Abitare il caos sistemico. Intervista a Gabriele Cosentino

Abitare il caos sistemico. Intervista a Gabriele Cosentino

dog
Intervista a Gabriele Cosentino, ricercatore e autore di L’era della post-verità (Imprimatur 2017) e Social Media and the Post-Truth World Order (Palgrave 2020). A cura di Matteo Montaguti.

Prendiamo in considerazione l’ultimo lustro, 2015-2020: la Brexit, l’elezione di Trump, gli attentati dell’ISIS in Europa e quelli dell’Alt-right in tutto l’Occidente, il “Governo del cambiamento” in Italia e, infine, la pandemia. La vittoria di Biden su The Donald sembra indicare la chiusura, avvenuta o imminente, del “momento populista”, vuoi per esaurimento interno, vuoi per l’aiuto del Covid-19. Ma è davvero così? Siamo di fronte a un ritorno alla “normalità” del corso politico o i processi di questo quinquennio di “caos sistemico” sono qui per rimanere?  

Sicuramente il Covid-19 ha funzionato da potente reality check per tutta una serie di fenomeni politici e culturali, come quelli a cui fai riferimento, che negli ultimi anni sembravano aver imposto una virata irreversibile alle cosiddette “democrazie liberali”, portandole verso crescente instabilità, lacerazioni interne, disorientamento ideologico e generale esasperazione del discorso pubblico. Un evento così catastrofico e inatteso come la pandemia ha necessariamente imposto alle società occidentali di “serrare i ranghi”, e di stringersi intorno alle stesse istituzioni – i governi, l’establishment medico-scientifico, gli organi di informazioni incaricati di monitorare e aggiornare sul corso della pandemia – che fino all’anno scorso erano stati i bersagli prediletti della retorica e dell’azione politica populista, antisistema o persino eversiva. Io non lo vedo tanto come un ritorno alla normalità – mi sembra ancora troppo presto per parlare di normalità – quanto piuttosto come un necessario ritorno al dato tangibile, e in fin dei conti inconfutabile, dei decessi, dei ricoveri e dell’impatto sociale e economico della pandemia. Di fronte a questo imprevisto e brutale ritorno della realtà – vorrei dire della “verità”, ma così si entrerebbe subito in terreno scivoloso – è evidente che tutte quelle narrazioni complottiste, destabilizzanti e spesso manipolatorie diffuse dai populismi e dai sovranismi, che sembravano fare grande presa su un’opinione pubblica sfiduciata dai fallimenti della politica neoliberale e facilmente eccitabili dai nuovi strumenti di comunicazione, si sono rivelate nella loro scarsa sostanza politica. Fra le varie definizioni di populismo, categoria politica notoriamente sfuggente, ce n’è una semplice che mi piace particolarmente: il populismo è la risposta sbagliata a problemi giusti. La pandemia ha proiettato una luce implacabile proprio sull’errore intrinseco delle soluzioni populiste, che facilmente individuavano in élite corrotte la causa di ogni male, ed elevavano leader demagogici a portatori di una pura e incontestabile vox populi. Detto questo, credo che i problemi evidenziati rumorosamente dai populisti – fragilità di classi sociali e fasce demografiche, inaffidabilità e autoreferenzialità delle élite, ansie culturali e identitarie – siano comunque reali e urgenti, e purtroppo destinati a rimanere, forse persino anche ad aggravarsi proprio a causa della pandemia. In sintesi, temo che continueremo ancora per un po’ ad abitare il “caos sistemico” di cui parli, che forse altro non è che un periodo di transizione verso nuovi assetti politici e geopolitici.

 

Le ultime elezioni negli Stati Uniti hanno ratificato l’esistenza di un Paese radicalmente polarizzato, non (e non solo) nei tradizionali termini americani della razza o del rapporto sociale, ma anche nella dimensione territoriale (spaccato tra metropoli e provincia) e identitaria (tra visioni valoriali, di americanità, di società diverse). Il Paese appare diviso in due, o meglio, ci sono due Americhe, due popoli americani, sempre più insofferenti l’uno dell’altro, sempre più contrapposti, che viaggiano su due realtà parallele. Tanto che a più riprese opinionisti e analisti hanno parlato di contesto da “guerra civile”, tenendo in considerazione l’armamento diffuso, la presenza di milizie paramilitari organizzate e di sottoculture – come quella Boogaloo, ma anche quella prepper – che progettano, propendono o si preparano a tale scenario. Cosa ne pensi in merito e di tali fenomeni?  

La polarizzazione politica che nell’ultimo decennio ha portato la politica americana verso le lacerazioni scoppiate in modo eclatante sotto l’amministrazione Trump non si fonda solo su realtà politiche divise geograficamente e culturalmente, come giustamente osservi, ma anche operanti su piani epistemologici disgiunti. Mi riferisco alla comunità sempre più nutrita di americani che frequentano subculture o cosiddette bubbles cospirazioniste, vedi ad esempio QAnon, oppure a quei segmenti dell’opinione pubblica o dell’elettorato repubblicano che con grande facilità si prestano a dare credito a narrazioni infondate come le presunte frodi elettorali durante questa ultima elezione presidenziale. È proprio come se due Americhe diverse abitassero in realtà non comunicanti, una ancorata al dato empirico – per quanto contestabile o interpretabile esso sia – l’altra invece sempre di più disposta a sostituire il dato reale con qualsivoglia narrazione fantastica che ne tuteli la tenuta politica e ne preservi il potere e il privilegio, anche a costo di derive illiberali o violente. Cosa può aver portato la società americana a frammentarsi, a dilaniarsi in modo così plateale e apparentemente insanabile? Il problema da inquadrare, secondo me, è il progressivo esaurirsi – vuoi anche per normale decorso storico – del progetto politico degli Stati Uniti, un progetto di civiltà basato sul progresso tecnologico, sull’economia di mercato, sulla libertà individuale e sul multiculturalismo di origine migratoria, un progetto che ha avuto una sua evoluzione e fioritura, ma che a oggi sembra aver perso la tenuta materiale e simbolica, e la capacità di incidere sulla politica sia nazionale che internazionale, come invece ha saputo fare per larga parte del Ventesimo secolo. In realtà divisioni e differenze fra le diverse Americhe ci sono sempre state, e lo ho potuto osservare anche quando ci ho vissuto per motivi di studio. Quello che però sembra essersi sfibrato nell’ultimo decennio è la narrazione comune, forse anche il mito fondativo dell’America, che in passato era stato in grado di ricomporre le divisioni e differenze interne. In mancanza di un discorso unificante, il corpo sociale è più soggetto a lacerazioni interne, nonché a manipolazioni di agenti ostili esterni. La Storia ci ha insegnato che il declino delle grandi civiltà è passato per momenti tragici, quindi scenari di scontro fra i vari frammenti di un’America in via di scomposizione, come quelli paventati da vari osservatori, non sono da escludere. Molto dipenderà da quali saranno le prossime mosse di Trump, ora che le vie legali per sovvertire il risultato elettorale si stanno esaurendo. Se deciderà di andare rogue, come si dice, e di uscire dai confini della politica istituzionale, che lui stesso ha contributo a rendere sempre più labili e pericolanti, è allora probabile che tutta una galassia di gruppi eversivi e inclini all’azione politica possa seguirlo, o che viceversa lo stesso Trump possa cavalcare l’onda di momenti di instabilità causate da milizie, gruppi violenti o schegge impazzite. A questo va aggiunto che l’effettiva capacità della futura amministrazione Biden di guidare l’America fuori dal disastro della pandemia è tutto da verificare. Queste ultime elezioni sembrano aver dimostrato a ogni buon conto che il body politic della società americana, per quanto piagato da tensioni e schizofrenie, è comunque ancora dotato di una buona scorta di anticorpi democratici, quindi si può prevedere un alternarsi di momenti di rilancio e rinascita democratica seguiti da fasi più involutive e critiche.

 

Rispetto alle elezioni del 2016, quando la vittoria di Trump era stata trascinata dalla meme war dell’Alt-right e dalla volontaria o involontaria impotenza delle grandi piattaforme come Facebook, Twitter eccetera, nel 2020 abbiamo visto da una parte un deciso protagonismo da parte di Zuckerberg e co., che sono entrati in scivolata nella campagna presidenziale censurando o sconfessando le sparate di Trump, e dall’altra un ridimensionamento, quasi annichilimento, dell’influenza dei seguaci della rana verde. Insomma, le grandi corporation dei media (perfino Fox News) e le piattaforme social hanno preso posizione contro Trump, e la meme magik non è riuscita a ripetere l’incantesimo. Cos’è cambiato, insomma, rispetto a ciò che analizzavi nel tuo libro L’era della post-verità (Imprimatur 2017)? Come giudichi questo cambio di fase e questa presa di posizione dei monopolisti del digitale? 

Quello che si è verificato nel 2016 è stata più volte definita una perfect storm, un allineamento inatteso e senza precedenti di fenomeni subculturali, di débâcle istituzionali, di assenze di accountability delle grandi piattaforme social, e di montante disagio sociale che aveva le radici nella recessione del 2008. Ci aggiungerei anche una certa dose di dissennatezza collettiva, una specie di diffusa cupio dissolvi di una parte consistente della società americana – ma forse anche occidentale – che con macabra ironia aveva deciso di lasciare che i meme, gli algoritmi e i contenuti virali dessero forma e sostanza a nuove entità e linguaggi politici, senza preoccuparsi troppo delle ricadute a lungo termine. Ci sono stati probabilmente due elementi che hanno frenato queste pericolose tendenze. Da una parte le inchieste giudiziarie ai massimi livelli istituzionali in America – penso alle commissioni bicamerali sulle interferenze russe durante le elezioni del 2016 – e la conseguente consapevolezza sempre più diffusa che i social e le culture di rete potessero prestarsi a operazioni di disinformazione da parte di governi stranieri ostili, nell’ambito di vere e proprie information wars come quelle condotte dall’Internet Research Agency su probabile mandato di Putin, nonché che potessero alimentare la popolarità di gruppi terroristi o lone wolf, penso a suprematisti bianchi come Brenton Tarrant e alla loro familiarità con la Internet culture. Il secondo elemento che sembra aver posto un freno alle tendenze del 2016 è ancora una volta la pandemia, che è stato lo schiaffo, la secchiata d’acqua gelida – tipo Ice Bucket Challenge, ma molto peggio – che ha risvegliato le società occidentali dal torpore causato dallo scrolling compulsivo sui social e da eccessi di screen time. Questo non significa che siamo usciti dalla condizione di postverità che ha oscurato il dibattito pubblico dal 2016 in poi, e che la pandemia ci abbia tutto d’un tratto resi più lucidi e meno suscettibili a disinformazione e manipolazioni varie. Tutt’altro, e il dilagare di false informazioni legate al Covid-19 ne è un evidente segnale. Possiamo per ora solo dire che gli effetti politici dell’elezione di Trump e della Brexit da un lato, eventi in cui la disinformazione ha avuto un ruolo comunque importante, e la pandemia dall’altro – con la concatenazione di effetti che abbiamo tutti vissuto in termini di limitazioni, disagi e immediate difficoltà pratiche o economiche – hanno forse fatto un po’ pulizia della tendenza tipicamente postmoderna a passare tutto attraverso filtri ironici e “meta”, o a relativizzare la conoscenza e l’esperienza del reale al punto da perdere le più basilari strutture etiche e epistemologiche. D’altro canto, le grandi piattaforme sono state messe sotto un tale scrutinio pubblico, tardivo quanto doveroso, che non hanno potuto più esimersi dal mettere almeno qualche minimo paletto al dilagare di falsità sui loro canali, dalle uscite sempre più assurde di Trump su Twitter ai fiumi di video cospirazionisti o negazionisti su YouTube. Aggiungerei che anche la comunicazione scientifica fatta dal Who sulla pandemia, criticabile per alcune cose ma efficace per altre, ha avuto un ruolo abbastanza importante nello spingere i social ad attenersi a linee guida istituzionali.

 

Parallelamente alla pandemia di Covid-19 abbiamo assistito a un’altra veloce diffusione virale, quella del complottismo, o dello scetticismo esasperato, veicolata da social (Facebook, Twitter, Youtube), piattaforme di informazione alternativa (il celebre Infowars per gli Stati Uniti, ma ce ne sono di analoghe anche per l’Italia) e canali di messaggistica (Telegram). Il fenomeno non è di certo inedito: nuova, semmai, è la capacità di attrazione trasversale, di farsi massa critica, di emergere nel mainstream diventando fattore politico attivo (paradigmatico il fenomeno Qanon, ma non vanno sottovalutati novax, nomask), in certi casi determinante (si veda la trasformazione del Partito repubblicano), in altri violento. Dal Great Replacement di Brenton Tarrant e Matteo Salvini al Great Reset dell’era Covid, passando per il Great Awakening di Q. Puoi approfondire questo fenomeno? Cosa ci dice rispetto alla crisi, non solo economica ma anche di senso, dell’Occidente? 

Si parla molto di complottismo, perché negli ultimi anni da fenomeno di nicchia è diventato sempre più mainstream, e perché è inquietante e ridicolo al tempo stesso, quindi si presta a copertura mediatica. Ma se ne affrontano raramente le cause più profonde e ancora meno si presta attenzione alle istanze politiche che sottende. Ovviamente non va perso di vista il fatto che le teorie della cospirazione sono nella migliore delle ipotesi inutili e fuorvianti, e nella peggiore, perniciose per la salute e la sicurezza pubblica. Ma dato che siamo di fronte a un problema ormai caratteristico della società contemporanea, al punto da essere diventato una forma di discorso e di agire politico (prova ne è il moltiplicarsi di iniziative di debunking e fact-checking) vale la pena approfondirlo. Aldilà della demagogia senza scrupoli che usa le teorie del complotto come forma di manipolazione dell’opinione pubblica, o dell’ignoranza o ingenuità che accompagna il mindset cospirazionista, c’è da indagare soprattutto su cosa spinga le persone a farsi a irretire da narrazioni politiche, medico-scientifiche o economiche fantastiche, sganciate dalla realtà empirica, elaborate fino alla contorsione, e via via sempre più apocalittiche. Io personalmente ci vedo due cose. Sul piano dell’accesso al sapere e alla conoscenza, i complottismi rappresentano una forma culturale emersa (o ri-emersa) potentemente con i nuovi media, che hanno per così dire liberalizzato il sapere dando libero sfogo a una miriade di interpretazioni alternative della realtà rispetto a quelle autorizzate dalle strutture della conoscenza consolidate (i media di massa, la scuola, le istituzioni culturali). Le stesse nuove piattaforme tecnologiche hanno incoraggiato queste tendenze, traendone grandi profitti. Non stupisce quindi che i vecchi gatekeepers della conoscenza – la stampa e la televisione in primis – stia vivendo una generalizzata crisi di fiducia nell’opinione pubblica. Ma su un piano più profondo e politico, credo che le narrazioni politiche fittizie prodotte dal cospirazionismo nascano da un primitivo bisogno di reagire a una condizione di subalternità e fragilità politica. Penso ad esempio alle teorie della cospirazione emerse insieme al Covid, i cosiddetti movimenti antilockdown o nomask, che in modo scomposto e irrazionale manifestano una paura autentica per le ricadute economiche e sociali della pandemia. Tale reazione tuttavia non avviene attraverso strumenti critici, e non affronta le cause strutturali della propria condizione di debolezza o subalternità, ma cerca forme surrogate di critica politica e di emancipazione. Spesso, questa critica si muove attraverso una delle più elementari forme dell’agire umano, ossia lo storytelling. Il complottismo sostituisce la critica politica di fenomeni che sono spesso sotto gli occhi di tutti – la distruzione dell’ambiente, lo sfruttamento, la precarietà, l’alienazione, l’impoverimento morale tipici delle società tardocapitaliste – con trame occulte modellate su stilemi narrativi archetipici, come appunto l’esistenza di segrete accolite di potenti, o di abietti piani di sopraffazione ai danni dei più deboli. Molte teorie della cospirazione assomigliano a delle storie fantastiche, a volte a dei deliri visionari, o a delle sovversioni quasi carnevalesche della realtà. In alcuni casi nascono come delle folk tales, che poi mutano ed evolvono passando di bocca in bocca, o meglio di schermo in schermo, attraverso sempre più folli e creative rielaborazioni (anche se ai propugnatori di Pizzagate andrebbe ascritto il merito di aver intuito l’esistenza di un effettivo network di predatori sessuali altolocati capitanati da Epstein, larga parte dei quali è riuscito a scampare la giustizia). Questo perlomeno si può dire di teorie della cospirazione recenti come Pizzagate, lo stesso QAnon, e il Great Replacement, che sono tutte accomunate da un’ansia o postura vittimistica, o di protezione verso percepite vittime. I bambini vittimizzati da presunti network di predatori globali, ad esempio, sono un simbolo archetipico della vulnerabilità umana alla mercé di un potere cieco e perverso. O nel caso del Great Replacement, i blue collar workers bianchi, lasciati al palo dalle trasformazioni economiche imposte dalla globalizzazione, sono minacciati da presunte orde di migranti governate da élite tecnocratiche senza identità radicata nella patria (che richiama il vecchio tema cospirazionista antisemita). Ma è anche vero che se i bambini o i lavoratori non specializzati sono vittime, lo sono piuttosto di condizioni di vita sempre più malsane dal punto di vista ambientale e sanitario, o precarie dal punto di vista economico o psicologico, più che di fantomatiche Spectre di pedofili o globalisti. Quindi una teoria della cospirazione come Pizzagate sostituisce a una critica politica organica, una narrazione semplicistica e di immediato effetto emotivo, come quella collaudata del mostro predatore. Fra l’alto, è interessante che sia in QAnon che in Pizzagate l’accolita di pedofili sia afferente al milieu liberal-globalista, come se in controluce e in modo allegorico si volesse effettivamente avanzare una critica alle ingiustizie socioeconomiche imposte dalla globalizzazione neoliberale. Ma, ripeto, le teorie della cospirazione non avanzano una vera critica, quanto piuttosto un simulacro di critica, e in questo forniscono una facile gratificazione in forma di una partecipazione politica surrogata. Insieme all’elemento tematico di vittimizzazione, va considerato quello congiunto del filone apocalittico. La percezione di essere diventati vittime degenera facilmente in una visione apocalittica della realtà, in cui si avverte l’incombere di disegni occulti di annichilimento e totale sopraffazione da parte di forze arcane di cui non si ha né conoscenza né controllo, che generano un’angoscia quasi esistenziale per un futuro che non si vede più possibile. Se volessimo riconoscere alle teorie della cospirazione anche un minimo di valore politico, potremmo quindi dire che su un piano simbolico sembrano alludere proprio a un sentimento di grande inquietudine e di rabbia condivise dalle fasce più deboli delle democrazie occidentali, ossia quella di far parte di un progetto di civiltà destinato alla crisi e alla decadenza, vedi a proposito ciò che si diceva poc’anzi rispetto alla crisi del progetto di civiltà americana.

 

Nelle conclusioni tuo ultimo libro, Social Media and the Post-Truth World Order. The Global Dynamics of Disinformation (Palgrave 2020), parli della crisi epistemica che sta vivendo l’Occidente come parte di una più complessiva crisi del “pacchetto” della Modernità. «Un regime di verità sta morendo»: una crisi della narrazione moderna, una crisi della fiducia nel progresso, nella democrazia, nella scienza, nei “competenti”, che siano autorità, politici, giornalisti, tecnici, istituzioni, esperti, scienziati, virologi (qui la tua riflessione si incrocia a quella di Raffaele Alberto Ventura in Radical Choc e nella sua più complessiva Trilogia del collasso). Il cosiddetto establishment ha perso di credibilità di fronte alla complessità del presente, alle sfide del XXI secolo (in primis il climate change) e al mutamento dei rapporti di forza globali (la Grande convergenza cinese), ma nessuno sembra in grado di prendere seriamente il suo posto, men che meno i partiti o movimenti populisti e sovranisti, la cui “rivolta” abbiamo visto spegnersi o essere riassorbita. In questa fase di transizione, in questo lento crepuscolo, appaiono i mostri: sospetto, depressione, paranoia, millenarismo, radicalizzazione, impazzimento sociale. 

Un patto sociale si sta dissolvendo lasciando l’ombra di una ipotetica “guerra di tutti”? Secondo te si può parlare di crisi di civiltà, di una determinata civiltà, quella moderna capitalistica occidentale, e dell’antropologia a essa correlata? In che termini questo avviene a fronte della progressiva perdita di egemonia sui processi della globalizzazione e dell’innovazione a favore della convergenza dell’Asia, in particolare della Cina, e di una nuova narrazione che essa propone? Che prospettive per l’Europa (o ciò che ne rimane)? 

La pandemia è necessariamente il punto di svolta di molte delle tendenze che descrivi. Se è vero che il ciclo politico populista iniziato nel 2008 e culminato con Trump e la Brexit può aver incontrato una sua precoce conclusione – o perlomeno ridimensionamento – proprio grazie allo shock del Covid-19, è altrettanto vero che la stessa pandemia sta facendo emergere in modo sempre più drammatico le disuguaglianze sociali, la precarietà e la fragilità psicologica delle società tardocapitaliste. Siamo ancora nella fase iniziale di questo evento epocale, la fase sanitaria, in cui è giustamente data priorità alla salute e alla sicurezza. Ma al tempo stesso le crepe delle società occidentali si allargano sempre di più, e rischiano di diventare dei veri e propri baratri quando l’emergenza sanitaria sarà rientrata e dovremo fare i conti con il fallout economico e sociale. Ed è ovvio che la prima reazione è e sarà quella di chiedere conto alla classe politica – a cui per adesso, in via del tutto emergenziale, è stata ridato un temporaneo riconoscimento di autorità – del perché le nostre società così tecnologicamente e culturalmente avanzata si siano rivelate palesemente inadeguate a gestire una crisi sanitaria e le sue ramificazioni. D’altro canto, la sospensione della realtà causata dalle misure anti-Covid, e anche le prime interpretazioni epidemiologiche su come e dove il virus colpisce di più, ci permettono di rivedere con distanza critica molte delle modalità di vivere e di lavorare che davamo per scontate. Passare la maggior parte del nostro tempo in locali chiusi e climatizzati artificialmente, che favoriscono la diffusione di virus e batteri, spostarci con mezzi altamente inquinanti, che creano il particolato attraverso cui viaggiano agenti patogeni, consumare gran parte dei nostri risparmi in prodotti a obsolescenza programmata, depredando le risorse ambientali o invadendo gli ecosistemi animali da cui forse è scaturita la pandemia. O su scala più ampia, l’insostenibile forbice di reddito fra le classi sociali e la precarizzazione del lavoro e delle relazioni prodotte dalle politiche neoliberali, che in queste condizioni di emergenza rischiano di dare adito a veri e propri drammi sociali. Tutte cose di cui eravamo ben coscienti anche prima della pandemia, ma che non erano mai deflagrate in modo così evidente come durante la pandemia. In questo senso, sì può certamente parlare di crisi di civiltà. E forse è in già in atto un processo di autocritica collettiva, in cui, almeno in Occidente, ci si interroga su quale tipo di società vogliamo abitare nel futuro, che tipo di mondo vogliamo costruire sulle macerie lasciate dal Covid-19. Ma è anche vero che siamo ancora nel pieno di questa crisi e non ci è dato prevedere quanto durerà e di quale portata saranno le sue conseguenze, anche se l’imminente disponibilità di vaccini lascia qualche spiraglio di ottimismo. Le tendenze che delineavo nel mio libro (scritto prima che scoppiasse la pandemia, ma che si interrogava proprio su come la postverità fosse legata alla crisi della democrazia liberale e dell’egemonia occidentale) potrebbero quindi esasperarsi ancora di più. Le società occidentali, in primis l’America, potrebbero uscire nettamente sfigurate, se prevalgono le tendenze autodistruttive che paventi. Oppure rinnovate secondo nuove linee di pensiero e di agire politico, che abbiano tratto una vera lezione dalla pandemia. Ma, ripeto, è ancora presto per immaginare a quali scenari andremo incontro. Sicuramente ci sono numerosi indizi che ci fanno sospettare una più generale crisi della modernità di marca occidentale, basato sulla sollecitazione e soddisfazione costante dei bisogni e desideri dell’individuo, e della centratura delle libertà individuali come pernio politico-economico delle nostre società. Modello che già mostrava segni di difficoltà, e che sembra mostrato tutte le sue debolezze di fronte alla crisi sanitaria, soprattutto da quando la libertà di movimento – e quindi di consumo – ci è stata fortemente limitata. Certo è che, per ora, le società asiatiche hanno dimostrato maggior efficace nel gestire la pandemia, forse in virtù della loro precedente esperienza con la Sars, oppure perché governate da modelli e culture politiche che si prestano meglio a far rispettare direttive centralizzate, necessarie in emergenze come questa. La Cina, a mio avviso, non è ancora in grado di produrre una narrazione politica in grado da garantirle un ruolo di egemonia dei processi di globalizzazione nel prosieguo di questo secolo. È però vero che con un’abile combinazione di propaganda di vecchio e nuovo stampo, controllo sociale e biopolitico altamente sofisticato e spontanea adesione popolare, sta emergendo come il modello politico-sociale vincente, almeno nel breve. E forse la modernità cinese sarà diversa da quella occidentale, e più in grado di affrontare le grandi sfide di questo secolo, in primis il cambiamento climatico. La Cina è però attualmente legata a doppio filo alle stesse tendenze problematiche innescate dalla globalizzazione a trazione occidentale che descrivevo prima. È la grande fabbrica da cui escono i prodotti usa e getta che consumiamo in Occidente e che rendono le nostre vite forse più facili e divertenti ma alla lunga insostenibili su molteplici livelli. Per ora la Cina non sembra in grado di sganciarsi dalle logiche vigenti nelle catene produttive globalizzate, e di dar forma a una versione di modernità alternativa a quella occidentale, che tenga in conto e sappia trovare rimedio al collasso ambientale o alle catastrofi umanitarie causate da migrazioni, guerre e impoverimento nel Sud del mondo. Quello che mi sento di dire per ora come conclusione è che in questa terza decade del secolo, inaugurata quest’anno dalla più grave pandemia degli ultimi cento anni, si definiranno le tendenze principali che daranno l’orientamento alle politiche globali del futuro. Il Ventunesimo secolo è cominciato con vent’anni di ritardo, ma sta accelerando in modo vertiginoso verso inedite destinazioni.
 

Sezioni