Crisi d'identità. Intervista ad Asad Haider (I)

Asad Haider è un ricercatore statunitense e fondatore della rivista Viewpoint Magazine. Nel 2016 è stato autore di un libro intitolato Mistaken Identity: Race and Class in the Age of Trump (Verso, 2016) ed è editore di una prossima antologia intitolata The Black Radical Tradition: A Reader (Verso, 2021). Nel contesto del dibattito in corso su Commonware sulla questione della identity politics, abbiamo intervistato Haider sulla politica dell’identità in America, il rapporto tra “razza” e “classe”, la teoria intersezionale e il concetto di “vittimità”. Nel testo emerge un’interessante critica della politica identitaria, in un’ottica sviluppata dalla tradizione radicale nera. La seconda parte dell’intervista tratta del movimento Black Lives Matter, le elezioni presidenziali e il futuro dei movimenti statunitensi.
Quali esperienze ti hanno portato a pensare alla politica dell'identità e a scrivere Mistaken Identity?
Nella seconda metà del Ventesimo secolo molte delle tendenze comuniste negli Stati Uniti sono nate o sono state ispirate dal movimento di liberazione dei neri e mi sono sempre interessato a questa tradizione unitaria di lotta, di classe e antirazzista. Ma nella situazione post-Occupy ho spesso percepito l’idea che queste due cose fossero incompatibili. In realtà non era proprio un'idea, ma un insieme di affetti e comportamenti che vedevano il socialismo e il comunismo con sospetto, come fenomeni fondamentalmente bianchi, e vedevano la lotta di classe come un interesse solo dei bianchi. Era un contesto in cui le relazioni interpersonali all'interno dei movimenti e delle organizzazioni si caricavano pesantemente di un linguaggio pseudo-politico in cui queste relazioni interpersonali erano viste come la totalità della politica, e tutto ciò che andava oltre il "check your privilege" o la "denuncia delle microaggressioni" era considerato solo come un’appendice [la frase “check your privilege”, in inglese, ammonisce di essere coscienti del proprio privilegio e di tenere il proprio comportamento sotto controllo. Per “microaggressioni” si intendono quei commenti e azioni che, con sottigliezza o inconsciamente, esprimono un pregiudizio verso un membro di un gruppo marginalizzato. - NdR]. Così la violenza della polizia, la crisi abitativa, la povertà, ecc., erano viste come un'espressione di queste dinamiche interpersonali su scala più ampia.
Ci sono problemi reali di razzismo che fanno parte della cultura e della politica degli Stati Uniti da molto tempo per ovvie ragioni, e che influenzano le forme organizzative e le pratiche politiche e si manifestano anche nelle interazioni interpersonali. Ma storicamente la lotta è stata strutturata da un'opposizione all'intero sistema sociale, e non solo da un desiderio di riconoscimento all’interno di interazioni interpersonali, che sono in realtà effetti della struttura stessa. Così, ho pensato che ci fosse bisogno di un ritorno all'unità tra la lotta antirazzista e la lotta di classe e che l'oblio o la soppressione della lotta di classe avesse portato a una situazione in cui l'antirazzismo era diventato depoliticizzato, un vero e proprio ostacolo alla politica.
Non credo più che spiegare l'interrelazione tra razza e classe a livello storico e sociale garantisca una politica capace di colmare quello che può sembrare una sorta di divario. Questo è ciò che spesso si cerca di fare con categorie come “capitalismo razziale”. Cioè si parte dal presupposto che se si può dimostrare attraverso l'analisi sociale che razza e classe sono fondamentalmente correlate, allora questo problema può essere espresso in una politica che si riferisce ad entrambe. Ora prendo le mosse dalla categoria di “emancipazione universale”, che è in definitiva ciò che è stato abbandonato nella politica dell'identità: la ragione per cui la lotta antirazzista e la lotta di classe, in molti fasi storiche, sono state unite è che entrambe hanno fatto parte della lotta per l'emancipazione universale. Quindi penso che dobbiamo capovolgere la situazione e partire dall'emancipazione, che non ha bisogno di essere garantita con una teoria secondo la quale esiste qualcosa che si chiama capitalismo razziale o qualcosa di simile da cui devi procedere in una sorta di analisi sociale.
Nel tuo libro parli del "riduzionismo di classe" e di "argomenti positivisti secondo cui la classe conta più della razza". Potresti spiegarci cosa intendi per una posizione riduzionista di classe e dirci come vedi la relazione tra classe e razza?
L’espressione “riduzionismo di classe”, che ho usato in modo molto disinvolto e descrittivo, è utilizzata troppo spesso . In certi ambienti, se si ha a cuore la classe, si può essere etichettato di riduzionismo di classe, il che è chiaramente una strategia cinica di soppressione della lotta di classe. Dall'altro lato, le persone che sono su posizioni che potrebbero essere caratterizzate dal riduzionismo di classe spesso rifiutano con veemenza l'etichetta. Non sento il bisogno di mantenere questa terminologia, è solo un’espressione che ho usato per identificare una distinzione tra le posizioni.
Nell'analisi del capitalismo ci si può chiedere, e questo risale a quella categoria di capitalismo razziale che ho menzionato: Qual è il rapporto tra razza e classe? E qual è il rapporto tra razzismo e capitalismo? Ovviamente ci saranno molti approcci diversi per definire la specificità del capitalismo, e uno potrebbe essere quello di fare un modello di ciò che è il capitalismo. Questo perché la storia del capitalismo è estremamente complicata con tutte le sue variazioni nel tempo e nello spazio e con molti fattori contingenti. Con tale modello possiamo cercare di eliminare tutto il disordine e arrivare all’essenza del capitalismo: sarebbe questo un modello di ciò che è una società capitalista, e da lì possiamo dedurre i suoi aspetti essenziali. Sulla base di questo modello possiamo affermare che la lotta di classe è intrinseca al capitalismo e la razza non lo è, dal momento che si può concepire una società capitalista in cui la razza non costituisce un problema. Ed è questo che intendo quando parlo di una concezione positivista della classe, o di una concezione empirica, perché si può generare un modello di società capitalista che rappresenta la realtà stessa, e poi si può spiegare che cos'è la classe in termini di modello, in cui si mettono da parte tutte le contingenze e le complessità e le variazioni e tutti i processi in corso e incompiuti di formazione della classe e di composizione della classe. Ma la realtà sia del capitalismo che della classe non è un modello: ci sono specifiche formazioni sociali capitalistiche, ci sono specifiche composizioni di classe e ci sono specifici processi attraverso i quali le classi vengono generate. Le classi della società capitalista sono generate. Quindi per me questo metodo di spazzare via la contingenza e cercare di arrivare al modello è fuorviante. Ciò che penso significhi materialismo, nel senso di un'analisi sociale materialista, è che noi non cerchiamo di spazzare via la contingenza per cercare di arrivare a un modello, ma piuttosto produciamo concetti che possono cogliere aspetti di un insieme complesso. Non abbiamo accesso diretto all'esperienza percettiva, partiamo sempre da un qualche tipo di quadro ideologico, quindi dobbiamo lavorare sulle astrazioni che abbiamo già in testa per produrre concetti nuovi e più adeguati.
Nell'attuale storia concreta che caratterizza la società capitalista, è impossibile distinguere la formazione delle classi lavoratrici dai processi che generano la differenziazione razziale. Non si tratta di dire, a livello di un modello astratto, che non è solo la classe ma anche la razza ad essere necessaria al capitalismo. Questa sarebbe un'affermazione abbastanza priva di senso che aggiunge semplicemente una comprensione ideologica della razza alla definizione positivista di classe: l'ideologia razziale di base è che la varianza umana si esprime in diversi gruppi discreti che condividono tratti comuni a livello biologico, e che manifestano tratti culturali e civili condivisi, attitudini, capacità e vulnerabilità condivise e così via. Nella storia del razzismo scientifico e delle ideologie razziali la base della razza è costituita da fondamenti biologici e le razze sono messe in gerarchia. Questi aspetti sono componenti storicamente importanti dell'ideologia razziale, ma l'ideologia razziale è molto più ampia. Ogni volta che, a causa dei nostri “attributi”, siamo ricondotti a gruppi preesistenti di esseri umani , si riproduce l'ideologia razziale, perché in realtà, la varianza umana non porta alla formazione automatica di gruppi basati sugli “attributi”. I gruppi razziali sono determinati socialmente, sono sistemi arbitrari di classificazione che si basano su cose come il colore della pelle, la struttura ossea e i capelli. Non c'è una ragione intrinseca per cui le persone debbano essere raggruppate in base al colore della pelle, si potrebbe raggrupparle in base al fatto che siano brave a digerire il latte, o che tendano a svegliarsi presto la mattina o a stare alzate tardi la sera. Questi tratti sono scelti arbitrariamente e poi le persone vengono classificate in un processo sociale e storico. Questo significa che dobbiamo essere molto cauti con le teorie generali della razza. Se cerchiamo una teoria generale della razza, possiamo facilmente scivolare in una ideologia razziale che dice che le razze esistono davvero e sono davvero là fuori e sono davvero parte di ciò che siamo.
Quindi generare un modello astratto di capitalismo e generare una teoria generale della razza e poi incollarli insieme è assolutamente il modo sbagliato di procedere. La realtà è che nel processo storico ci sono molti modi diversi di interpretare la varianza umana e di classificare le persone, così come molti tipi diversi di gerarchie, ma non possiamo dire che sono tutte gerarchie di razza e che rientrano tutte nella stessa definizione, dobbiamo guardare ai processi specifici di formazione razziale. Nella storia specifica degli Stati Uniti la classificazione razziale emerge attraverso il fenomeno della schiavitù delle piantagioni e la storia del lavoro forzato, e queste categorie razziali si sono poi diffuse ovunque a causa dell'egemonia mondiale degli Stati Uniti. Così, quando parliamo di razza e classe o di razza e capitalismo come categorie, produciamo concetti che afferrano un aspetto di questo processo storico unificato. Non c'è un punto in cui si possa tornare in una piantagione e dire che una parte del processo del lavoro è stata la razza e un'altra la classe. È un fenomeno unico. Possiamo comprendere aspetti diversi di questo fenomeno attraverso l'uso di concetti diversi, ma questo non significa che quei concetti siano qualcosa di reale che esistono là fuori nel mondo.
Per tornare a quello che dicevi prima sul movimento rivoluzionario negli Stati Uniti che vedeva quelle due categorie come parte di un unico sistema, o almeno vedeva l'opposizione a quelle categorie come parte di un'unica lotta. Puoi dirci qualcosa sulla scomparsa di quella visione e sullo sviluppo della identity politics sia all'interno del movimento che sulla loro trasformazione e recupero?
Per molto tempo negli Stati Uniti si sono avute varie forme di nazionalismo nero che avevano diversi tipi di espressione ideologica. Alcune di esse si basavano sull'idea dell'Africa come patria naturale per i neri a cui tornare, che era un aspetto importante del movimento di Marcus Garvey [leader politico e sindacale nazionalista nero, che predicava il ritorno della diaspora in Africa. - NdR] Il Partito comunista abbracciò una forma di nazionalismo dicendo che i neri erano una nazionalità oppressa e avevano il diritto all'autodeterminazione. Ciò si basava sull'idea che la lotta dei neri fosse parte di una questione internazionale, perché in tutto il mondo, dall'Irlanda ai confini dell'impero russo, all'Africa, all'Asia e all'America Latina, erano in corso lotte di liberazione nazionale.
Poi c'è stato il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, in cui si sono susseguiti il movimento per i diritti civili e il movimento del Black Power, e c’è stata una nuova ondata di nazionalismo nero. Molti bianchi hanno partecipato al movimento per i diritti civili e ci sono state molte coalizioni formali con organizzazioni a maggioranza bianca. D'altro canto, la Nation of Islam e Malcolm X hanno presentato la loro variante del nazionalismo nero, che prima si basava su una cosmologia razziale e poi è diventata parte della questione globale dell'autodeterminazione. Ma anche durante il suo periodo nella Nation of Islam si possono trovare discorsi di Malcolm X in cui dice che quando parla di “neri” intende tutte le persone del mondo che sono oppresse dagli europei (vedi The Black Revolution, discorso dell’8 aprile 1964).
Ciò ha avuto una notevole influenza in questo periodo, soprattutto perché il movimento per i diritti civili aveva ottenuto alcune vittorie legislative e aveva esaurito la spinta delle sue pratiche e forme organizzative, il che significa che doveva porsi la questione di come affrontare l'oppressione dei neri negli Stati Uniti senza concentrarsi solo sul Sud o sulla segregazione legale. Bisognava affrontare la questione della povertà nelle città del nord, portata in primo piano dalle numerose rivolte metropolitane durante gli anni Sessanta. E naturalmente c'era il nazionalismo di Malcolm X che riteneva che la nonviolenza non fosse una qualche moralità da rispettare, che fosse solo una strategia, e che l'autodifesa fosse una strategia altrettanto ragionevole, che in alcune circostanze era ancora più appropriata e giustificata. Combinata con la consapevolezza delle lotte internazionali per la liberazione nazionale strettamente legate ai movimenti comunisti di tutto il mondo, questa situazione ha prodotto il Black Panther Party e il suo nazionalismo rivoluzionario. Altri gruppi come la League of Revolutionary Black Workers, per esempio, presentavano un'analisi e una strategia totalmente diversa che cercava anche di fare da ponte tra il marxismo e il nazionalismo nero, ma il Black Panther Party era estremamente influente. Si opponeva all'idea culturalmente nazionalista di riscoprire una qualche origine africana, che in realtà significava inventarsene una, perché l'Africa è un continente enorme, privo di una cultura condivisa. La loro idea di nazionalismo rivoluzionario poteva essere abbracciata anche da altri gruppi oppressi, ispirando tutta una serie di altre organizzazioni. In questo processo, come già il Partito comunista aveva proposto, il nazionalismo poteva svolgere un ruolo rivoluzionario, un ruolo anti-imperialista e anti-capitalista, perché rispondeva alle reali condizioni di subordinazione dei neri. Diceva che i neri negli Stati Uniti dovevano avere potere politico, dovevano poter controllare i propri destini, cosa che veniva loro negata dall'intera struttura sociale.
Poi, alla fine degli anni Sessanta e Settanta ha iniziato a delinearsi una nuova situazione. Le conquiste del movimento per i diritti civili avevano reso molto più semplice l'ingresso dei neri nella leadership politica. Nelle città a maggioranza nera sono stati eletti molti sindaci neri, e sembrava si stesse realizzando il programma di presa del potere politico da parte dei neri, una percezione rafforzata da un'idea di solidarietà razziale. Ma quando questi politici hanno risposto alla crescente crisi capitalistica declinando le loro politiche nel senso dell’austerity, si sono schierati contro la loro base, contro la maggioranza dei lavoratori neri che li aveva messi al potere. E hanno difeso le politiche di austerità dannose per la classe operaia facendo appello proprio a questa solidarietà razziale. Questo è un importante punto di svolta in cui la solidarietà razziale viene sradicata dai movimenti di massa, diventando invece uno strumento utilizzato da una classe dirigente sempre più diversificata, per portare avanti la propria agenda. A questo punto alcune forme di antirazzismo e di solidarietà razziale, che avevano un reale potenziale di opposizione, sono diventate molto compatibili con la struttura dominante.
Ci interessa molto anche, oltre alla identity politics nella struttura di dominio realmente esistente, l'ideologizzazione esplicita della identity politics. Penso per esempio, senza attribuirgli troppa importanza, al Combahee River Collective [una piccola ma influente organizzazione di lesbiche nere che si batteva per la lotta di classe attiva durante la fine degli anni Settanta. - NdR] e al contesto da cui è emerso. A partire da questo, sarebbe davvero interessante sentire le tue riflessioni sui motivi che hanno reso possibile la nomina di Kamala Harris a vicepresidente, per esempio, e su come questa cosa viene utilizzata in relazione al movimento Black Lives Matter.
Identity politics è un termine molto specifico che emerge in modo molto specifico. Non si può applicarlo, volenti o nolenti, a tutto, perché il modo in cui è nato e il modo in cui è cambiato nel corso del tempo in risposta al mutare delle condizioni, sono fattori molto importanti. Un punto da chiarire è che il Combahee River Collective ha introdotto il termine "identity politics" ma ha anche detto di essere socialista rivoluzionario. Come abbiamo visto, i sostenitori contemporanei delle identity politics cercano spesso di rappresentare il socialismo come un fenomeno maschile bianco ma questo non è ovviamente ciò che il Combahee River Collective pensa. È scritto molto chiaramente nel loro manifesto.
Dobbiamo comprendere il loro manifesto come un intervento politico nella situazione molto specifica della fine degli anni Settanta all'indomani dei movimenti sociali degli anni Sessanta: si tratta di un intervento organizzativo strategico piuttosto che di una teoria generale dell'identità o di una teoria generale dell'oppressione. Il Combahee River Collective era composto da donne lesbiche nere che uscivano dalla New Left e dal movimento contro la guerra, e come diversi tipi di movimenti di liberazione dei neri e del movimento di liberazione delle donne riflettevano sul fatto che le donne nere erano escluse ed emarginate nei movimenti a cui partecipavano a causa delle identità egemoniche maschili o bianche di questi movimenti. Per esempio, il nazionalismo nero e il movimento per i diritti civili si rappresentavano spesso come sostenitori della mascolinità, il che non dà l’impressione che le donne nere fossero rappresentate e avessero un ruolo autonomo in queste organizzazioni, sebbene fossero assolutamente cruciali per la concreta pratica politica di questi movimenti. Nel frattempo il movimento di liberazione delle donne tendeva a equiparare la situazione e gli interessi delle donne bianche a quelli di tutte le donne. Il Combahee River Collective ha sostenuto che anche in questi movimenti le donne nere erano state marginalizzate a causa della loro specifica identità. Se avessero potuto affermare il loro ruolo come donne nere, avrebbero potuto quindi distruggere queste identità egemoniche, e così facendo generare nuove coalizioni e nuovi tipi di movimenti per la libertà di tutti.
Poi, nel corso dei quindici anni successivi, con il declino dei movimenti di massa, il termine "identity politics" ha viaggiato dappertutto, soprattutto all'interno dell'accademia, e spesso in quella che all'epoca veniva chiamata Gay and lesbian theory. Tuttavia, all'interno di quel corpus teorico è stato usato in modo ambivalente, con molte critiche all'idea che le identità, considerate instabili, indeterminate e non fissate, potessero essere un fondamento per la politica.
E poi a metà degli anni Novanta ci sono le cosiddette “culture wars”, le guerre culturali negli Stati Uniti, i dibattiti sul multiculturalismo, la messa in discussione del canone occidentale e così via, in cui l’identity politics comincia a essere usata in modo negativo nel discorso comune. La politica dell'identità è intesa come una politica ristretta, incentrata sul gruppo che, a seconda dell'orientamento politico di chi ne parla, o è un ostacolo a un movimento democratico comune per tutti gli americani – è la posizione dei liberali come Todd Gitlin, per esempio – o sta minando la civiltà occidentale: è la posizione della destra.
E poi, circa dieci anni dopo, si arriva a un altro capovolgimento in cui la gente inizia a sostenere di voler praticare l’identity politics. Invertono la percezione negativa, pur conservando in gran parte ciò che quella prospettiva negativa intendeva per identity politics. Dicono di volere una politica incentrata sul gruppo, che non riguarda la formazione di un qualche tipo di interesse universale, dicono che solo le persone che hanno esperienza di una particolare identità hanno il diritto di parlare di questi temi e così via. Così ciò che a metà degli anni Novanta era visto come un male, ora viene considerato come un bene. La politica dell'identità è diventata una tendenza sempre più dominante nella politica liberale americana. Per esempio, nelle primarie del Partito Democratico del 2016 il termine è stato usato costantemente. La politica dell'identità è diventata una buona cosa di cui si aveva bisogno per contrastare la cecità razziale e la cecità di genere della politica di classe.
Il termine ha quindi subito modificazioni molto significative, e non possiamo semplicemente tornare alle sue origini ripulendo la lavagna. Oggi a ha queste implicazioni negative, ed è diventato un ostacolo alla formazione di una politica che sia contro l'intera struttura sociale, piuttosto che essere finalizzata unicamente ad esigere un riconoscimento di gruppo. Quindi non ci si sbaglia a dire che l'entusiasmo per Kamala Harris è una forma di identity politics. Ovviamente, a livello delle sue posizioni politiche e del suo background politico, non è una figura da sostenere. E l'idea stessa che una qualche forma di politica per l’emancipazione possa procedere attraverso l'elezione di un certo tipo di persona non è affatto una politica di opposizione. Se è lì che porta l’identity politics, non c'è posto per una politica di emancipazione.
Un altro termine che è emerso in prima linea nelle primarie del Partito Democratico del 2016 e nelle elezioni presidenziali è stato il termine intersezionalità. Puoi parlarci della storia di questo termine?
Il Combahee River Collective ha usato il termine "interlocking oppression” (oppressione ad incastro), ma non c'è una vera e propria elaborazione di cosa significhi, e non mi è chiaro come possa essere la base di una qualche teoria generale, apparendo invece come puramente descrittiva.
Il termine specifico intersezionalità deriva dagli studi giuridici. In una causa per discriminazione non si può limitare il caso a una semplice questione di razza o di genere, perché le due cose si intersecano e devono essere trattate nella loro intersezione. Ora il termine è uscito da quella specifica sfera giuridica delimitata, viene applicato ovunque ed è stato trasformato in una teoria generale. E come teoria generale è molto debole, perché, come suggerivo a proposito dell'analisi della razza e della classe e del razzismo e del capitalismo, se si parla dell'intersezione di queste diverse categorie, si comincia a concepirle come oggetti autosufficienti. Si devono descrivere come oggetti separati l'uno dall'altro, per poterli poi descrivere come linee che si intersecano. Ma io credo che sia al contrario. Perché in realtà si hanno processi storici e sociali specifici che non esistono nella forma di linee separate, bisogna comprenderne i diversi aspetti complessivamente. I concetti devono essere prodotti per comprendere un processo sociale unitario, non per esaminare supposte cose già esistenti e separate che si intersecano. Oggi l'intersezionalità è una parola d'ordine così attraente perché sembra dire che ti interessa tutto ma, partendo da linee separate, finisce per fare proprio ciò che pretende di superare ,. E non è una soluzione aggiungere classe come un'altra linea, perché si è ancora dentro quel quadro che è inefficace.
L'altro problema è che nell'uso quotidiano, invece di guardare il modo in cui i diversi tipi di relazioni sociali si intersecano, l'intersezionalità diventa spesso l'accumulo di diversi tipi di oppressione. , Più linee si intersecano nella propria identità, più se si può dire di appartenere a tutte queste diverse identità che sono emarginate e oppresse e più si ha il diritto di parlare politicamente. Gli uomini bianchi non possono opporsi all’oppressione. Chi può accumulare più linee può dire che la sua stessa esistenza è una dichiarazione politica. Ma in realtà l'esistenza di nessuno è una dichiarazione politica. Le dichiarazioni politiche devono essere costruite deliberatamente. Non è vero che tutto è politico. La politica è qualcosa di difficile e non è sempre presente. E, deve essere possibile per tutti prendere una posizione politica indipendentemente dalla loro identità.
Hai criticato il concentrarsi della identity politics sullo status della vittima, in particolare in relazione ai discorsi e alle pratiche dei "safe spaces". Potresti approfondire questa critica della “vittimità”?
Questa è un'altra difficile questione terminologica. La destra ripete, che "tutti vogliono essere vittime". Nello stesso tempo, non sono sicuro che qualcuno abbia realmente voglia di dire: "Siamo vittime e vogliamo essere riconosciuti come vittime".
Ma possiamo dire che l'idea della vittima è qualcosa di fondamentale per il pensiero liberale occidentale. Perché l'idea moderna dei diritti naturali, notoriamente avanzata nella Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti, ruota attorno alla premessa che tutti sono potenziali vittime e hanno bisogno di protezione. E il motivo per cui abbiamo degli Stati è perché le persone concordano sul fatto che trasferiranno i loro poteri a una qualche struttura dominante, un re o un insieme di istituzioni parlamentari, in cambio di protezione. E questo si può ricondurre al presente sotto la forma dell’imperialismo occidentale, o "intervento umanitario". È l'idea che le nazioni cosiddette democratiche illuminate debbano svolgere un ruolo nella protezione delle vittime in tutto il mondo bombardandole. Quindi c'è una grande continuità nella logica della vittima che ha soprattutto a che fare con la protezione dello Stato e non con l’agire delle soggettività. La vittima è passiva. Rivendicare vittimità ti mantiene essenzialmente all'interno della struttura di obbedienza e protezione statuale.
E lo vediamo anche in quello che potremmo chiamare il carattere carcerario di certi tipi di identity politics. Anche coloro che si dichiarano abolizionisti del carcere e che hanno una concezione diversa di come affrontare i problemi sociali dicono che le persone che hanno fatto qualcosa di sbagliato – di qualsiasi tipo, sia quando qualche dichiarazione ambigua venga interpretata come una microaggressione razzista, sia che si tratti di qualcosa di veramente offensivo – dovrebbero essere socialmente ostracizzate o pubblicamente messe sotto accusa, perché hanno vittimizzato qualcun altro, finendo catturati nella logica dello Stato al livello microscopico delle interazioni quotidiane.
E poi c'è un altro senso in cui il fenomeno della vittima è centrale nel liberalismo occidentale, che è la richiesta di riconoscimento. Quando lo status della vittima viene equiparato alla politica, significa che l'obiettivo politico è il riconoscimento della propria sofferenza. E questo, ancora una volta, riporta alla protezione e all'obbedienza, ed esclude la possibilità che la politica sia autorganizzazione, soggettività e potere.
Quindi, a un certo livello, l’identity politics pretende di essere una critica per il decentramento delle identità dominanti, ma in realtà è radicata nelle forme politiche della civiltà occidentale, appartiene all'ideologia liberale dominante. Se si vuole affermare che questo modo di pensare la politica sfida il razzismo e l'eurocentrismo, ci si sbaglia di grosso, perché in realtà è parte fondamentale del liberalismo occidentale. E la mia non è la critica della destra che ce l’ha con chi si lamenta , guardando al senso storico del liberalismo. Io dico che l'idea della vittima non è politica. Per fare politica bisogna rifiutare questo status. Il discorso di destra e l’identity politics sono lo specchio l'uno dell'altra in questo senso, perché nessuno dei due può vedere la possibilità di un diverso tipo di politica, la politica alla fine fa sempre riferimento allo Stato.