell’arte della navigazione», ovvero la totale padronanza della Terra a fini bellici e commerciali. Questo è il motivo per cui Carlo II istituisce il titolo di astronomo reale nel 1675; questo è lo scopo per il quale Halley subentra a Flamsteed presso l’Osservatorio di Greenwich nel 1720. Se possiamo considerare la sua teoria sulla terra cava come scientifica, ciò non avviene solamente perché è falsificabile; ma perché la sua falsificabilità è la condizione per l’esercizio reiterato degli esperimenti sull’elettromagnetismo – funzionali a loro volta a un preciso progetto, basato sull’egemonia navale britannica. 



A dispetto di questa intima unità di intenti, quando si parla di scoperte o teorie scientifiche tutto tende a trascolorare dietro neutre ragioni speculative. È vero invece che per ogni teoria scientifica apparentemente neutrale vi sono un progetto e un uso politici; e che questi hanno come obiettivo di lungo periodo l’esercizio reiterato di un altro esperimento: quello del dominio. Halley trascorse la propria vita sotto le tormentate vicende della Corona inglese – tra Restaurazione monarchica e Gloriosa Rivoluzione, Bill of Rights e Inghilterra giorgiana. Queste vicende non impedirono tuttavia al Regno di Gran Bretagna di assicurarsi la pressoché totale egemonia sui mari, soprattutto in seguito alla Guerra dei sette anni. L’ordine a cui aspira chi detiene il controllo sulla scienza è di tipo metafisico. Cioè la presunzione che il Mondo esista al di fuori del linguaggio e delle relazioni.

 

7. «L’importante non è che la Terra sia fatta in un modo o in un altro, ma i fatti che emergono se questa teoria fosse vera». Così comincia il discorso del complottista. E il primo di questi fatti, ovviamente, è che ci hanno mentito. Una consapevolezza – il pasoliniano «io so, ma non ho le prove» – che non è tuttavia sufficiente a possedere la chiave-gnosi. Di qui, l’infinita componibilità delle teorie del complotto. Il secondo fatto è che c’è una realtà – meglio: una verità da sempre negataci. Motivo per cui quando una teoria del complotto avanza prove sulla cavità della terra in base a leggende, romanzi, testimonianze, non vuole tentare un’interpretazione del mondo, non vuole porre le condizioni per l’esercizio di alcun esperimento: vuole disvelarne la verità. Il suo è un intento intimamente anti-scientifico perché, al di là di ogni possibile confutazione, si pone come non-falsificabile. Questo, che pone la logica complottista sul medesimo piano della mistica nazista, sembra anche il punto di massima distanza tra scienza egemone e teorie del complotto. In realtà ne è il punto di quasi-tangenza. I complottismi aprono uno spiraglio entro una contraddizione lacerante in seno alla scienza egemone: che non si possa dare cioè una neutralità e un’oggettività nella conoscenza «obiettiva» del mondo, perché genera ed è generata da prassi ideologiche – da un particolare disegno dell’uomo e un preciso progetto per il mondo. Quando qualcuno blasta un complottista, dice Lolli, «si pone in maniera irriflessa dalla parte giusta della storia». La verità di parte difesa dall’anticomplottista è estremamente materialistica; ma l’anticomplottista non lo sa, e continua a credere illuministicamente «ai fatti e alla logica». Ma questi fatti e questa logica, fatti a loro volta di principi (di causalità; di identità; di non contraddizione; di falsificabilità), nascondono una credenza più profonda: quella in una filosofia della Storia come logica e metafisica.

 

8. Su due cammini che si suppongono tangenti, governi e teorie del complotto vanno così mano nella mano. Il conflitto fondamentale è traslato, e vede da una parte i vincitori/eletti, dall’altra la massa dei sottomessi; in mezzo, gli sconfitti che detengono la verità ma non la gnosi, di natura demonica, «esuli in terra fra gli scherni» degli asserviti alle élite, coscienze infelici e rassegnate di questo mondo. Lo spiraglio che potrebbe lacerare il discorso sulla scienza si chiude tuttavia immediatamente. Le teorie del complotto, attraverso la rivendicazione di una Verità, adottano la medesima presunzione metafisica della scienza egemone – un disvelamento ontologico in senso storicistico – riconducendo il discorso al medesimo ordine di senso. È in questo, e prima di tutto in questo, che i complottismi sono complici dei governi, anche quando dicono di avversarli, prima ancora di ogni costruzione eterodiretta. Il senso, infatti, non riguarda tanto il vero o il falso delle enunciazioni, ma si installa tutto insieme nell’enunciazione stessa: non appena l’intuizione negativa ritiene di doversi «confrontare» con il sapere costituito adottando la medesima logica, i giochi sono fatti.

 

9. Non tanto il bisogno di Verità che li guida, ma l’ordine di verità dei complottisti impedisce di riconvertire quella potenza in qualcosa d’altro. Questo ha delle ricadute importanti e a pioggia sul significato di determinate categorie di uso comune. Consideriamone una sola: l’idea di popolo – cuore degli appelli dei complottisti contro l’inganno delle élite.

Il primo numero della rivista Liaisons ha fatto luce sul campo di forze antitetiche generato da questa parola – potenza destituente contro tendenza restauratrice capace di riattivare la facoltà di includere ed escludere dalla cittadinanza. Il popolo a cui si appellano i complottisti è sempre più stilizzato in termini nazionali e identitari; risponde, in questo, a una volontà di Verità che si situa in un’origine, la cui traccia è nel tempo – e nel tempo passato. Da qui ai deliri cristologici di matrice nazi-heideggeriana, è veramente un attimo. E tuttavia questa idea di popolo, apparentemente già desueta o lontana da una restaurazione statale che si vorrebbe sempre più (fintamente) inclusiva, basata sull’assunzione figurale di «campioni di esclusi» in qualità di gatekeeper, obbedisce al medesimo realismo della narrazione politica effettiva – quella che spara sette colpi alla schiena, per intenderci. Vorrei illustrare cosa intendo tramite una pagina di 2666 di Roberto Bolaño:



«Nel Seicento, per esempio, a ogni viaggio di una nave negriera moriva almeno il venti per cento della mercanzia, cioè della gente di colore che veniva trasportata per essere venduta, diciamo, in Virginia. E questo non turbava nessuno né usciva a titoli cubitali sul giornale della Virginia, e nessuno chiedeva di impiccare il capitano della nave che li aveva trasportati. Se, al contrario, un possidente aveva un attacco di follia e ammazzava il vicino e poi tornava al galoppo a casa dove appena smontato ammazzava sua moglie, due morti in tutto, la società della Virginia restava intimorita per almeno sei mesi, e la leggenda dell’assassino a cavallo poteva tramandarsi per generazioni. I francesi, per esempio. Durante la Comune del 1871 furono assassinate migliaia di persone e nessuno versò una lacrima per loro. In quegli stessi anni un arrotino ammazzò una donna e la sua vecchia madre (non la madre della donna, ma la propria madre, amico mio) e poi fu abbattuto dalla polizia. La notizia non solo fece il giro dei giornali francesi, ma comparve anche su altri giornali europei e addirittura fu pubblicato un articolo sull’«Examiner» di New York. Il motivo: i morti della Comune non appartenevano alla società, la gente di colore morta sulla nave non apparteneva alla società, mentre la donna morta in un capoluogo francese e l’assassino a cavallo della Virginia ne facevano parte, in altre parole, quello che era successo a loro era scrivibile, era leggibile».

Quella complottista è una forma di cittadinanza negativa: quella del «non cittadino» o del «cittadino che sa di essere ingannato» ma può solo rassegnarsi. Da una parte il sottinteso della secolarizzazione della cittadinanza occidentale, implicita e non problematica; dall’altra, una sua forma completamente «religiosa» o «espiatoria» – forma della vessazione ma anche della rivendicazione, forma dell’affronto proprio perchérivendicata contro ogni sua estensione «illegittima».

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Considerazioni provvisorie

Lolli ha parlato del marxismo in termini di complottismo, per i suoi caratteri antiscientifici e per l’intuizione della disuguaglianza su cui si fonderebbe; e ne ha messo in luce la sterilità in termini di comunità – posa o sguardo ormai accademizzante, linguaggio della separatezza spesso interessata –, che sarebbe anche ciò che oggi gli risparmia la nomea di «complottismo». Il paradosso qui è che l’unico marxismo realmente «complottista» per postura, secondo i criteri di Lolli, è proprio quello accademico – rivendicazione di un’appartenenza e di una verità, postura demoniaca e intermedia tra chi «non sa e dorme» e chi è «responsabile e col potere di fare». L’«effetto-complotto», invece, con cui una parte della società ha voluto (e potrebbe volere ancora) squalificare la «nostra» (cosa di cui dovremmo gioire) non è, per l’appunto, che un effetto. Una rosa senza il suo nome profuma lo stesso, ma punge di meno. D’altronde, se queste pagine hanno voluto mostrare qualcosa, è proprio questo: quanto siano simili cose in apparenza tanto diverse; e quanto siano per noi prive di appigli le pareti scoscese delle tassonomie, delle istanze e dei contenuti di verità «del» complotto.

Non resterebbe ora che abbozzare un’inversione di segno, e discernere ciò che inesorabilmente separa quanto viene detto quasi-uguale o pressoché-lo-stesso. Ai nostri radar sfugge infatti uno smottamento abissale: quello tra complotto e cospirazione. Due storie e due epistemologie nemmeno parallele; eppure costantemente e intensamente confuse nei loro luoghi essenziali. La provocazione allora potrebbe essere posta in questi termini: siamo in grado di pensare un complottismo non installato nel medesimo ordine di senso dei governi? Un complottismo che non faccia della verità eterna del mondo un’ossessione, ma dei suoi destini? Un complottismo, infine, privo di una metafisica a fare da tappabuchi alla sua volontà di sapere lacunosa?

Forse no. La distanza che rende impossibile alla singolarità «complottista» un salto rivoluzionario è colmabile solo a patto di pensarla cava come la loro terra. Non si può davvero sperare che desideri un giorno quella «cosa» che non ha prima popolato l’intimo del suo immaginario. Tra la prospettiva doomed (riflesso del cittadinismo «contento di deserti», che infine accetta il governo del mondo come amor fati) e quella rivoluzionaria corre a ben vedere la medesima discontinuità che separa desiderio e immaginario, evidenza ed esigenza, i nessi causali che le legano. Evidenza del complotto come esigenza del continuum storico, desiderio di un ordine logico; esigenza della cospirazione come evidenza – anche solo immaginaria – di una rivolta permanente condotta fuori dal tempo della Storia contro lo stato di cose presente.

La filosofia che resta da fare è quella che anima i cospiratori.

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